Rovine di Cartagine |
Didone riconosce a se stessa delle capacità realizzative che
l'avrebbero anche resa felice se non avesse incontrato Enea: "Urbem
praeclaram statui, mea moenia vidi, /ulta virum poenas inimico a fratre recepi:
/heu nimium felix, si litora
tantum/numquam Dardaniae tetigissent carinae " (vv. 655-658), ho
fondato una città splendida, ho visto mura mie, vendicato il marito, ho punito
il fratello nemico: oh troppo felice, se solo le le navi della Dardania non
avessero mai toccato le nostre coste! "I tre perfetti statui, vidi, recepi
scandiscono orgogliosamente le sue res gestae…Ulta è participio
congiunto con valore temporale, inimico a fratre anastrofe. L'esclamazione
successiva felix, heu nimium felix è, in termini sintattici, l'apodosi
ellittica del seguente periodo ipotetico dell'irrealtà"[1]
Il rimpianto della
non conoscenza del seduttore che ha sconvolto la vita, il desiderio di
annullare la tragica storia d'amore appartiene già alla Medea di Euripide (v. 1 e ss. ), a quella di Apollonio Rodio ( Le Argonautiche, IV, 32-33), a quella di
Ennio (246-9 Vahlen 2) e all'Arianna dell'opus
maximum di Catullo: "utinam ne
tempore primo/Gnosia Cecropiae tetigissent litora puppes " (64, 171-172),
oh se mai fin dal primo momento le navi cecropie non avessero toccato le rive
di Cnosso! "Un modo sottile di richiamare le proprie radici culturali è
nella poesia di Virgilio quella che Pasquali ha chiamata "arte
allusiva". Il poeta, riecheggiando un passo o un verso o parte di un verso
di un poeta greco o latino, presuppone che il lettore riconosca il passo
riecheggiato e talvolta confronti l'originale colla rielaborazione di Virgilio,
che talvolta innova e affina l'originale: infatti il poeta dell'età augustea
non "imita", ma "emula" i poeti da cui si ispira, gareggia
con essi"[2].
Segue un topos gestuale, tra l’erotico e il disperato, il
bacio della donna al letto, anzi al letto della propria morte per amore. Vediamo
i precedenti.
Alcesti poco prima di morire vi si getta sopra, lo bacia e
lo riempie tutto del torrente di lacrime che le sgorga dagli occhi (kunei' de; prospivtnousa, pa'n de; devmnion-ofqalmotevgktw/ deuvetai
plhmmurivdi, Alcesti, vv. 183-184.
).
Nelle Trachinie di
Sofocle le ultime parole di Deianira sono rivolte al letto: “w\ levch te kai; numfei' j ejmav, -to; loipo; n
h[dh caivreq j wJ~ e[m j ou[pote –devxesq j e[t j ejn koivtaisi tai'sd j
eujnhvtrian” (vv. 920-922), o letto mio e stanza nuziale, addio per
sempre oramai, poiché non mi accoglierete più come sposa nel vostro giaciglio.
La Medea di Apollonio
Rodio invece bacia il letto della sua camera di ragazza nell’abbandonarla: “Kuvsse d j eJovn te levco~” (Argonautiche, 4, 26), quindi baciò anche
i battenti, accarezzò le pareti, e dopo essersi strappata un ricciolo lo lasciò
nella stanza della madre, ricordo della sua vita di vergine.
Un gesto ripetuto da Didone la quale muore dopo avere
baciato il letto (os impressa toro, Eneide, IV, 659).
“La donna che si
getta sul letto coniugale, che invoca le dulces
exuviae e bacia il letto, è la donna innamorata che non può liberarsi dal
ricordo delle dolcezze del suo amore (sono note le ascendenze sofoclee, cioè i
vividi riflessi di Deianira)[3].
Leggiamo dunque questi versi: “Dixit et os impressa toro “Moriemur inultae, /sed moriamur”, ait “sic
iuvat ire sub umbras” (vv. 659-660), disse, e, premuta la bocca sul letto, “Moriremo
non vendicate, ma dobbiamo morire-disse- così mi va di scendere tra le ombre.
