NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

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giovedì 19 febbraio 2015

La storia di Didone, XIII parte

Peter P. Rubens, La morte di Didone

Didone dunque vuole spezzare la luce:" At trepida et coeptis immanibus effera Dido,/sanguineam volvens aciem maculisque trementis/interfusa genas et pallida morte futura,/interiora domus inrumpit limina et altos /conscendit furibunda rogos ensemque recludit/Dardanium, non hos quaesitum munus in usus " (vv. 642-647), ma Didone, tremante e feroce per il mostruoso proposito, roteando gli occhi iniettati di sangue e chiazzata di macchie sulle guance frementi, e pallida per la morte vicina, si precipita nell'interno del palazzo, sale furibonda sull'alto rogo e snuda la spada di Enea, dono richiesto non per questo uso - sanguineam… aciem: gli occhi sono sempre i primi significatori del male come del bene.
Leopardi osserva "che gli occhi sono la principal parte della sembianza umana, e tanto più belli quanto più notabili, e quindi quanto più vivi. E che in essi veramente si dipinge la vita e l'anima dell'uomo (e degli animali); e però quanto più son grandi, tanto maggiore  apparisce realmente l'anima e la vitalità e la vita interna dell'animale (Zibaldone, 2548) - trementis (=trementes) genas: accusativo di relazione retto da interfusa  -morte futura: è la pestis futura di I 712 sempre più imminente, già dipinta sul volto della vittima pallida limina: lett. "le soglie", qui per sineddoche indica una parte del palazzo.- ensemque: un dono di Enea. Nell'XI canto il figlio di Venere ricoprirà il corpo di Pallante con una delle due vesti  che Didone, laeta laborum (v. 73) allietata da tale impegno, aveva trapunto d'oro per lui:"Si tratta semplicemente di un'ennesima variazione sul tema omerico e tragico del dono funesto, come è stato nel IV libro per la spada che fu munus di Enea a colei che doveva morirne? O non è piuttosto la maniera, stupendamente indiretta, che Virgilio ha trovato per stimolare la "memoria" del lettore, richiamandogli la concatenazione tragica dei destini, per cui il primo evento conteneva e presagiva il secondo, e presentandogli Enea nell'atto di riconoscere questa concatenazione e di accettarne tacitamente il peso?"[1].
La spada donata e impiegata per il suicidio risale all'Aiace di Sofocle dove il Telamonio si uccide con la spada ricevuta in dono da Ettore[2] dopo averla ricordata come e[cqiston belw'n (v. 658), la più odiosa tra le armi e avere sentenziato che non sono doni i doni dei nemici e non sono vantaggiosi:"ejcqrw'n a[dwra dw'ra kujk ojnhvsima" (v. 665).
In questo modo Virgilio ci riporta attraverso Sofocle a Omero. E' già il metodo mitico.
D'altra parte non è difficile individuare nella spada un simbolo fallico, sulle tracce di Freud:" Tutti gli oggetti allungati: bastoni, tronchi, ombrelli (per il modo di aprirli, che può essere paragonato all'erezione!) intendono rappresentare il membro maschile, così come tutte le armi lunghe e acuminate coltelli, pugnali, picche"[3]. A maggior ragione questa spada nata come segno d'amore.
Meno malizioso del mio il commento di Conte:"A conclusione di una serie di azioni dal ritmo serrato, viene ora il gesto di sguainare la spada appartenuta all'eroe troiano: il narratore puntualizza che si tratta di un dono dei momenti felici dell'amore (e che la notazione rivesta una qualche importanza ce lo dice già la cura formale del passo, dove un iperbato si accavalla a un'anastrofe in uno spazio davvero ristretto). Bene: noi sappiamo che in ogni racconto c'è una sorta di legge, quella della motivazione compositiva, per cui nessun oggetto deve rimanere inutilizzato e nessun episodio deve restare senza conseguenze: succede così che questo oggetto, regalato un tempo come segno d'amore, diventa ora-inevitabilmente-strumento di morte per chi lo ha ricevuto. E' il motivo dei doni fatali a chi li riceve, sviluppato dalla tragedia greca e però già noto in Omero: Aiace si uccide con la spada regalatagli da Ettore"[4].-munus: è uno dei termini "derivati dalla radice *mei- , 'dare in cambio'...In effetti, munus  ha il senso di 'dovere, carica ufficiale'...Ma come associare l'idea di 'carica' espressa da munus  con quella di 'scambio' indicata dalla radice? Festo[5] ci mette sulla strada definendo munus  come "donum quod officii causa datur[6]." Si designano in effetti con munus, nei doveri del magistrato, gli spettacoli e i giochi. La nozione di 'scambio' vi è implicita"[7].
Didone si uccide conservando comunque il senso della propria grandezza poiché se non è possibile la felicità nella vita, per i magnanimi è sempre possibile, in una forma o in un'altra, la grandezza dell'eroismo: "Hic, postquam Iliacas vestes notumque cubile/conspexit, paulum lacrimis et mente morata/incubuitque toro dixitque novissima verba: "Dulces exuviae, dum fata deusque sinebat,/accipite hanc animam meque his exsolvite curis./Vixi et quem dederat cursum Fortuna peregi,/et nunc magna mei sub terras ibit imago " (vv. 648-654), Allora, come ebbe visto le vesti troiane e il ben noto letto nuziale, dopo avere indugiato un poco in lacrime e pensieri, si gettò distesa sul talamo e disse le ultime parole:"O care spoglie, finché il destino e un dio lo permettevano, accogliete quest'anima e liberatemi da questi affanni. Ho vissuto e compiuto il percorso che la Fortuna mi aveva assegnato, e ora, grande. l'ombra della mia persona andrà sotto terra.-cubile…toro: Si può riferire anche a Didone quanto scrive Steiner per  Antigone :" piange non solo l'annientamento della sua giovane vita, ma l'annientamento dentro di sé di quelle altre vite future che solo una donna può generare. Se nelle simmetrie della condizione mortale esiste una controparte alla tomba, questa è rappresentata dal letto nuziale e dal letto puerperale (così spesso uniti nelle immagini e nelle metafore). "[8].   Magna ha valore predicativo.

