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Lucrezio
De rerum natura, V
libro
Inizia con un altro elogio di Epicuro il quale è il vero
inventore della ratio che è la vera sapientia.
Si dice che Cerere abbia inventato le messi e Libero il
vino, ma la vita può durare senza questi doni, tanto che alcune popolazioni ne
fanno a meno.
Ma non si può vivere bene sine puro pectore (18).
Le cosiddette imprese di Ercole fanno ridere. Quale danno
potrebbero recarci? Noi infatti possiamo evitare le loro tane.
Ne fa un elenco pieno di immagini: il leone nemeo, il cinghiale
di Arcadia, l’idra di Lerna, vallata
venenatis colūbris (27) difesa da un vallum
- trincea - di serpenti velenosi. Poi i tripectora
tergemini Geryonai (28), gli uccelli di Stinfalo, le cavalle del tracio
Diomede spirantes naribus ignem (30),
e il serpente asper, acerba tuens, immani
corpore serpens (33) che sorvegliava gli aurei pomi delle Esperidi propter Atlanteum litus pelagique severa/,
quo neque noster adit quisquam nec barbarus audet (35 - 36). Le colonne
d’Ercole. Ebbene tali mostri non impedirebbero la nostra vita poiché la terra
tuttora brulica di mostri et trepido
terrore repleta est (40) in luoghi che possiamo evitare quae loca vitandi plerumque est nostra
potestas (42)
E’ più importante per la salute avere purgatum pectus (43)
Nel petto non purificato girano acres curae cuppedinis e timores.
Quindi superbia,
spurcitia, petulantia, luxus, desidiae, avaritia
ambitio.
Molti di questi vizi sono denunciati anche dagli Stoici e
poi dai Cristiani. Sul terreno etico le tre filosofie sono simili.
Ebbene Epicuro che ha cacciato questi mostri dictis, non armis (50) va annoverato tra
gli dèi. Egli con le parole ha chiarito la compagine intera dell’universo. Io
seguo le sue orme.
La fortuna gubernans
(77) dirige il corso del sole e i moti della luna. Questi corpi celesti non
sono liberi né mossi dal volere divino.
Gli dèi non c’entrano. Ogni cosa ha una finita potestas atque alte terminus haerens (90). Un giorno ruet moles et machina mundi (96), ci
sarà un exitium caeli terraeque (98).
Quello che udite da me non avrà la conferma della vista e
del tatto, le due vie sicure. Sed tamen
effabor (104)
La fortuna gubernans potrebbe far crollare il mondo - horrisono fragore - (109) prima che io
finisca quest’opera. Comunque le mie parole saranno rasserenanti.
Come i pesci non possono vivere nei campi (ajduvnaton), “sic animi natura nequit sine corpore oriri –sola neque a nervis et
sanguine longius esse” (132 - 133)
Così le sedi degli dei sono separate dalla nostra e sono tenues de corpore eorum (154)
sottili secondo la loro natura.
Desipere est (165)
è follia pensare che gli dèi abbiano creato il mondo hominum causa, per gli uomini. Essi non hanno motivi di gratitudine
verso di noi.
Seneca invece dice che dio ha creato il mondo perché è
buono. Ricorda Platone il quale nel Timeo
ha scritto che il mondo è bello e il suo artefice è a[risto" (28a - 29a).
Ita Plato: quae deo
faciendi mundum causa fuit? Bonus est (ep.
65, 10)
Il mondo per giunta è un luogo di sofferenza quid obest non esse creatum? (180) che
danno ci sarebbe? Cfr. Leopardi Nasce l’uomo a fatica…prova pena e
tormento//per prima cosa; e in sul principio stesso//la madre e il genitore/il
prende a consolar dell’esser nato”
Dunque
nequaquam nobis divinitus esse paratam
Naturam rerum: tanta
stat praedita culpa (198 - 1999) per niente.
Al contrario: Agostino
ricorda Platone: habemus sententiam
Platonis dicentis omnes deos bonos esse (civ. Dei, 8, 13).
La deduzione della
bontà del creato dalla bontà del creatore viene, com’è noto, dal Timeo (28a)
Il Timeo
viene riecheggiato ripetutamente da Agostino attraverso la traduzione
ciceroniana. Per esempio: “hanc etiam
Plato causam condendi mundi iustissimam dicit, ut a bono Deo bona opera fierent
(civ. Dei, 11, 21), anche Platone
afferma che la causa più giusta della creazione del mondo è che le opere buone
sono fatte da un Dio buono.
Anche Seneca aveva
tradotto il medesimo passo del Timeo:
Ita certe Plato ait: Quae deo faciendi mundum fuit causa? Bonus
est (ep. 65, 10)
Timeo 29a. Dio è il più buono degli autori a[ristoς tw̃n aijtivwn.
E ancora: “Quae causa est dis bene faciendi? Natura.
Errat si quis illos putat nocere nolle: non possunt (ep. 95. 49).