Questi versi sono ampiamente commentati da Leopardi: “
Virgilio volle qui esprimere (fino e profondo sentimento e degno di un uomo
conoscitore de’ cuori, ed esperto delle passioni e delle sventure, come lui)
quel piacere che l’animo prova nel considerare e rappresentarsi non solo
vivamente, ma minutamente, intimamente, e pienamente la sua disgrazia, i suoi
mali; nell’esagerarli, anche, a se stesso, se può (che se può, certo lo fa) nel
riconoscere, o nel figurarsi, ma certo persuadersi e procurare con ogni sforzo
di persuadersi fermamente, ch’essi sono eccessivi, senza fine, senza limiti, senza
rimedio né impedimento né compenso né consolazione veruna possibile, senza
alcuna circostanza che gli alleggerisca; nel vedere insomma e sentire
vivacemente che la sua sventura è propriamente immensa e perfetta e quanta può
essere per tutte le parti, e precluso e ben serrato ogni adito o alla speranza
o alla consolazione qualunque, in maniera che l’uomo resti propriamente solo
colla sua intera sventura”[4].
Infine Didone vuole mandare a Enea un messaggio letale e un
annunzio di futuri danni: "Hauriat hunc
oculis ignem crudelis ab alto/dardanus et nostrae secum ferat omina mortis
" (661-662), beva con gli occhi questo fuoco il crudele troiano dal largo,
e porti con sé i presagi della mia morte.
Quindi l'atto del suicidio: "Dixerat, atque illam
media inter talia ferro/conlapsam aspiciunt comites ensemque cruore/spumantem
sparsasque manus. It clamor ad alta/atria; concussam bacchatur Fama per urbem"
(vv. 663-666), aveva detto e in mezzo a tali parole le compagne la vedono
caduta sul ferro e la spada spumeggiante di sangue e le mani cosparse. Sale il
grido fino agli alti atri; la Fama va infuriando per la città sconvolta. -spumantem:
prefigura la schiuma di sangue che, secondo la profezia della Sibilla del sesto
canto, arrosserà il Tevere: "Bella, horrida bella/et Thybrim multo
spumantem sanguine cerno" ( vv. 86-87), guerre, guerre raccapriccianti
e il Tevere spumeggiante di molto sangue io vedo. -bacchatur: al v. 301
era la donna abbandonata che baccheggiava infiammata per la città messa in moto
dalla Fama spietata; ora è la stessa Fama che, presa la fiaccola da Didone, smania
attraverso Cartagine sconvolta.
La morte della regina prefigura la distruzione della sua
città: "Lamentis gemituque et
femineo ululatu/tecta fremunt, resonat magnis plangoribus aether, /non aliter
quam si immissis ruat hostibus omnis/Karthago aut antiqua Tyros flammaeque
furentes/culmina perque hominum volvantur perque deorum " (vv. 667-671),
gli edifici fremono di lamenti e di gemiti e di ululati femminei, l'etere
risuona di grandi pianti, non altrimenti che se Cartagine tutta o l'antica Tiro[5]
crollasse, entrati i nemici, e le fiamme furiose si avvolgessero sui tetti
degli uomini e degli dèi.
Didone che muore furente preannunzia la fine del suo Stato
per la connessione organica tra il capo e la comunità e per l'assimilazione
della donna non solo alla terra, come abbiamo visto, ma anche alla città.
Tolstoj afferma che è impossibile non sentire la femminilità
di Mosca: "Ogni russo, guardando Mosca, prova la sensazione di trovarsi al
cospetto di una madre, ogni straniero, guardandola e ignorandone il carattere
materno, deve però almeno sentirne la femminilità: questo accadde anche a
Napoleone. . . "Una ville occupèe
par l'ennemi ressemble à una fille qui a perdu son honneur "
pensava"[6].
In effetti anche la sorella Anna identifica la morte di
Didone con la fine della città intera: "Extinxti te meque, soror, populumque patresque/Sidonios urbemque tuam "
(vv. 682-683), hai annientato te e me, sorella, e il popolo e i patrizi sidoni
e la tua città. -Extinxti: forma sincopata per extinxisti. - Populumque
patresque: " il Danielino afferma che qui si accenna alle parti in cui
era ordinata la cittadinanza cartaginese (oltre alla regia potestas, populus e
optimates), ma certo il nesso suggerisce al lettore di Virgilio anche il
familiare S. P. Q. R. , e dunque si tratta, come altrove, di un riferimento
alla realtà romana"[7].
Si può quindi pensare alla costituzione mista.
