Ecate
Plutarco
in De Iside et Osiride (44) dice che
Hecate corrisponde ad Anubis. Il cane era onorato in Egitto finché un cane non
addentò il bue Apis che poi fu ucciso da Cambise. Nel Macbeth Ecate è la signora delle streghe. A Ecate si rivolgono le
donne abbandonate Medea e Didone.
Pure Didone, lasciata da Enea,
invoca, con l'Erebo e il Caos, Ecate triplice ( tergeminamque Hecaten, Eneide
IV, 511) la dea "nocturnisque Hecate triviis ululata per urbes" (Eneide, IV, 609) chiamata a ululati nei trivi notturni per le
città. Hecate triformis[1]
è presente nella preghiera nera dei primi versi (v. 7) della Medea di Seneca.
Nelle Argonautiche di Apollonio Rodio, Argo, figlio di Calciope, sorella
di Medea, propone ai compagni di cercare l'aiuto di sua zia, una ragazza che la
dea Ecate ha particolarmente istruito a preparare farmaci quanti ne produce la
terra e il mare copioso. Con essi mitiga la vampa del fuoco instancabile, e
ferma in un attimo i fiumi che scorrono strepitosamente e inceppa gli astri e
le sacre vie della luna (III, 528-533). "La titolare di tutte questa
capacità è Medea e la luna non è affatto grata alla fanciulla del trattamento
che le riserva. Quando (IV, 54-65) la scorge percorrere rapidamente il sentiero
fuori delle mura per salvarsi dalle temute ire del padre, "abituata anche
prima a vagare spesso in cerca di morti e di nocive radici della terra",
non trattiene la sua gioia maligna e la chiama con l'epiteto assai poco
affettuoso di cagna"[2].
D’altra
parte: “Tutte le donne sono un po’ fattucchiere quando sono innamorate”[3].
Ecate compare
anche nel Macbeth: si rivolge alle streghe (the weird women, the weird
sisters, le donne, le sorelle fatali) rimproverandole di non averla
consultata, dato il suo ruolo:"And I, the mistress of your charms,/the
close contriver of all harms,/was never called to bear my part,/or show the
glory of our art?" (III, 5), e io, la signora dei vostri
incantesimi, la segreta progettatrice di tutti i mali, non sono mai stata
chiamata a fare la mia parte, o a mostrare la gloria dell'arte nostra?
Simeta è l'amante che vuole
avvincere l'uomo in fuga (II, v. 3), il bell'atleta Delfi, con filtri (favrmaka) degni di Circe (vv. 15- 16), di Medea,
nipote di Circe, figlia del sole, e della maga Perimede. Nel prepararli chiede
l'assistenza di Ecate tremenda, Ecate sotterranea che atterrisce anche i cani
(v. 12).
La serva Testili deve spargere la
farina e dire: spargo le ossa di Delfi. Simeta brucia l'alloro (davfnan ai[qw), sperando che si bruci
anche la carne di Delfi. Inoltre fa girare un piccolo uccello, la Torquilla o torcicollo (i\ugx) inchiodato su una ruota. E' simile
al picchio e può girare il becco all'indietro.
Il notturno
Dovrebbe attirare Delfi. Poi c'è
il topos del contrasto tra la quiete della natura e la pena del cuore. Simeta
arde tutta: pa'sa kataivqomai, mentre
tace il mare e tacciono i venti.
Così nell'Eneide.
Nemmeno
la notte che porta riposo a tutte le creature lenisce l'affanno[4]
dell'abbandonata:"Nox erat et
placidum carpebant fessa soporem[5]/corpora per terras silvaeque et saeva
quierant/aequora, cum medio volvontur sidera lapsu,/cum tacet omnis ager,
pecudes pictaeque volucres,/quaeque lacus late liquidos quaeque aspera
dumis/rura tenent, somno positae sub nocte silenti/(lenibant curas et corda
oblita laborum[6])/At non infelix animi Phoenissa neque umquam/solvitur in somnos
oculisve aut pectore noctem/accipit: ingeminant curae rursusque
resurgens/saevit amor magnoque irarum fluctuat aestu " (vv. 522-532),
era notte e i corpi stanchi raccoglievano per le terre il placido sonno e le
selve e le acque furiose erano tranquille, quando le stelle si volgono alla
metà del loro giro, quando tace ogni campo, le bestie e gli uccelli variopinti,
sia quelli che abitano per largo tratto i limpidi laghi, sia quelli delle campagne
ispide di cespugli, posati nel sonno sotto la notte silenziosa (calmavano gli
affanni e i cuori dimentichi delle fatiche). Ma la Fenicia infelice
nell'animo non si libera mai nel sonno e non accoglie la notte negli occhi o
nel petto: raddoppiano gli affanni, e l'amore, insorgendo di nuovo, infuria e
fluttua in un grande ribollimento di ire.