Torniamo a Lucrezio.
La terra produce frutti solo in seguito a grandi sforzi
degli uomini
A volte le fatiche vengono annichilite dal tempo maligno
Poi c’è il genus
horriferum ferarum humanae genti infestum (219), i morbi portati dalle
stagioni, la mors immatura.
Il puer è ut navita saevis proiectus ab undis
(223) egli nudus humi iacet, infans,
indigus omni vitali ausilio. Appena espulso dal ventre materno vagituque locum lugubri complet, ut aequum
est
Cui tantum in vita
restet transire malorum (225 - 6)
Crescono più facilmente le fiere che non hanno bisogno di
ninnoli (nec crepitacillis opus est - sonaglini)
né di nutrici che sussurrino e balbettino, e non necessitano di armi né
muraglie (234)
Il cielo e la terra come sono ora non ci saranno più.
La terra è madre e sepolcro qodcumque alit auget, redditur, tutto quello che alimenta e
accresce le viene restituito
ella stessa viene erosa e aumentata e ricresce
Ella è “omniparens
eadem rerum comune sepulcrum” (259)
Cfr. Shakespeare,
Macbeth: “poor country, it cannot be called our mother, but our grave (IV, 3).
E’ il nobile Ross che parla.
Ma è tutto l’universo che scorre in eterno (280)
Tutto è vinto dal tempo: le pietre, le torri, le montagne,
il sole, le stelle.
Denique non lapides
quoque vinci cernis ab aevo/non altas turris ruere et putrescere saxa/non delūbra
deum simulacraque fessa patisci/nec sanctum numen fati protollere finis/posse
neque adversus naturae foedera niti? (306 - 310)
Nemmeno il sacro nume può protrarre i termini del fato.
Il tempo è il cormorano che ci divora (S. Love’s labours lost)
Pericle,
principe di Tiro: del tempo: he is both
their parent and he is their grave. La terra è madre e tomba, il
tempo è padre e tomba
Ogni cosa scema nutrendo di sé altri corpi.
Questo mondo non c’è stato sempre e finirà. Le storie più
antiche sono il bellum thebanum e i funera Troiae (326). Perché non
risalgono più indietro? La terra è ancora recente (ma più avanti dirà il
contrario)
Anche questa ratio
reperta est nuper (335) e io sono il primo qui possim vertere voces in patrias (337). Vertere è un tradurre liberamente. Verbum de verbo exprimere, letteralmente.
Per non finire, per essere eterni, non si deve risentire
degli urti. Immortali infatti sono gli atomi e il vuoto sicut inane est - quod manet intactum neque ab ictu fungitur hilum
(357 - 358) né riceve i colpi. Anche l’universo è eterno perché non c’è un
fuori luogo quo dissiliant dove gli
atomi possano saltare. Dunque la leti
ianua , la porta della morte, non è chiusa al cielo né alla terra né al
sole sed patet immani et vasto respectat
hiatu (375) ma è aperta e li osserva con una enorme, mostruosa
spalancatura.
Cose mortali che hanno avuto un principio avranno una fine.
Le immense membra del mondo lottano tra loro, l’acqua il
fuoco in particolare. Il mito di Fetonte, pur lontano da una corretta ragione racconta
un assalto del fuoco, la storia di Deucalione e Pirra, un tentativo dell’acqua.
All’inizio c’era il caos poi un ordo ma non disposto sagaci
mente (420).
Prima c’era una tempestas
una moles, congerie di semi di ogni
specie e confuse battaglie. Poi le particelle simili cominciarono a
congiungersi con le simili coepere
paresque cum paribus iungi (444), e dunque a separarsi il cielo dalla
terra, dal mare. Allora l’etere si levò sopra la terra. Il sole e la luna
stanno a mezz’aria, meno pesanti della terra, più dell’etere.
La terra si avvallò dove i corpi celesti si ritirarono e
subentrò il mare.
L’etere è la parte più alta e leggera del cielo e non ha le
sue perturbazioni
Lucrezio ritiene, come Epicuro che la terra sia ferma al
centro del mondo e i corpi celesti in movimento (geocentrismo). L’eliocentrismo
di Tico Brahe e Copernico era stato già sostenuto da Eraclide Pontico del VI e
Aristarco di Samo del III sec. a. C. Cfr. “maledetto sia Copernico” di
Pirandello (Il fu Mattia Pascal)
C’è un aria che muove le stelle che sparse per il cielo
pascono i loro corpi ignei (525).
Il sole. La luna e le stelle, data l’ejnavrgeia, l’evidenza dell’ai[sqhsiς,
della sensazione, non sono molto diverse nelle dimensioni da come ci appaiono.
Pitagora confortato dalla matematica e perfino Democrito attento alla geometria
non affermava questo (cfr. Cic. De
finibus, I, 20)
Sole e luna, secondo Lucrezio, non sono di dimensione
maggiore di come ci appaiono.
