Notturno foto di m. roversi |
La notte agitata
Nemmeno la notte che porta riposo a tutte le creature
lenisce l'affanno[1]
dell'abbandonata: "Nox erat et
placidum carpebant fessa soporem[2]/corpora per
terras silvaeque et saeva quierant/aequora, cum medio volvontur sidera
lapsu,/cum tacet omnis ager, pecudes pictaeque volucres,/quaeque lacus late
liquidos quaeque aspera dumis/rura tenent, somno positae sub nocte
silenti/(lenibant curas et corda oblita laborum. [3])/At non infelix animi Phoenissa neque
umquam/solvitur in somnos oculisve aut pectore noctem/accipit: ingeminant curae
rursusque resurgens/saevit amor magnoque irarum fluctuat aestu " (vv. 522-532),
Era notte e i corpi stanchi raccoglievano per le terre il placido sonno e le
selve e le acque furiose erano tranquille, quando le stelle si volgono alla
metà del loro giro, quando tace ogni campo, le bestie e gli uccelli variopinti,
sia quelli che abitano per largo tratto i limpidi laghi, sia quelli delle
campagne ispide di cespugli, posati nel sonno sotto la notte silenziosa
(calmavano gli affanni e i cuori dimentichi delle fatiche). Ma la Fenicia infelice
nell'animo non si libera mai nel sonno e non accoglie la notte negli occhi o
nel petto: raddoppiano gli affanni, e l'amore, insorgendo di nuovo, infuria e
fluttua in un grande ribollimento di ire.
Ecco dunque il
contrasto tra la quiete della natura e l'agitazione della creatura che si sente
in colpa. La tragedia in effetti nasce sempre da un cozzo tra l'uomo e
l'universo ai cui ritmi invece ogni vivente deve adeguarsi. I modelli di questo
notturno sono diversi. Il più antico e suggestivo è quello di Alcmane[4]:
"Dormono le cime dei monti e i burroni/e le balze e anche le gole/e le
specie degli animali quante ne nutre la nera terra/e le fiere montane e la stirpe
delle api/e i mostri negli abissi del mare purpureo; /dormono le razze degli
uccelli dalle ampie ali" (fr. 58 D.). Questo frammento probabilmente
faceva parte di un partenio recitato durante una festa notturna, e, da poesia
di occasione, è divenuto un topos con un seguito tanto lungo nella letteratura
europea che non è il caso di fare l'elenco delle imitazioni. Si può notare che
non mancano echi di formule omeriche, come del resto è di derivazione epica
l'osservazione attenta del mondo della natura. Tale attenzione è conseguenza di
un rapporto vivo con il mondo ed è rivolta alla quiete e all'armonia di un
cosmo da cui l'uomo non è ancora escluso.
Il contrasto rilevato
da Virgilio si trova già in Apollonio Rodio quando cala la notte che porta il
desiderio del sonno a tutti, ma non a Medea tenuta sveglia dal desiderio di
Giasone: "quindi la notte portava la tenebra sopra la terra; nel mare i
marinai fissarono l'Orsa Maggiore e le stelle di Orione dalle navi, e qualche
viandante e custode di porte desiderava il sonno, e un denso torpore avvolgeva
una madre di bambini morti; né c'era più abbaiare di cani per la città, né
chiasso sonoro: il silenzio possedeva la tenebra che diventava nera. Ma il
dolce sonno non prese Medea: molti pensieri la tenevano sveglia poiché le
mancava Giasone e temeva la possente forza dei tori" (Argonautiche, III, 744-753). Alla natura forte e sana del lirico
arcaico è già succeduto un mondo che incornicia il dolore degli uomini. Quella
madre di bimbi morti sembra anticipare vedove, orfani e simili creature
sofferenti di Pascoli.
Nella Didone di
Virgilio questo dolore indeterminato diviene odio per la vita causato dal senso
di colpa. La Fenicia infatti si accusa da sola e incrimina anche la sorella che
aveva caldeggiato lo sciagurato amore: "Quin morere, ut merita es,
ferroque averte dolorem. /Tu lacrimis evicta meis, tu prima furentem/his,
germana, malis oneras atque obicis hosti. / Non licuit thalami expertem sine crimine vitam/degere, more ferae, talis
nec tangere curas/ Non servata fides cineri promissa Sychaeo " (vv. 547-552),
Piuttosto muori, come ti sei meritata, e con il ferro scaccia l'affanno. Tu
vinta dalle mie lacrime, tu per prima, sorella, carichi me, furibonda, di
questi mali e mi getti al nemico. Non mi è stato possibile passare la vita
senza nozze e colpa, come una bestia, e non toccare tali affanni: non è stata
osservata la fedeltà promessa al cenere di Sicheo. -Quin: corregge
l'ipotesi precedente di seguire Enea con i suoi Tirii. -morĕre: imperativo.