La Fortuna
La fortuna corrisponde alla Tuvch  la cui presenza è molto forte  in gran parte della letteratura ellenistica, cominciando anzi da Euripide con il quale si trasformano o tramontano gli dèi tradizionali, mentre al loro posto si alza nel cielo la sorte ambigua, cangiante e capricciosa: l'infausta tuvch  è subentrata ai fausti dèi. La regina protagonista dell' Ecuba[9]  la considera una dei tiranni di un'umanità rimasta senza fedi né valori, una specie di creature materialiste, sanguinarie, idolatre:"non c'è tra i mortali chi sia libero:/infatti siamo schiavi delle ricchezze oppure della sorte"(vv. 864-865). L'uomo cerca di vivere secondo ragione, ma i suoi tentativi vengono frustrati dalla fortuna. La sua difesa e  salvezza  stanno nel considerarla con calma ironica.
 Nello Ione[10] , che prelude più di ogni dramma euripideo alla commedia di Menandro, il riconoscimento del figlio da parte della madre avviene attraverso casi fortuiti, per mezzo di questa tyche oramai spogliata da connotazioni teologiche. La sorte dunque non è costantemente maligna: Ione  che è stato sul punto di uccidere la madre le rivolge un'apostrofe:"O tu che cambi mille volte le sorti dei mortali:/ li getti nella sventura, poi doni loro il successo/ Tuvch..."(vv.1512-1514).
Euripide nell'Eracle[11] fa dire ad Anfitrione:"oi{ tì eujtucou'nte" dia; tevlou" oujk eujtucei'".-ejxivstatai ga;r pavnt' ajp' ajllhvlwn divca" (vv. 103-104), chi ha fortuna non è fortunato sino alla fine. Si spostano infatti tutte le cose da una parte all'altra vicendevolmente. Poco più avanti lo stesso personaggio facendo l'elogio dell'arciere e del suo equipaggiamento afferma con una felice metafora marina  che  è cosa saggia non essere ormeggiato alla sorte (sofovnmh;  'k tuvch" wJrmismevnon , v. 203).
La Fortuna è la divinità di Menandro: nel Misantropo , Sostrato il giovane ricco che vuole sposare una ragazza povera e dare in moglie a un povero sua sorella, replica al padre il quale esita a " prendersi insieme un genero e una nuora pezzenti"(v. 795), con l'affermazione che tutto quanto appartiene a un uomo non è veramente suo, ma della Sorte la quale, come ha dato, può togliere.
Polibio nelle sue Storie  torna spesso a parlare della Fortuna indicandola quale grande potenza che manovra le vicende umane a proprio arbitrio: Emilio Paolo, dopo Pidna mostrava Perseo, il re macedone sconfitto e umiliato, ai circostanti e li esortava a non esaltarsi troppo per i successi a non decidere con arroganza o in modo inesorabile verso alcuno, e, in generale, a non fidarsi mai del tutto della prosperità presente ("mhvte kaqovlou pisteuvein mhdevpote tai'" parouvsai" eujtucivai"", XXIX 20 1).
Polibio  ricorda anche le parole di Demetrio Falereo[12] il quale scrisse  un trattato Sulla Tyche ,  e, dalla distruzione dell'impero persiano da parte di Alessandro, inferisce la crudeltà e la volubilità della Fortuna che tutto continua a mutare contro ogni calcolo nostro ("panta para; to;n logismo;n to;n hJmevteron kainopoiou'sa", XXIX 21, 5).