Infatti i corpi che appaiono più piccoli del reale, si
vedono anche confusi.
Non tali sono la luna e il sole. Il fuoco del sole non è
grande ma molto intenso (604 - 5). Oppure il sole ha intorno a sé un grande
anello di fuoco di occulto fervore, cioè non visibile (612)
Il succedersi del giorno e della notte dipende da
un’accensione ed estinzione quotidiana del sole stesso, oppure perché il sole
passa al di sotto della terra (650 - 655).
Così all’aurora Matuta
–la dea dell’alba - fa tornare la luce quando il sole torna dalla parte
inferiore della terra oppure perché i suoi fuochi si raccolgono e confluiscono.
C’è una periodicità nell’accendersi e spengersi della luce del sole come nelle
stagioni dell’anno e della vita degli uomini.
D’inverno le notti sono più lunghe e d’estate più corte
perché il sole sotto e sopra la terra divide la sua orbita in parti disuguali partit et in partis non aequas dividit orbem
(684). Oppure perché l’aria è più densa in certe sue parti aut quia crassior est certis in partibus aer
(696) e perciò tremulum iubar ignis,
la tremula criniera del fuoco haesitat
sub terris
La luna può avere luce riflessa o luce propria.
La luna potrebbe anche mutare e rinnovarsi come le stagioni
dell’anno che vedono succedersi ver et
Venus preannunziata da Zefiro seguito da Flora che sparge fiori colorati e
ne profuma le vie, poi l’estate accompagnata da Ceres pulverulenta, quindi l’Autunno con Bacco Evio, infine Tandem bruma nives adfert pigrumque rigorem
- reddit; hiemps sequitur crepitans hanc dentibus algu (746 - 747).
Perciò può darsi che anche la luna si formi e si dissolva.
Vengono poi spiegate le eclissi di sole con le
intercettazione della luce del sole da parte della luna; in quelle della luna è
la terra che le toglie la luce del sole. Oppure si interpongono altri corpi o
c’è uno spengimento delle fiamme di luce. Solis
defectus lunaeque (751) dunque possono avere diverse cause. I superstiziosi
li consideravano segni sinistri. Ma vedi Alessandro Magno.
Poi Lucrezio vuole tornare ad mundi novitatem (780), ai primi tempi della terra.
Prima la terra produsse le erbe e florida fulserunt viridanti prata colore (785), poi gli alberi vari
ai quali datumst magnum certamen
crescendi per auras immissis habenis, fu dato una grande gara nel crescere
nell’aria a briglia sciolta. Poi la terra mortalia
saecla creavit produsse le generazioni mortali multa modis multis varia ratione coorta (792), nate in vari modi
Giustamente dunque la terra ha ricevuto il nome di madre.
La vita nel giovane mondo era più facile. Le creature
nascevano dalla terra che le nutriva. La terra offriva ai neonati cibum, il vapor calore dell’aria offriva
vestem, herba - cubile praebebat multa et molli lanugine abundans (816 - 817)
Non c’erano grandi caldi né grandi freddi.
Poi la terra madre smise di generare come prima: destitit, ut mulier spatio defessa vetusto (827). Infatti nell’universo omnia migrant, - omnia commutat natura et
vertere cogit (831). Aliud
putrescit…porro aliud succrescit (832 - 833), in seguito. E’ il tempo che
muta la natura del mondo e la terra non produce più quello che poteva ma
produce quello che non poteva.
Una volta la terra tentò di creare etiam portenta (837), dei mostri l’androgino, androgynem[1],
utrimque remotum (839), creature
prive di piedi e di mani, muta sine ore
etiam, sine vultu caeca reperta (841), o legati per tutto il corpo a causa
dell’adesione. Cetera de genere hoc
mostra ac portenta creabat (845), nequiquam
poiché la natura non li fece crescere né riprodurre. Gli animali per conservare
la specie devono avere aut dolus aut virtus
aut denique mobilitas (858). I leoni e le altre stirpi feroci (saeva saecla) li protegge la virtus, vulpis dolus, fuga cervos (863).
I cani dal sonno leggero, le bestie da soma le lanigerae pecudes e quelle cornigere , omnia sunt hominum tutelae tradita, Memmi
(867).
Ma le bestie deboli e inutili all’uomo cadevano preda delle
altre indupedita suis fatalibus omnia
vinclis –donec ad interitum genus id natura redegit (876 - 877). Impedite
da vincoli fatali, come gli uomini incapaci di tutto.
Ma i Centauri non sono mai esistiti. Sono troppo eterogenei
Lo spiega in modo che possa capirlo anche un hebes cor, un animo ottuso (882). I
tempi dello sviluppo dell’uomo e del cavallo sono diversi.
Le Scille sono mostri mezzi marini cinti da cani rabbiosi.
Insomma le discordia membra non
possono darsi. La Chimera poi era prima
leo, postrema draco, media ipsa Chimaera (Civmaira,
capra) e sputava fuoco.