Didone muore senza dire altre parole mentre la ferita stride
profonda nel petto: "infixum stridit
sub pectore volnus " (v. 689). Le ferite spesso parlano: non sempre
sono " dumb mouths "[8],
bocche mute, come quelle di Cesare assassinato. Gli occhi erranti cercarono, finalmente,
la luce, e la regina mandò un ultimo gemito quando l'ebbe trovata (v. 692). L'episodio
si conclude con parole, se non di speranza, certo di pietà per la donna la
quale " nec fato merita nec morte peribat/misera ante diem, subito accensa furore "(v. 697), moriva né
per il destino suo né per morte meritata, infelice, prima del tempo, accesa da
un subitaneo furore.
Negli ultimi versi del poema è il dardo di Enea che stride
mentre passa attraverso la coscia di Turno: “Per medium stridens transit femur” (XII, 926).
"Nonostante la presenza corale del popolo, nonostante
l'affetto e l'assistenza affettuosa della sorella, Didone è sola nella sua
infelicità. La profondità della sua ferita non può essere compresa né da Enea
né dagli altri; e l'aggravarsi del dramma dall'innamoramento alla rottura, al
maturare del disegno del suicidio, al suicidio stesso, è nello stesso tempo un
accentuarsi della solitudine, l'ampliarsi di un allucinante deserto. In questo
modo di interpretare e cantare l'amore Virgilio restava fedele a un filo
costante della sua sensibilità: già nella seconda ecloga, già nelle Georgiche l'amore, questo furore cosmico
irrazionale, è infelicità e solitudine: ciò resta vero e importante, anche se
nell'Eneide può avere avuto il suo
peso la considerazione che rappresentare l'amore come piacere e gioia era indegno
della dignità epica e tragica"[9].
All'inizio del successivo canto V Enea, voltandosi a guardare Cartagine
dalla sua flotta che prende il largo, vede brillare le mura, ed egli con gli
altri fuggiaschi, intuiscono, pur senza saperlo, che quei bagliori sinistri
provengono dal rogo di Didone: " Interea
medium Aeneas iam classe tenebat [10]/certus
iter fluctusque atros aquilone secabat, /moenia respiciens, quae iam infelicis
Elissae/conlucent flammis. Quae tantum accenderit ignem/ causa
latet ; duri magno sed amore dolores polluto notumque, furens quid femina
possit, /triste per augurium Teucrorum pectora ducunt ( vv. 1- 7), intanto
Enea già con la flotta teneva risoluto la rotta in mezzo al mare, e sotto la
tramontana fendeva i flutti scuri. Intanto
guardava indietro le mura che già brillano per le fiamme dell'infelice Elissa. E'
oscuro il motivo che ha acceso un fuoco così grande; ma conducono il cuore dei
Teucri attraverso un funesto presagio i tremendi dolori di un grande amore
violato e il fatto ben noto di che cosa sia capace una donna sconvolta dalla
passione. Il
primo verso è echeggiato dal primo della Commedia di Dante: Enea e Dante
sono entrambi in fuga dal peccato, ma il secondo non è ancora così certus.
La fiamma dell'amore è diventata
il fuoco del rogo.
Vediamo qualche
altro caso, in letteratura, che all'amore connette, il fuoco tragico e distruttivo, la follia
e la rovina.
L'amore che infiamma il Nerone di Tacito per Poppea (flagrantior in dies amore Poppeae, Annales, XIV, 1) sarà una delle cause che
scateneranno il giovane imperatore spingendolo fino al matricidio. Agrippina a
sua volta brucia, ma il suo ardor è smania di conservare il potere che è
il fine [11]
mentre l'incesto è solo un mezzo: " Tradit
Cluvius ardore retinendae
Agrippinam potentiae eo usque
provectam ut medio diei, cum id temporis Nero per vinum et epulas incalesceret,
offerret se saepius temulento comptam et incesto paratam " (Annales XIV, 2) Cluvio[12]
racconta che Agrippina, per ardente smania di conservare il potere, era
arrivata al punto che in pieno giorno quando Nerone si scaldava col vino e il
banchetto, si offriva a lui ubriaco diverse volte, ornata in modo seduttivo e
pronta all'incesto.
Anna Karenina, la quale è un'adultera che inganna e tradisce un
marito vivo, è collegata al fuoco nelle varie fasi del suo amore: "Il suo
viso splendeva d'un vivido fulgore, ma questo fulgore non era allegro: ricordava
il fulgore terribile di un incendio in mezzo a una notte oscura; vedendo il
marito, sollevò la testa e, come svegliandosi, sorrise"[13].