Nel libro XXIII lo storiografo di Megalopoli, riflettendo sulla morte di Filopemene, scrive che egli cadde battuto, più che dai Messeni, dalla Fortuna la quale può sostenere  un essere umano a lungo, però mai per tutta la vita. I fortunati allora sono coloro che, raramente abbandonati dalla Fortuna, anche se quella una volta  cambia parere, subiscono disavventure di modesta entità ("ka[n pote metanoh'/, metrivai" peripesovnta" sumforai'"", 12, 6).
Un altro esempio di mutevolezza della Fortuna, Polibio lo ricava dal fatto che al tempo della Terza guerra Punica nel Peloponneso furono rimesse alla luce ("eij" to; fw'"") le statue dello stratego Licorta[13] e riposte al buio ("kata; to; skovto"", XXXVI, 13, 1) quelle del delatore Callicrate: quindi si capì che la funzione della Tyche è quella di rovesciare le situazioni e sottomettere i legislatori alle leggi che essi stessi hanno concepito. Qui invero la Fortuna non sembra indifferente alla Giustizia.
Un' ultima riflessione polibiana sulla Fortuna si trova nella conclusione delle Storie  dove l'autore si augura di non cambiare condizioni né disposizione d'animo, dato che vede la Tuvch  pronta a invidiare gli uomini e  spiegare tutta la sua forza soprattutto nei casi in cui uno crede di avere conseguito il massimo della felicità e del successo nella vita. In quest'ultima riflessione la Fortuna sembra simile alla divinità erodotea la quale, invidiosa e perturbatrice (I, 32), non permette a Policrate di Samo, o a Creso di Lidia, o a Serse di Persia, di rimanere a lungo sui vertici della ricchezza e del potere.
 Un riconoscimento dell'onnipotenza della Fortuna si trova nella Vita di Demetrio (35) di Plutarco il quale, a proposito delle alterne vicende del grande avventuriero epigono di Alessando Magno, fa questo commento :"Sembra che non ci sia stato altro re cui la Fortuna abbia imposto rivolgimenti così grandi e improvvisi come a Demetrio; e che ella stessa, la Sorte, non sia stata, nelle vicende degli altri sovrani, tante volte piccola e poi grande, né divenne tanto umile da splendida che era, e poi ancora, da misera potente. Dicono che Demetrio nei più gravi sconvolgimenti apostrofava la Fortuna con le parole di Eschilo[14]: "Tu che mi hai fatto, ora sembri schiacciarmi".
 La riflessione sulla mutevolezza della sorte non è soltanto ellenistica o euripidèa: si pensi al discorso di Solone a Creso in Erodoto quando il saggio ateniese dice al pacchiano re barbaro che l'uomo è del tutto in balia del caso (pa'n ejsti a[nqrwpo" sumforhv, I 32); oppure, risalendo ancora molto più indietro, si ricordi  Archiloco il quale  rivolge un'ammonizione "fatalistica" a se stesso in questi termini: animo (qumevv), animo sconvolto da affanni senza rimedio/sorgi e difenditi dai malevoli, contrapponendo/il petto di fronte, piantandoti vicino agli agguati dei nemici/con sicurezza: e quando vinci non gloriartene davanti a tutti,/e, vinto, non gemere buttandoti a terra in casa./Ma nelle gioie gioisci e nei dolori affliggiti/non troppo: riconosci quale ritmo governa gli uomini ("mh; livhn / givgnwske d& oi'Jo"  rJusmo;" ajnqrwvpou" e[cei", fr. 67aD. ) .