Chi parla di questi mostri invece sputa fandonie. Infatti tutte
le cose foedere naturae certo discrimina
servant (924) conservano le differenze secondo una ferma legge di natura.
Ma Lucrezio è in contraddizione con 837ss.
Storia del genere umano
Comunque nell’età primitiva una dura tellus creò un genere umano multo durius (926), et maioribus et solidis magis ossibus intus
(927) connesse da nervi possenti, più resistenti al freddo, al caldo e ai mali.
Vivevano una vita da belve. Mangiavano quod
terra crearat - sponte sua. Si nutrivano di ghiande e di purpuree corbezzole
(arbita punico colore). La novitas mundi produceva pabula dura tulit, miseris mortalibus ampla
(944)
A sedare la sete li chiamavano fiumi e sorgenti At sedare sitim fluvii fontesque vocabant
(945). Non conoscevano il fuoco, non si servivano di pelli, celavano le ruvide
membra in mezzo ai cespugli et frutices
inter condebant squallida membra (956). Non conoscevano leggi né mores.
Nelle selve Venere congiungeva i corpi degli amanti. Il concilium con la donna lo favoriva vel mutua
cupido, “vel violenta viri vis atque
impensa libido” (964) la libidine grande, “vel pretium, glandes atque arbita vel pira lecta” (965).
Inseguivano le fiere scagliando pietre e brandendo clave,
alcune le vincevano, con altre fuggivano nei covi e come irsuti cinghiali saetigerisque pares subus (970) membra nuda dabant terrae avvolgendoli
con foglie e fronde, quindi in silenzio, sepolti nel sonno aspettavano la luce.
Temevano che il sole non tornasse. Succedeva che venissero sbranati dalle fiere:
qualcuno di loro “pabula viva feris
praebebat, dentibus haustus” 991, sorso per i denti,
”et nemora ac montis gemitu silvasque
replebat
Viva videns vivo
sepeliri viscera busto” (992 - 993), vedendo le proprir viscere vive
sepolte in un vivo sepolcro. Allitterazione in “v” e ossimoro co vivo busto
Gorgia chiama gli avvoltoi sepolcri viventi –gũpeς e[myucoi tavfoi (in Sublime, 3, 2).
Chi fuggiva ferito, premendo i palmi tremanti super ulcera taetra tenentes (995) sopra
le piaghe orrende, invocava la morte con urla agghiaccianti
“ palmas horriferis
accibant vocibus Orcum” (996), finché atroci spasimi li privavano della
vita, senza aiuti né cure.
Però non morivano a migliaia in un sol giorno di guerra, nec turbida ponti - aequora lidebant - sbattevano
- navis ad saxa virosque (1001).
“nec poterat quemquam placidi pellacia ponti
subdola pellicere in fraudem
ridentibus undis.
Improba navigii ratio
tun caeca iacebat” (1004 - 6) non c’era l’adescamento del mare e la funesta
arte di navigare
Allora si poteva morire di fame, “contra nunc rerum copia mersat” (1008)
Vedi la satira Giovenale sui morti per cibo.
Giovenale nella I satira descrive persone che
Comedunt patrimonia
una mensa (138).
Gente imbandisce per
sé cinghiali interi,
quanta est gula quae
sibi totos
ponit apros, animal
propter convivia natum!
poena tamen praesens
cum tu deponis amictus
turgidus et crudum
pavonem in balnea portas
hinc subitae mortes
atque intestata senectus (140 ss,)
Il funerale riceve applausi dai clenti adirati.
La Roma di Giovenale: "questo rospo velenoso con gli occhi di
Venere"
( Nietzsche, Umano troppo umano)
Allora, per ignoranza
- imprudentes, mangiavano cibi velenosi, ora lo somministrano accortamente
ad altri.
Poi arrivò la monoandria - et mulier coniuncta viro concessit in unum” (1012), capanne, pelli,
fuoco tum genus humanum primum mollescere
coepit (1014) - cominciò a indebolirsi, “ingentilirsi”, secondo Luca
Canali.
Ma subito dopo Lucrezio scrive che il fuoco rese i corpi alsia, freddolosi e incapaci di
resistere al freddo, poi Venus imminuit
viris (1017) ridusse le forze, e i fanciulli con le blandizie piegarono il duro
carattere dei padri.
Intervenne anche la pietà per i deboli. Non c’era concordia
ovunque
sed bona magnaque pars
servabat foedera caste (1025),
aut genus humanum iam tum foret omne peremptum
nec potuisset adhuc
perducere saecla propago”, già allora sarebbe andato distrutto.
L’origine del linguaggio
All’origine del linguaggio ci sono l’istinto e il bisogno.
Il bambino incapace di parlare prima fa dei gesti, come i piccoli degli uccelli
accennano a volare quando ancora non sanno farlo.
