Peter P. Rubens, La morte di Didone |
Didone dunque vuole spezzare la luce:" At trepida et
coeptis immanibus effera Dido,/sanguineam volvens aciem maculisque
trementis/interfusa genas et pallida morte futura,/interiora domus inrumpit
limina et altos /conscendit furibunda
rogos ensemque recludit/Dardanium,
non hos quaesitum munus in usus " (vv. 642-647), ma Didone, tremante e
feroce per il mostruoso proposito, roteando gli occhi iniettati di sangue e
chiazzata di macchie sulle guance frementi, e pallida per la morte vicina, si
precipita nell'interno del palazzo, sale furibonda sull'alto rogo e snuda la
spada di Enea, dono richiesto non per questo uso - sanguineam… aciem: gli
occhi sono sempre i primi significatori del male come del bene.
Leopardi osserva
"che gli occhi sono la principal parte della sembianza umana, e tanto più
belli quanto più notabili, e quindi quanto più vivi. E che in essi veramente si
dipinge la vita e l'anima dell'uomo (e degli animali); e però quanto più son
grandi, tanto maggiore apparisce realmente l'anima e la vitalità e
la vita interna dell'animale (Zibaldone, 2548) - trementis
(=trementes) genas: accusativo di relazione retto da interfusa -morte
futura: è la pestis futura di I 712 sempre più imminente, già
dipinta sul volto della vittima pallida - limina: lett. "le
soglie", qui per sineddoche indica una parte del palazzo.- ensemque:
un dono di Enea. Nell'XI canto il figlio di Venere ricoprirà il corpo di
Pallante con una delle due vesti che
Didone, laeta laborum (v. 73) allietata da tale impegno, aveva trapunto
d'oro per lui:"Si tratta semplicemente di un'ennesima variazione sul tema
omerico e tragico del dono funesto, come è stato nel IV libro per la spada che
fu munus di Enea a colei che doveva morirne? O non è piuttosto la
maniera, stupendamente indiretta, che Virgilio ha trovato per stimolare la
"memoria" del lettore, richiamandogli la concatenazione tragica dei
destini, per cui il primo evento conteneva e presagiva il secondo, e
presentandogli Enea nell'atto di riconoscere questa concatenazione e di
accettarne tacitamente il peso?"[1].
La spada donata e impiegata per il suicidio risale all'Aiace
di Sofocle dove il Telamonio si uccide con la spada ricevuta in dono da Ettore[2]
dopo averla ricordata come e[cqiston belw'n
(v. 658), la più odiosa tra le armi e avere sentenziato che non sono doni i
doni dei nemici e non sono vantaggiosi:"ejcqrw'n
a[dwra dw'ra kujk ojnhvsima" (v. 665).
In questo modo Virgilio ci riporta attraverso Sofocle a
Omero. E' già il metodo mitico.
D'altra parte non è difficile individuare nella spada un
simbolo fallico, sulle tracce di Freud:" Tutti gli oggetti allungati:
bastoni, tronchi, ombrelli (per il modo di aprirli, che può essere paragonato
all'erezione!) intendono rappresentare il membro maschile, così come tutte le
armi lunghe e acuminate coltelli, pugnali, picche"[3].
A maggior ragione questa spada nata come segno d'amore.
Meno malizioso del mio il commento di Conte:"A
conclusione di una serie di azioni dal ritmo serrato, viene ora il gesto di sguainare
la spada appartenuta all'eroe troiano: il narratore puntualizza che si tratta
di un dono dei momenti felici dell'amore (e che la notazione rivesta una
qualche importanza ce lo dice già la cura formale del passo, dove un iperbato
si accavalla a un'anastrofe in uno spazio davvero ristretto). Bene: noi
sappiamo che in ogni racconto c'è una sorta di legge, quella della motivazione compositiva, per cui nessun oggetto deve rimanere
inutilizzato e nessun episodio deve restare senza conseguenze: succede
così che questo oggetto, regalato un tempo come segno d'amore, diventa
ora-inevitabilmente-strumento di morte per chi lo ha ricevuto. E' il motivo dei
doni fatali a chi li riceve, sviluppato dalla tragedia greca e però già noto in
Omero: Aiace si uccide con la spada regalatagli da Ettore"[4].-munus:
è uno dei termini "derivati dalla radice *mei- , 'dare in cambio'...In effetti, munus ha il senso di
'dovere, carica ufficiale'...Ma come associare l'idea di 'carica' espressa da munus con quella di 'scambio' indicata dalla radice?