 Nella Parodo delle Trachinie di Sofocle  il Coro invita  Deianira desolata per le lunghe e quasi continue assenze di Eracle a non disperare:"all' ejpi; ph'ma kai; cara;-pa'si kuklou'sin, oi|on a[r-ktou strofavde" kevleuqoi-- mevnei gar ou[t' aijovla-nu;x brotoi'sin ou[te plou'to", ajll' a[far-bevbake, tw'/ ejpevrcetai-caivrein te kai; stevresqai" (vv. 129-135), ma la pena e la gioia girano attorno a tutti, come i cammini dell'Orsa che ruota. Infatti non dura la notte stellata per i mortali, né la ricchezza, ma appena è arrivato passa ad un altro l’essere felice e l’ essere privo  
Passiamo alla letteratura latina: Seneca ripropone questa gnome radicalizzandola nella consolazione indirizzata alla madre Elvia dall'esilio in Corsica[15]:"nec secunda sapientem evĕhunt, nec adversa demittunt" (Ad Helv. ,  5, 1), i successi non esaltano il saggio e le avversità non lo abbattono. Infatti tutto ciò che viene dall'esterno e non dipende da noi è di poca importanza:"leve momentum in adventiciis rebus est ". Bisogna stare sempre all'erta contro gli attacchi della fortuna:"Illis gravis est, quibus repentina est: facile eam sustĭnet qui semper expectavit " (5, 3), è terribile per quelli sui quali giunge imprevista: le resiste facilmente chi ne aspetta sempre l'attacco. 
  Tacito nelle Historiae ( I, 18) afferma, come abbiamo visto, che quanto spetta al destino non si evita nemmeno se veniamo preavvisati, mentre negli   Annales   lo storiografo  dichiara di non sapere se le vicende umane si svolgano regolate dal fato e da una necessità immutabile, oppure vadano a caso:" mihi...in incerto iudicium est fatone res mortalium et necessitate immutabili an forte volvantur " (VI, 22) .
Concludiamo con Il Principe :   Nel penultimo capitolo Machiavelli volendo stabilire "Quanto possa la Fortuna nelle cose umane e in che modo se li abbia a resistere" attribuisce tanta importanza alla fortuna quanta alla capacità dell'uomo: " iudico potere esser vero che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma che etiam lei ne lasci governare  l'altra metà, o presso, a noi"[16]. Pertanto  non bisogna "iudicare" che non si debba "insudare molto nelle cose ma lasciarsi governare dalla sorte". Infatti la fortuna"dimostra la sua potenzia dove non è ordinata virtù a resisterle, e quivi volta li sua impeti, dove la sa che non sono fatti li argini e li ripari a tenerla".



[1] M. Barchiesi, I moderni alla ricerca di Enea, p. 32.
[2] Cfr. Iliade, VII, 303.
[3]S. Freud, L'interpretazione dei sogni , p. 327.
[4] G. B. Conte, Scriptorium Classicum, 3, p. 275.
[5] Epitomatore del II-III secolo d. C. Ha riassunto il De verborum significatu , opera lessicale di Verrio Flacco, grammatico antiquario dell'età di Augusto, precettore dei nipoti del principe.
[6] Dono che si dà per un dovere.
[7] E. Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee,  p. 71.
[8]G. Steiner, Le Antigoni , p. 270.
[9]  425-424 ? a. C.
[10]  411 ? a. C.
[11] Di cronologia incerta: tra il 423 e il 414.
[12] Scrittore, filosofo peripatetico e uomo politico che governò Atene per Cassandro, reggente di Macedonia, dal 317 al 307.
[13]Che poi era il padre dello storiografo.
[14]fr. 359 Nauck.
[15] Dove era dovuto andare nel 41 d. C. La Consolatio è del 42 o 43 d. C.
[16]Il Principe , XXV.

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