E’ dunque follia pensare che un uomo abbia assegnato i nomi
alle cose e gli altri abbiano imparato da lui i primi vocaboli
Epicuro sostiene che c’è stata una iniziale fase
naturalistica (“ojnovmata ejx ajrch̃ς mh; qevsei genevsqai” (a Erodoto, 75), ma
poi di comune accordo furono stabilite espressioni particolari di ciascun
popolo, perché le indicazioni reciproche fossero meno ambigue e venissero rese
note in modo più sintetico “u{steron de;
koinw̃ς kaqj e[kasta e[qnh ta; i[dia
teqh̃nai pro;ς to; ta;ς
dhlwvseiς h|tton ajmfibovlouς genevsqai ajllhvloiς kai; suntomwtevrouς dhloumevnaς ”. Ma Lucrezio è più epicureo
di Epicuro.
Lucrezio è assertore della istintività naturale del
linguaggio e ne nega la convenzionalità (qevsei
in Epicuro, secondo un accordo).
Platone invece nel Cratilo
presuppone un ojnomatourgovς (389a) un legislatore creatore di nomi,
il più raro tra gli artefici. Le lettere dei nomi nelle varie lingue sono
diverse. Ma al nomoqevth" è
bastato rendere l’idea che conviene (ei\do"
prosh'kon) a ciascuna cosa.
Prima di lui Pitagora
sostenne che un saggio omnibus rebus
imposuit nomen (in Cic. Tusc. I,
62).
Lucrezio: anche gli animali fanno versi differenziati
secondi gli umori - varii sensus animalia
cogunt varias emettere voces, quindi è ragionevole pensare che a maggior
ragione gli uomini abbiano usato parole diverse per oggetti diversi (1090)
Gli uomini primitivi dunque scoprirono il fuoco, e dal sole
che inteneriva i prodotti nei campi, impararono a cuocere.
Cominciarono a eccellere e a cambiare la cultura - ingenio qui praestabant et corde vigebant”
1107
I re si diedero a fondare città e fortezze
Et pecus atque agros
divisere atque dedere
Pro facie cuiusque et
viribus ingenioque;
nam facies multum valuit viresque vigebant.
Posterius res inventast aurumque repertum
Quod facile et validis et pulchris dempsit
honorem (1110 - 4)
Anche i belli infatti di solito seguono la fazione del ricco
Divitioris enim sectam plerumque sequuntur (1115)
Se invece uno governasse la vita vera ratione,
divitiae grandes
homini sunt vivere parce
aequo animo; neque
enim est umquam penuria parvi (1118 - 9).
Non c’è mai miseria del poco.
Cicerone nei Paradoxa
Stoicorum[2] scrive più sinteticamente:
"non esse emacem vectigal est" (VI, 51) non essere
consumisti è una rendita.
Ma gli uomini vogliono la ricchezza e ad summum accedere honorem (1123)
Et tamen e summo,
quasi fulmen, deicit ictos
Invidia interdum
contemptim in Tartara tetra (1125 - 6) li getta colpiti (ico - ici - ictum –ere)
Dunque è molto meglio un parēre
quietum “quam regere imperio res velle et regna tenere” (1128).
Cfr. con segno ideologico capovolto quanto dice Anchiese da
morto:
“ tu regere imperio
populos, Romane, memento
(haec tibi erunt artes) pacique imponere morem,
parcere subiectis et
debellare superbos"( Eneide, VI, 851 - 853), tu, Romano, ricorda di guidare i popoli con il tuo
impero (queste saranno le tue arti) e di imporre una norma alla pace,
risparmiare i sottomessi e ridurre all'obbedienza i superbi[3].
Torniamo a Lucrezio
Quelli che lottano
sull’angusto sentiero dell’ambizione seguono i dettami del “si dice, si fa”. “ quandoquidem
sapiunt alieno ex ore, petuntque –res ex auditis potius quam sensibus ipsis (1131
- 2)
I monarchi poi
vennero uccisi e tutto tornava al fondo della feccia e alle folle “Res
itaque ad summam faecem turbasque redibat” (1141)
Agli uomini poi
venne a noia trascorrere la vita nella violenza, quindi vennero create
magistrature e leggi.
Cfr. Foscolo: “Dal
dì che nozze e tribunali ed are - diero alle umane belve esser pietose –di sé
stesse e d’altrui, toglievano i vivi - all’etere maligno ed alle fere - i
miserandi avanzi che Natura - con veci alterne a sensi altri destina” (Dei
Sepolcri, 91 - 96)
Da allora Inde
metus poenarum maculat praemia vitae (1151).
Al timore terreno si
aggiunse subito quello ultraterreno.
Poi nacque la
religione. Gli uomini credevano di vedere gli dèi e attribuivano loro ogni
potere.
O genus infelix humanum (1194) quando ebbe attribuito agli dèi potere e collera grandi.