-ut merita es: lo stipendium meritato con l'indulgenza verso
l'istinto amoroso è la morte. -talis=tales. L'antitesi di questo triste
e letale "tradimento" postumo si trova nella fabula milesia, della
"Matrona di Efeso"[5],
la vedovella che poche ore dopo la morte del marito si tolse le gramaglie, e
tutto il resto, senza rimorsi né ubbìe, dando retta a un soldato che oltretutto
dovette appendere il cadavere dello sposo amato al posto di quello di un
ladrone sottratto a una croce e affidato alla sua sorveglianza.
Le bestie, rimugina Didone,
non si sposano né si sentono in colpa per l'accoppiamento. "Il mos ferarum , il modo di vivere delle
fiere, è richiamato non come un modo di vivere inferiore, indegno dell'uomo, ma
come un modo di vivere innocente: le fiere si accoppiano liberamente,
promiscuamente, ma, appunto perché non hanno legami matrimoniali stabili e non
ne sentono l'esigenza, sono innocenti. E' ben probabile che Virgilio tenga
presente la descrizione dell'umanità primitiva del V libro di Lucrezio (925 ss.)
e in particolare 932 volgivago (errando
da ogni parte) vitam tractabant more
ferarum : ma si sa quanto sia ambiguo l'atteggiamento di Lucrezio verso
questo stato ferino; ferino, sì, ma più puro di quello attuale e forse anche
meno infelice (opportunamente il Page confrontava anche con Ovidio, Fast. II 291 vita feris similis , che si riferisce alla vita primitiva e felice
degli Arcadi). Il fraintendimento consiste soprattutto nell'interpretare more ferae come condanna morale dello
stato ferino. Tale fraintendimento si trova già in Quintiliano (IX 2, 64), che,
in conseguenza, era portato a sentire nel passo una contraddizione spiegabile
coi sentimenti di Didone: da un lato ella si lamenterebbe del matrimonio, ma
dall'altro lascerebbe prorompere il proprio sentimento e riconoscerebbe che una
vita senza nozze sarebbe una vita da bestie"[6].
Quintiliano cita il v. 550 e parte del 551 aggiungendo un punto interrogativo e
considerandoli un esempio della figura
dell'emphasis: "Non licuit thalami expertem sine crimine
vitam/degere, more ferae?" L'enfasi viene spiegata in questo modo: "cum ex aliquo dicto latens aliquid eruitur.
. . Quamquam enim de matrimonio queritur Dido, tamen huc erumpit eius adfectus,
ut sine thalamis vitam non hominum putet, sed ferarum " (Institutio oratoria, IX, 2, 64), quando
da qualche detto scaturisce qualcosa di nascosto. . . sebbene infatti Didone si
lamenti del matrimonio, tuttavia la sua passione prorompe là dove ella ritiene
che la vita senza nozze sia non da uomini ma da bestie.
Quale che sia l'interpretazione di Quintiliano, nel testo di
Virgilio l'amore e la colpa sono strettamente congiunti e la presenza dell'uno
significa quella dell'altra.
Ma forse si può dare un'interpretazione meno arzigogolata
citando Pirandello: "Un angelo, per una donna, è sempre più irritante
d'una bestia"[7].
Soprattutto se l'angelo è un promotore di destini imperiali come Mercurio che
si è recato da Enea per farlo fuggire.
Ella dunque sarebbe colpevole, Enea invece innocente poiché
obbedisce agli ordini degli dèi che vengono ribaditi da Mercurio. Il quale gli
appare in sogno e gli dice pure che Didone è risoluta a morire ("certa mori ", v. 564), ma questo
non ha importanza né per l'uomo né per il dio. Quella infatti rivolge nel petto
inganni e una sinistra scelleratezza: "illa
dolos dirumque nefas in pectore
versat "(v. 563). L'allitterazione in dolos dirumque sottolinea
entrambe le colpe della disgraziata. Qui si vede che mentre il sogno, ossia il
desiderio camuffato, suggerisce l'inganno e il misfatto, trova anche il modo di
discolpare il dormiente proiettando sulla regina tutto il male che egli stesso
è già preparato a perpetrare contro di lei.