Festo[5]
ci mette sulla strada definendo munus come "donum quod officii causa datur[6]." Si
designano in effetti con munus, nei
doveri del magistrato, gli spettacoli e i giochi. La nozione di 'scambio' vi è implicita"[7].
Didone si uccide conservando comunque il senso della propria
grandezza poiché se non è possibile la felicità nella vita, per i magnanimi è
sempre possibile, in una forma o in un'altra, la grandezza dell'eroismo: "Hic,
postquam Iliacas vestes notumque cubile/conspexit, paulum lacrimis et mente
morata/incubuitque toro dixitque novissima verba: "Dulces exuviae, dum
fata deusque sinebat,/accipite hanc animam meque his exsolvite curis./Vixi et quem dederat cursum Fortuna peregi,/et nunc magna mei sub
terras ibit imago " (vv. 648-654), Allora, come ebbe visto le vesti
troiane e il ben noto letto nuziale, dopo avere indugiato un poco in lacrime e
pensieri, si gettò distesa sul talamo e disse le ultime parole:"O care
spoglie, finché il destino e un dio lo permettevano, accogliete quest'anima e
liberatemi da questi affanni. Ho vissuto e compiuto il percorso che la Fortuna mi aveva
assegnato, e ora, grande. l'ombra della mia persona andrà sotto terra.-cubile…toro:
Si può riferire anche a Didone quanto scrive Steiner per Antigone :" piange non solo
l'annientamento della sua giovane vita, ma l'annientamento dentro di sé di
quelle altre vite future che solo una donna può generare. Se nelle simmetrie
della condizione mortale esiste una controparte alla tomba, questa è
rappresentata dal letto nuziale e dal letto puerperale (così spesso uniti nelle
immagini e nelle metafore). "[8]. Magna
ha valore predicativo.
La Fortuna
La fortuna corrisponde
alla Tuvch la cui presenza è molto forte in gran parte della letteratura ellenistica,
cominciando anzi da Euripide con il quale si trasformano o tramontano gli dèi
tradizionali, mentre al loro posto si alza nel cielo la sorte ambigua,
cangiante e capricciosa: l'infausta tuvch è subentrata ai fausti dèi. La regina
protagonista dell' Ecuba[9] la considera una dei tiranni di un'umanità
rimasta senza fedi né valori, una specie di creature materialiste, sanguinarie,
idolatre:"non c'è tra i mortali chi sia libero:/infatti siamo schiavi
delle ricchezze oppure della sorte"(vv. 864-865). L'uomo cerca di vivere
secondo ragione, ma i suoi tentativi vengono frustrati dalla fortuna. La sua
difesa e salvezza stanno nel considerarla con calma ironica.
Nello Ione[10]
, che prelude più di ogni dramma euripideo alla commedia di Menandro, il
riconoscimento del figlio da parte della madre avviene attraverso casi
fortuiti, per mezzo di questa tyche
oramai spogliata da connotazioni teologiche. La sorte dunque non è
costantemente maligna: Ione che è stato sul punto di uccidere la madre le
rivolge un'apostrofe:"O tu che cambi mille volte le sorti dei mortali:/ li
getti nella sventura, poi doni loro il successo/ Tuvch..."(vv.1512-1514).
Euripide
nell'Eracle[11]
fa dire ad Anfitrione:"oi{ tì eujtucou'nte" dia; tevlou" oujk
eujtucei'".-ejxivstatai ga;r pavnt'
ajp' ajllhvlwn divca"
(vv. 103-104), chi ha fortuna non è fortunato sino alla fine. Si spostano
infatti tutte le cose da una parte all'altra vicendevolmente. Poco più avanti
lo stesso personaggio facendo l'elogio dell'arciere e del suo equipaggiamento
afferma con una felice metafora marina
che è cosa saggia non essere
ormeggiato alla sorte (sofovn…mh; 'k tuvch" wJrmismevnon , v. 203).
La Fortuna è la divinità di Menandro: nel Misantropo , Sostrato il giovane ricco
che vuole sposare una ragazza povera e dare in moglie a un povero sua sorella,
replica al padre il quale esita a " prendersi insieme un genero e una
nuora pezzenti"(v. 795), con l'affermazione che tutto quanto appartiene a
un uomo non è veramente suo, ma della Sorte la quale, come ha dato, può togliere.