Che cosa è la
pietas (cfr. quella di Enea)
Devozione non è
mostrarsi spesso con il capo velato
Nec pietas ullast velatum saepe videri
né nel rivolgersi a una pietra vertier ad lapidem (1199),
visitare tutti i templi, gettarsi a terra, cospargere le are di molto sangue di
animali, nec votis nectere vota, intrecciare le offerte votive sed
mage pacata posse omnia mente tueri (1203)
“Temptat enim
dubiam mentem rationis egestas” (1211) travaglia le menti la carenza di
ragione
Bastano tuoni e
fulmini a spaventare gli sprovveduti. Quelli pieni di sensi di colpa hanno
sempre paura.
Perfino il
comandante di una flotta induperator classis (1227) se viene colto da
una tempesta nel mare si riempie di terrore.
Ma cfr. Alessandro
Magno a Gaugamela.
L’arcaismo
induperator vuole dare dignitas allo stile: . Sentiamo Quintiliano: “dignitatem
dat antiquitas. Namque et sanctiorem et magis admirabilem faciunt orationem,
quibus non quilibet fuerit usurus…sed utendum modo, nec ex ultimis tenebris
repetenda” ( Institutio oratoria, VIII, 3, 24) non bisogna cercare
le parole fin nelle tenebre più lontane.
Usque
adeo res humanas vis abdita quaedam
Obterit
et pulchros fascis saevasque secures
Proculcare ac ludibrio sibi habere videtur (1232 - 5), una forza nascosta calpesta le
cose umane e sembra schiacciare e tenere a proprio ludibrio i bei fasci e le
scuri crudeli.
Questa vis
sconosciuta che calpesta le umane cose è la forza della natura.
Foscolo “e una
forza operosa le affatica/di moto in moto, (Dei Sepolcri 19 - 20)
Foscolo ha scritto Della
poesia, dei tempi e della religione di Lucrezio.
E Leopardi: Omai
disprezza - te, la natura, il brutto poter che, ascoso, a comun danno impera” (A
se stesso).
Quando ci sono i
terremoti concussaeque cadunt urbes dubiaeque minantur (1237), allora i
mortali spregiano se stessi (se temnunt mortalia saecla) e
lasciano il mondo all’immaginario grande potere degli dèi.
Quindi le scoperte
aes atque aurum ferrumque repertumst
Et simul argenti pondus plumbique potestas (1241 - 2)
Con il fuoco videro
che questi metalli potevano essere liquefacta calore (1262) e forgiati e
prendere le forme volute di vari arnesi e ornamenti
Le credenze
mitologiche attribuivano a Efesto l’invenzione della metallurgia, ad Atena
quella della tessitura, mentre l’epicureo Diogene di Enoanda dirà che hanno
dato origine alle arti aiJ creĩai kai; periptwvseiς meta; cronw/, i bisogni e le circostanze nel
tempo.
Nei tempi antichi
il rame aes adatto agli sforzi violenti era il metallo più pregiato. Nunc
iacet aes, aurum in summum successit honorem
Sic volvenda aetas commutat tempora rerum
Quod
fuit in pretio, fit nullo denique honore (1275 - 7)
Le armi e la guerra
Antiche armi:
arma antiqua manus ungues dentesque fuerunt
Et
lapides et item silvarum fragmina rami
Et
flamma atque ignes, postquam sunt cognita primum (1283 - 5)
Prima del ferro fu
trovato il bronzo che è più duttile e più abbondante.
Con il bronzo
dissodavano il suolo e facevano la guerra, poi trovarono il ferro. Cfr. Erodoto
il ferro è stato inventato per il male dell'uomo : " ejpi; kakw'/ ajnqrwvpou sivdhro" ajneuvrhtai" (I, 68, 4).
Ovidio[4] nel I libro delle Metamorfosi[5] descrive un’ età prossima alla nostra [6],
un’età non più redimibile, quella del male integrale, quando omne
nefas , ogni empietà, irrompe nel genere umano: "fugitque pudor verumque
fidesque;/in quorum subiere locum fraudesque dolusque/insidiaeque et vis et
amor sceleratus habendi./…effodiuntur opes, inritamenta malorum/ iamque
nocens ferrum ferroque nocentius aurum/ prodierat: prodit bellum, quod pugnat
utroque,/sanguineaque manu crepitantia concutit arma./ Vivitur ex rapto; non
hospes ab hospite tutus,/non socer a genero, fratrum quoque gratia rara est [7]./Imminet exitio vir
coniugis, illa mariti;/lurida terribiles miscent aconita novercae;/filius ante
diem patrios inquirit in annos./Victa iacet pietas, et Virgo caede
madentes,/ultima caelestum, terras Astraea reliquit" (I, 129 - 131 e
140 - 150) e fuggì il pudore la sincerità, la fiducia; e al posto di questi
valori subentrarono le frodi, gli inganni, le insidie e la violenza e l'amore
criminale del possesso…si estraggono dalla terra le ricchezze, stimolo dei
mali; e già il ferro funesto[8] e,
più funesto del ferro, l'oro[9] era
venuto alla luce : venne alla luce la guerra, che combatte con l'uno e con
l'altro, e con mano sanguinaria scuote ordigni che scoppiano. Si vive di
rapina; l'ospite non è al riparo dall'ospite, non il suocero dal genero, anche
l'accordo tra fratelli è poco frequente. Il marito minaccia di rovina la
moglie, questa il marito; mescolano squallide pozioni velenose le terrificanti
matrigne; il figlio scruta la morte anzi tempo negli anni del padre. Giace
sconfitta la pietas e la Vergine Astrèa, ultima dei celesti, ha lasciato le
terre sporche di strage.