Questa è la fase ascendente della sua relazione con Vronskij. Alla fine, nell'epilogo
tragico la fiamma diventa quella di un cero funebre: "E la candela alla
cui luce aveva letto un libro pieno di ansie, di inganni, di dolore e di male, avvampò
di una luce più vivida che mai, le illuminò tutto quello che prima era
nell'oscurità, crepitò, cominciò a offuscarsi e si spense per sempre"[14].
Il fuoco amoroso di Orazio invece si spegne amabilmente, nelle
strofe saffiche del canto di Fillide, l'ultimo amore, che manda un calore di
fiamma già lontana: "Age iam, meorum/finis
amorum. /(Non enim posthac alia calebo/femina), condisce modos, amanda/voce
quos reddas; minuentur atrae/carmine curae " (Odi, IV, 11, vv. 31-36), su, estremo dei miei amori, (infatti non brucerò
più per altra donna), impara bene i ritmi da ripetere con voce amabile; si
schiariranno con i versi i foschi affanni.
Per quanto riguarda
il tema della ferita è notevole che nel V canto dell'Eneide volnus torni come conseguenza di una
gara cruenta di pugilato durante i giochi funebri in onore di Anchise: "Multa
viri nequiquam inter se volnera iactant, /multa cavo lateri ingeminant et
pectore vastos/dant sonitus, erratque auris et tempora circum/ crebra manus,
/duro crepitant sub volnere malae "
(vv. 433- 436), molti colpi gli uomini si scambiano invano per ferirsi, molti
ne raddoppiano sui cavi fianchi e sul petto fanno risuonare vasti rimbombi, va
e viene presso le orecchie, intorno alle tempie fitta la mano e crepitano le
mascelle sotto i colpi che danno ferite. -nequiquam: il colpo del
pugilato è meno implacabile di quello amoroso che non manca mai di ferire.
Si possono accostare i due diversi tipi di ferita pensando
al fr. 27D. di Anacreonte: "pro; "
[Erwta puktalivzw", voglio fare a pugni con Eros.
giovanni ghiselli
prossime conferenze: 26 febbraio ore 21 ex cinema
Castiglione. Parlerò di Ester
27 febbraio ore 18, 30. Biblioteca Scandellara. Parlerò di
Lucrezio
[1]G. B. Conte, Scriptorium
Classicum, 3, p. 276.
[2]A. La Penna-C. Grassi, op. cit. ,
p. XXVIII.
[3]
A. La Penna, Prima lezione di letteratura
greca, p. 155.
[4]
Zibaldone, 2217-2218.
[5]
La madre patria di Cartagine: "Urbs antiqua fuit (Tyrii tenuere coloni)
/Karthago", Eneide, I, 12-13, c'era una città antica, la
fondarono coloni di Tiro, Cartagine. Da Tiro proveniva anche Cadmo, il
fondatore di Tebe (cfr. Euripide, Fenicie, 638-639).
[6]Una città occupata assomiglia a
una ragazza che ha perduto il suo onore. Guerra
e pace, p. 1311.
Un'altra assimilazione di un altro tipo di
donna, in questo caso la prostituta, alla città si trova nella Cistellaria
di Plauto: "Verum enim meretrix fortunati est oppidi simillima; /non
potest suam rem obtinere sola sine multis viris " (vv. 80-81), infatti
la meretrice è molto simile a una città ricca; non può reggersi da sola senza
molti uomini.
[7]G. B. Conte, Scriptorium
Classicum, 3, p. 278.
[8] Shakespeare, Giulio Cesare,
III, 2.
[9]A. La Penna-C. Grassi, op. cit. ,
p. 358.
[10]
Questo verso è citato nel Satyricon (68, 4) con intenti canzonatori nei
confronti dell'ambiente di Trimalchione: uno schiavo lo grida sbagliando la
pronuncia delle lunghe e delle brevi, come fanno gli stranieri incolti, al
punto che allora perfino Virgilio risultò fastidioso a Encolpio (68. 5).
[11]
Come per Alcibiade.
[12] Storiografo vissuto alla corte
di Nerone.
[13]L. Tolstoj, Anna Karenina, p. 148.
Carissimo Gianni ,i classici non mancano mai di farci riflettere...le ferite amorose sono le più difficili a guarire,sono le più dolorose da sopportare,sono quelle che maggiormente influenzano le nostre scelte future. Giovanna Tocco
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