Bisogna solo evitare di essere danneggiati dalla femmina
"varium et mutabile semper
" (v. 569) cosa variabile e mutevole sempre. Un locus questo, anzi
un vero e proprio luogo comune diffuso non solo in letteratura ma anche nella
testa di noi maschi. Forse per il fatto che si trova in rebus ipsis. Faccio
solo pochi esempi: Petrarca echeggia questa communis opinio nel Sonetto
CXLVIII: "Femina è cosa mobil per natura; /ond'io so ben ch'un amoroso
stato/in cor di donna picciol tempo dura" (Il Canzoniere, CLXXXIII).
Boccaccio Filostrato
VIII 301 "Volubil sempre come foglia al vento"; Nell'Aminta di
Torquato Tasso Tirsi dice al protagonista della favola pastorale[8]:
"in breve spazio/s'adira e in breve spazio anco si placa/Femina, cosa
mobil per natura" (I, 2). Lo stesso luogo comune troviamo nel Rigoletto
di Verdi-Piave: "la donna è mobile/qual piuma al vento,/muta d'accento/e
di pensiero. /Sempre un amabile/leggiadro viso,/in pianto o in riso,/è
menzognero. /E' sempre misero/chi a lei s'affida,/chi le confida,/mal cauto il
core!/Pur mai non sentesi/felice appieno/chi su quel seno,/non liba amore!
(III, 2).
Dopo avere parlato, l'immagine onirica del dio Mercurio
tornò nell'oscuro e ribollente crogiolo dell'inconscio, ovvero, con le parole
di Virgilio: "sic fatus nocti se
immiscuit atrae " (v. 570), dopo avere detto così, si mescolò alla
notte oscura. Il sogno però non si era mascherato abbastanza bene, sicché Enea
si svegliò terrorizzato: "Tum vero
Aeneas subitis exterritus umbris/corripit e somno corpus sociosque fatigat
" (vv. 571-572), allora sì che Enea, spaventato dall'apparizione
improvvisa, strappa il corpo dal sonno e incalza i compagni. A questo punto è
necessaria un'occhiata alla teoria freudiana di cui è possibile avvalersi per
interpretare la visione onirica di Enea.
La follia metodica dei sogni
Alcuni versi riferiti si prestano all'interpretazione di Freud
il quale sostiene che "ogni sogno si rivela come una formazione psichica
densa di significato"[9]
e che nella follia onirica, come in quella di Amleto, c'è un metodo. L'autore
de L'interpretazione dei sogni riconosce
il suo debito alla letteratura classica: "Non diversa era l'opinione degli
antichi sulla dipendenza del contenuto onirico dalla vita" (p. 20). Quindi
cita, grosso modo, un episodio di Erodoto, , e, in latino dei versi di Lucrezio:
"Et quo quisque fere studio
devinctus adhaeret,/aut quibus in rebus multum sumus ante morati/atque in ea
ratione fuit contenta magis mens,/in somnis eadem plerumque videmur obire: /causidici
causas agere et componere leges,/induperatores pugnare ac proelia obire,/nautae
contractum cum ventis degere bellum,/nos agere hoc autem et naturam quaerere
rerum/semper et inventam patriis exponere chartis [10]", De rerum natura , IV, 962-970, e
generalmente la passione cui ciascuno è strettamente legato, o ciò su cui ci
siamo molto intrattenuti prima, e in quel meditare si è più contenuta la mente,
nei sogni di solito ci sembra di incontrare i medesimi pensieri: gli avvocati
trattano cause e confrontano leggi, i generali combattono e affrontano
battaglie, i marinai continuano la guerra ingaggiata coi venti, noi facciamo
quest'opera, e indaghiamo la natura sempre, e, scopertala, la esponiamo in
carte latine.
Intanto vediamo l'etimologia di somnium : la radice sopn-
>somn- deriva dall'indoeuropeo *supn-che ha dato come esito in
greco uJpn- da cui u{pno" .
Queste immagini
oniriche di Enea dunque secondo Lucrezio corrispondono ai suoi pensieri e
desideri diurni
Ma torniamo
all'inventore della psicoanalisi che utilizza molto i classici.