Torniamo alla
guerra di Lucrezio
Segue una storia
delle arti belliche che mette in rilievo il carattere perverso della guerra la
quale uccide non solo i nemici ma anche gli amici.
Prima combatterono
a cavallo, poi sulle bighe, poi i carri falcati falciferi currus (1301).
“uno dei molti
composti epicheggianti coniati da Lucrezio (già in III 642; il termine comune e
prosaico era falcatus). La nobilitazione epica si accentua quando
arriviamo al culmine del progresso nell’uso bellico degli animali, cioè all’uso
degli elefanti (1302 - 1304) . Il primo nome con cui i Romani indicarono l’elefante
(Luca bos), testimoniatoci da Nevio, richiamava alla memoria la guerra
conro Pirro, ma il richiamo dei Poeni come primi istruttori degli elefanti alla
guerra rimanda alle guerre puniche, la più grandiosa esperienza bellica che i
Romani avessero avuto prima di Lucrezio…La nobilitazione epica è nelle scelte
lessicali e nell’allitterazione di 1304; un segno particolare l’allusione ad
Ennio nell’epiteto taetras, riferito agli elefanti…il grandioso,
accentuato anche da turrito corpore, qui fa tutt’uno con l’orrido, col
mostruoso; questo aspetto è accentuato dall’immagine della proboscide come un
lungo serpente, che si profila nello strano, allucinante epiteto anguimanus,
da Lucrezio coniato appositamente per gli elefanti (ad elefanti è riferito già
in II 537): la massiccia bestia è armata di una specie di drago…La breve storia
dell’uso degli animali in guerra (1297 - 1304) si chiude con un commento epico
- lirico (1305 - 1307), che delinea il progresso tecnico come un crescendo di
orrore e di terrore, crescendo causato dalla discordia tristis. Come in
altri punti ben noti della storia della civiltà umana tracciata da Lucrezio,
come, immediatamente prima, nella storia dell’uso dei metalli, il progresso
tecnico si rovescia in processo di corruzione; se il processo è visibile
nell’aumento dei consumi superflui (cioè non richiesti dalla vita secondo
natura), ancora più visibile è nel crescere del furore della guerra,
nell’affinarsi della tecnica bellica, nel moltiplicarsi delle stragi; del resto
già per Lucrezio, come poi per i poeti augustei, il furore bellicoso è
alimentato generalmente dalla fame di ricchezza e di lusso” (La Penna, p. 38 - 40)
Quindi i
Cartaginesi istruirono boves lucas, gli elefanti (buoi lucani perché i
Romani li videro la prima volta in Lucania), turrito corpore, anguimanus
(1303) dalla mano di serpente (la proboscide)
Così la funesta
discordia produsse una cosa dall’altra
Sic alid ex alio peperit discordia tristis (1305) e inventò ordigni sempre nuovi per
accrescere gli orrori della guerra.
Scagliarono anche
tori, leoni e cinghiali.
I leoni
sconvolgevano tutte le schiere senza distinzione.
Turbabant saevi nullo discrimine turmas (1314).
“Nel pezzo che
comprende i due versi introduttivi e il primo quadro dei leoni (1308 - 1317), saevus
è una parola chiave: saevi sono i cinghiali (1314); ma saevi sono
anche i domatori (1311) : non accorti ammaestratori, non blandi moderatori che
ammansiscono, ma feroci e violenti come le bestie che devono domare…la logica
del fallimento è nell’impossibilità di orientare la furia delle bestie, che si
dimostra non meno devastante per i padroni che per i nemici. Nel rilievo
icastico del quadro emergono in primo piano le teste terrificanti dei leoni che
scuotono le loro criniere:
terrificas capitum quatientes undique cristas (1315)
La ripresa di un
verso dal quadro che rappresenta i riti sanguinosi e ripugnanti dei Galli
seguaci di Cibele (II 632 terrificas capitum quatientes numine cristas)
rientra nel calco di un procedimento “omerico”, che contribuisce in misura notevole
a dare al poema la nobilitante patina epica; c’è qualche cosa di più: come in
qualche altro caso, la Wiederholung suggerisce analogie più ampie: i due
quadri hanno in comune anche l’eccitamento dato dal sangue che scorre (cfr. II
631 in numerumque exultant sanguine laeti con V 1313 permixta caede calentes)
(La Penna, p. 41).