Ecco dunque il contrasto tra la quiete della
natura e l'agitazione della creatura che si sente in colpa. La tragedia in
effetti nasce sempre da un cozzo tra l'uomo e l'universo ai cui ritmi invece
ogni vivente deve adeguarsi. I modelli di questo notturno sono diversi. Il più
antico e suggestivo è quello di Alcmane[7]:"
Dormono le cime dei monti e i burroni/e le balze e anche le gole/e la selva le
specie degli animali quante ne nutre la nera terra/e le fiere montane e la
stirpe delle api/e i mostri negli abissi del mare purpureo; /dormono le razze
degli uccelli dalle ampie ali" (fr. 58 D.). Questo frammento probabilmente
faceva parte di un partenio recitato durante una festa notturna, e, da poesia
di occasione, è divenuto un topos con un seguito tanto lungo nella letteratura
europea che non è il caso di fare l'elenco delle imitazioni. Si può notare che
non mancano echi di formule omeriche, come del resto è di derivazione epica
l'osservazione attenta del mondo della natura. Tale attenzione è conseguenza di
un rapporto vivo con il mondo ed è rivolta alla quiete e all'armonia di un
cosmo da cui l'uomo non è ancora escluso.
Il contrasto rilevato da Virgilio invece si
trova in Apollonio Rodio quando cala la notte che porta il desiderio del sonno
a tutti, ma non a Medea tenuta sveglia dal desiderio di Giasone:" quindi
la notte portava la tenebra sopra la terra; nel mare i marinai fissarono l'Orsa
Maggiore e le stelle di Orione dalle navi, e qualche viandante e custode di
porte desiderava il sonno, e un denso torpore avvolgeva una madre di bambini
morti (kai;
tina paivdwn-mhtevra teqnewvtwn ajdino;n peri; kw'm j ejkavlupten” , vv.
747-748); né c'era più abbaiare di cani per la città, né chiasso sonoro: il
silenzio possedeva la tenebra che diventava nera. Ma il dolce sonno non prese
Medea: molti pensieri la tenevano sveglia poiché le mancava Giasone e temeva la
possente forza dei tori" (
Argonautiche , III, 744-753). Alla natura forte e sana del lirico arcaico è
già succeduto un mondo che incornicia il dolore degli uomini. Quella madre di
bimbi morti sembra anticipare vedove, orfani e simili creature sofferenti di
Pascoli.
Fine
notturno
CONTINUA
[1] "Divinità primitiva e trina (triformis
), essendo associata a divinità appartenenti ai tre regni: la luna (il cielo),
Diana (la terra) e Proserpina (gli inferi)". (G. G. Biondi, op. cit., p.
91, n. 5.)
[2] U. Albini, Atene segreta, p. 52.
[3] S. Màrai, La donna giusta, p. 204.
[4] Del resto nelle Metamorfosi di
Ovidio la notte è "curarum maxima nutrix " (VIII, 82) la più
potente nutrice di ansie amorose e infonde audacia erotica a Scilla innamorata
di Minosse.
[5]" Il passo ha un parallelo
famoso in Apollonio (III, 744 ss.), del quale possediamo anche una parte della
traduzione di Varrone Atacino (fr. 124 Pascal: Desierant latrare canes,
urbesque silebant:-omnia noctis erant placida composta quiete), che ha
ispirato più di un bel verso a V. Ma V. ha intonato qui uno dei suoi più bei
notturni, molto più largo, pacato e dolce dei suoi modelli, più tragicamente
contrastante con la situazione di Didone, ricchissimo di quei suoni S, R, L,
che creano veramente un'interpretazione musicale del silenzio". (R.
Calzecchi Onesti, op. cit., p. 301.)
[6]I migliori editori espungono questo
verso considerandolo un'interpolazione ricavata dal molto simile IX 225.
[7] Lirico corale, di lingua dorica, del VII secolo a. C.
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