Polibio nelle sue Storie torna spesso a parlare della Fortuna
indicandola quale grande potenza che manovra le vicende umane a proprio
arbitrio: Emilio Paolo, dopo Pidna mostrava Perseo, il re macedone sconfitto e
umiliato, ai circostanti e li esortava a non esaltarsi troppo per i successi a
non decidere con arroganza o in modo inesorabile verso alcuno, e, in generale,
a non fidarsi mai del tutto della prosperità presente ("mhvte kaqovlou pisteuvein mhdevpote tai'"
parouvsai" eujtucivai"", XXIX 20 1).
Polibio ricorda anche
le parole di Demetrio Falereo[12]
il quale scrisse un trattato Sulla Tyche , e, dalla distruzione dell'impero persiano da
parte di Alessandro, inferisce la crudeltà e la volubilità della Fortuna che
tutto continua a mutare contro ogni calcolo nostro ("panta para; to;n logismo;n to;n hJmevteron
kainopoiou'sa", XXIX 21, 5).
Nel libro XXIII lo storiografo di Megalopoli, riflettendo
sulla morte di Filopemene, scrive che egli cadde battuto, più che dai Messeni,
dalla Fortuna la quale può sostenere un
essere umano a lungo, però mai per tutta la vita. I fortunati allora sono
coloro che, raramente abbandonati dalla Fortuna, anche se quella una volta cambia parere, subiscono disavventure di
modesta entità ("ka[n pote metanoh'/,
metrivai" peripesovnta" sumforai'"", 12, 6).
Un altro esempio di mutevolezza della Fortuna, Polibio lo
ricava dal fatto che al tempo della Terza guerra Punica nel Peloponneso furono
rimesse alla luce ("eij" to;
fw'"") le statue dello stratego Licorta[13]
e riposte al buio ("kata; to;
skovto"", XXXVI, 13, 1) quelle del delatore Callicrate: quindi
si capì che la funzione della Tyche è quella di rovesciare le situazioni
e sottomettere i legislatori alle leggi che essi stessi hanno concepito. Qui
invero la Fortuna
non sembra indifferente alla Giustizia.
Un' ultima riflessione polibiana sulla Fortuna si trova
nella conclusione delle Storie dove l'autore si augura di non cambiare
condizioni né disposizione d'animo, dato che vede la Tuvch pronta a invidiare gli uomini e spiegare tutta la sua forza soprattutto nei
casi in cui uno crede di avere conseguito il massimo della felicità e del
successo nella vita. In quest'ultima riflessione la Fortuna sembra simile alla
divinità erodotea la quale, invidiosa e perturbatrice (I, 32), non permette a
Policrate di Samo, o a Creso di Lidia, o a Serse di Persia, di rimanere a lungo
sui vertici della ricchezza e del potere.
Un riconoscimento
dell'onnipotenza della Fortuna si trova nella Vita di Demetrio (35) di Plutarco il quale, a proposito delle alterne
vicende del grande avventuriero epigono di Alessando Magno, fa questo commento
:"Sembra che non ci sia stato altro re cui la Fortuna abbia imposto
rivolgimenti così grandi e improvvisi come a Demetrio; e che ella stessa, la Sorte , non sia stata, nelle vicende
degli altri sovrani, tante volte piccola e poi grande, né divenne tanto umile
da splendida che era, e poi ancora, da misera potente. Dicono che Demetrio nei
più gravi sconvolgimenti apostrofava la Fortuna con le parole di Eschilo[14]:
"Tu che mi hai fatto, ora sembri schiacciarmi".
La riflessione sulla
mutevolezza della sorte non è soltanto ellenistica o euripidèa: si pensi al
discorso di Solone a Creso in Erodoto quando il saggio ateniese dice al
pacchiano re barbaro che l'uomo è del tutto in balia del caso (pa'n ejsti a[nqrwpo" sumforhv, I 32);
oppure, risalendo ancora molto più indietro, si ricordi Archiloco il quale rivolge un'ammonizione
"fatalistica" a se stesso in questi termini: animo (qumevv), animo sconvolto da affanni senza
rimedio/sorgi e difenditi dai malevoli, contrapponendo/il petto di fronte,
piantandoti vicino agli agguati dei nemici/con sicurezza: e quando vinci non
gloriartene davanti a tutti,/e, vinto, non gemere buttandoti a terra in
casa./Ma nelle gioie gioisci e nei dolori affliggiti/non troppo: riconosci
quale ritmo governa gli uomini ("mh;
livhn / givgnwske d& oi'Jo"
rJusmo;" ajnqrwvpou" e[cei", fr. 67aD. ) .