Spesso il sogno è l'appagamento mascherato di un desiderio
rimosso; in altre parole le idee latenti nel presentarsi si mascherano, quindi,
per conoscerle, bisogna cavar loro la maschera. Allora dobbiamo tenere conto
della condensazione per cui "ogni situazione porta la traccia di due o più
reminiscenze della vita reale. . . non è neanche raro che il processo del sogno
si diverta a formare un'immagine composta con due idee contrastanti; per
esempio una giovane donna sogna di portare un ramo fiorito, quello dell'angelo
nei quadri dell'Annunciazione (simbolo d'innocenza; questa giovane si chiama
Maria). Soltanto, in questo caso, il ramoscello porta dei fiori bianchi e
carnosi simili alle camelie. (Il contrario dell'innocenza: la signora dalle
camelie)"[11].
La condensazione onirica tra l'altro può spiegare gli ibridi
mostruosi della mitologia e della letteratura.
Poi, sempre per risalire alla parte latente, e vera, si deve
considerare lo spostamento psichico o spostamento nel sogno: "tutto ciò
che vi era di essenziale nelle idee latenti è rappresentato nel sogno da
particolari secondari"[12].
Per giunta le idee latenti si manifestano travestite, attraverso immagini: "Tali
idee non ci si presentano sotto la forma verbale più riassuntiva possibile, con
la quale noi abbiamo l'abitudine di concretare i nostri pensieri, ma il più
delle volte trovano un mezzo simbolico per esprimersi, il mezzo di cui si serve
il poeta che nella sua opera fa uso di raffronti e di metafore" (p. 67). Il
sogno infatti si rappresenta "con una serie di immagini visive" (p. 68)
le quali sono alimentate dai ricordi che hanno lasciato maggiore impressione e
"la cui origine risale addirittura alla prima infanzia". Le idee
latenti, dicevamo, si camuffano perché la coscienza non le ammette, e i sogni,
che si formano con lo stesso procedimento dei sintomi nevrotici e dei lapsus,
"sono realizzazioni velate di desideri inibiti"(p. 102).
Subito dopo Freud suddivide i sogni "dal punto di vista
di realizzazione di desideri… in tre categorie: in primo luogo sta il sogno che
senza camuffamenti rappresenta un desiderio non inibito. E' questo il sogno di
tipo infantile che diviene sempre meno frequente man mano che il fanciullo
cresce. . . In secondo luogo abbiamo il sogno camuffato che rappresenta un
desiderio inibito. La maggior parte dei nostri sogni è di questo tipo ed ecco
perché non possono venir compresi senza l'analisi. . . Infine viene il sogno
che esprime un desiderio inibito senza travestimento o con un travestimento
molto ridotto. Quest'ultimo sogno è sempre accompagnato da una sensazione di
angoscia che lo costringe all'interruzione" (p. 103).
continua
[1] Del resto nelle Metamorfosi di
Ovidio la notte è "curarum maxima nutrix " (VIII, 82) la più
potente nutrice di ansie amorose e infonde audacia erotica a Scilla innamorata
di Minosse.
[2]"
Il passo ha un parallelo famoso in Apollonio (III, 744 ss.), del quale possediamo
anche una parte della traduzione di Varrone Atacino (fr. 124 Pascal: Desierant
latrare canes, urbesque silebant: -omnia noctis erant placida composta quiete),
che ha ispirato più di un bel verso a V. Ma V. ha intonato qui uno dei suoi più
bei notturni, molto più largo, pacato e dolce dei suoi modelli, più
tragicamente contrastante con la situazione di Didone, ricchissimo di quei
suoni S, R, L, che creano veramente un'interpretazione musicale del
silenzio". (R. Calzecchi Onesti, op. cit., p. 301.)
[3]I migliori editori espungono questo
verso considerandolo un'interpolazione ricavata dal molto simile IX 225.
[4]
Lirico corale, di lingua dorica, del
VII secolo
[5]
Satyricon,111-112.
[6]A. La Penna - C. Grassi, op. cit., p.
481.
[7]
Ciascuno a suo modo, atto I.
[8]
Del 1573.
[10]
Gli ultimi tre versi non compaiono nella citazione freudiana.
[11]Freud, Il sogno e la sua interpretazione , pp. 45 e 53
[12]Freud, Il sogno e la sua interpretazione. , p. 59
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