Nella Parodo delle Trachinie di
Sofocle il Coro invita Deianira desolata per le lunghe e quasi
continue assenze di Eracle a non disperare:"all'
ejpi; ph'ma kai; cara;-pa'si kuklou'sin, oi|on a[r-ktou strofavde"
kevleuqoi-- mevnei gar ou[t' aijovla-nu;x brotoi'sin
ou[te plou'to", ajll' a[far-bevbake, tw'/
ejpevrcetai-caivrein te kai; stevresqai" (vv. 129-135), ma la pena
e la gioia girano attorno a tutti, come i cammini dell'Orsa che ruota. Infatti
non dura la notte stellata per i mortali, né la ricchezza, ma appena è arrivato
passa ad un altro l’essere felice e l’ essere privo
Passiamo alla
letteratura latina: Seneca ripropone questa gnome radicalizzandola nella
consolazione indirizzata alla madre Elvia dall'esilio in Corsica[15]:"nec
secunda sapientem evĕhunt, nec adversa demittunt" (Ad Helv.
, 5, 1), i successi non esaltano il
saggio e le avversità non lo abbattono. Infatti tutto ciò che viene
dall'esterno e non dipende da noi è di poca importanza:"leve momentum
in adventiciis rebus est ". Bisogna stare sempre all'erta contro gli
attacchi della fortuna:"Illis gravis est, quibus repentina est: facile
eam sustĭnet qui semper expectavit " (5, 3), è terribile per quelli
sui quali giunge imprevista: le resiste facilmente chi ne aspetta sempre
l'attacco.
Tacito nelle Historiae ( I, 18) afferma, come abbiamo visto, che quanto spetta
al destino non si evita nemmeno se veniamo preavvisati, mentre negli Annales lo storiografo dichiara di non sapere se le vicende umane si
svolgano regolate dal fato e da una necessità immutabile, oppure vadano a
caso:" mihi...in incerto iudicium est fatone res mortalium
et necessitate immutabili an forte volvantur " (VI, 22) .
Concludiamo con Il
Principe : Nel penultimo capitolo Machiavelli
volendo stabilire "Quanto possa la Fortuna nelle cose umane e in che modo se li
abbia a resistere" attribuisce tanta importanza alla fortuna quanta alla
capacità dell'uomo: " iudico potere esser vero che la fortuna sia arbitra
della metà delle azioni nostre, ma che etiam lei ne lasci governare l'altra metà, o presso, a noi"[16].
Pertanto non bisogna
"iudicare" che non si debba "insudare molto nelle cose ma
lasciarsi governare dalla sorte". Infatti la fortuna"dimostra la sua
potenzia dove non è ordinata virtù a resisterle, e quivi volta li sua impeti,
dove la sa che non sono fatti li argini e li ripari a tenerla".
[1]
M. Barchiesi, I moderni alla ricerca di Enea, p. 32.
[2]
Cfr. Iliade, VII, 303.
[3]S. Freud, L'interpretazione dei sogni , p. 327.
[4] G. B. Conte, Scriptorium Classicum,
3, p. 275.
[5]
Epitomatore del II-III secolo d. C. Ha riassunto il De verborum significatu , opera lessicale di Verrio Flacco,
grammatico antiquario dell'età di Augusto, precettore dei nipoti del principe.
[6]
Dono che si dà per un dovere.
[7]
E. Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, p. 71.
[8]G.
Steiner, Le Antigoni , p. 270.
[9] 425-424 ? a. C.
[10] 411 ? a. C.
[11]
Di cronologia incerta: tra il 423 e il 414.
[12]
Scrittore, filosofo peripatetico e uomo politico che governò Atene per
Cassandro, reggente di Macedonia, dal 317 al 307.
[13]Che poi era il padre dello
storiografo.
[14]fr. 359 Nauck.
[15] Dove era dovuto andare nel 41 d.
C. La Consolatio
è del 42 o 43 d. C.
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