Le leonesse
avventavano i corpi infuriati a salti da ogni parte
irritata leae iaciebant corpora saltu
Undique et adversum venientibus ora petebant (1318 - 9)
Mentre altri li dilaniavano
da tergo
morsibus
adfixae validis atque unguibus uncis (1322)
avvinghiandosi con
morsi forti e artigli adunchi
I tori sbalzavano
via i conduttori poi incornavano dal basso i cavalli,
i cinghiali con
forti zanne straziavano anche gli alleati
et
validis socios caedebant dentibus apri (1326)
e facevano strage di
fanti e di cavalieri.
Anche la guerra
dunque fa parte dell’irrazionalità umana
Non si fanno queste
battaglie tanto con la speranza di vincere
“Sed facere id
non tam vincendi spe voluerunt -
quam dare quod gemerent hostes, ipsique perire
qui numero diffidebant armisque vacabant” (1347 - 8)
Fromm assimila il genocidio di Cartagine perpetrato dai
Romani ad altri scempi commessi dai vincitori nei confronti dell’umanità: “The history of civilization, from the
destruction of Carhage and Jerusalem to the destruction of Dresden, Hiroshima,
and the people, soil, and trees of Vietnam, is a tragic record of sadism and
destructiveness” (The anatomy of human destructiveness, p. 192), la
storia della “civiltà” dalla distruzione di Cartagine e Gerusalemme, alla
distruzione di Dresda, Hiroshima, e del popolo, del suolo, degli alberi del
Vietnam, è un documento tragico di sadismo e distruttività.
“Di questa sequela di crimini sfuggono le motivazioni nonché
le ragioni della sua ininterrotta durata, sicché la storia nel suo complesso si
configura, per dirla con Hegel, come un “mattatoio” di dimensioni planetarie[10]
ovvero come un insondabile mysterium
iniquitatis. A questo punto - possiamo osservare con Gramsci - “irrazionale”
e “mostruoso” ci appare il “passato” in quanto tale: la storia nel suo
complesso si configura come una “grottesca vicenda di mostri”, come
“teratologia”[11]”[12].
Poi la tessitura
La natura spinse
gli uomini prima delle donne a filare la lana (1349) poiché gli uomini ne sono
più capaci.
Vediamo un aspetto dei costumi egiziani. Lo storiografo che
ama rilevare le diversità degli usi dei vari popoli, non senza la santa
tolleranza[13], nota che questo popolo,
conformemente al clima diverso e al fiume differente dagli altri, ha costumi e
leggi contrari a quelli degli altri uomini: " ejn toi'si aiJ me;n gunai'ke" ajgoravzousi kai; kaphleuvsi, oiJ
de; a[ndre" kat j oi[kou" ejovnte" uJfaivnousi" (II,
35, 2), presso di loro le donne vanno al mercato e trafficano, gli uomini
invece tessono stando in casa.
Di questo passo erodoteo si ricorda Sofocle nell'Edipo a Colono senza però che il
protagonista consideri equivalenti, o dipendenti dal clima, costumi tanto
diversi: infatti il vecchio cieco incestuoso e parricida biasima i figli maschi
poiché hanno costumi simili agli Egiziani: là i maschi siedono in casa
lavorando al telaio (oiJ me;n a[rsene~
kata; stevga~ - qakou'sin iJstorgou'nte~, vv. 339 - 340), mentre le loro
compagne vanno sempre fuori a procurare il cibo per vivere. Altrettanto fanno i
figli di Edipo e Giocasta: Eteocle e Polinice " kat j oi\kon oijkorou'sin w{ste parqevnoi" (v. 343)
restano in casa come fanciulle, mentre le due figlie, Antigone e Ismene , si
sobbarcano i gravi affanni del padre.
Ma poi i severi
agricolae si sentirono in colpa e si diedero a lavori più duri
La rerum natura
creatrix (1362) insegnò la semina e l’innesto facendo germogliare quanto
cadeva in terra. Tagliarono i boschi e cominciarono le piantagioni di messi e
fecondi vigneti e la fascia degli olivi sparsa come un manto sui poggi. Ora la
campagna è vario distincta lepore (1376) suddivisa in varia bellezza.
L’uomo ha appreso
la musica dalla natura: dagli uccelli il canto, dal sibilo del vento il flauto
(De rerum natura, V, 1379 - 1382). Il flauto risuona “per loca
pastorum deserta atque otia dia” (1387).
Ma il primo cantore delle
fanciulle di Sparta, fiere e graziose ad un tempo, è Alcmane.
Vediamo un frammento che ha il nome
dell'autore ed è una dichiarazione di poetica o di teoria compositiva basata
sull'osservazione e mimèsi del mondo naturale, e, in particolare, del canto
degli uccelli(92 D.):
"queste parole e il canto
Alcmane
trovò, mettendo in lingua umana
la voce delle pernici geglwssamevnan kakkabivdwn o[pa sunqevmeno~".
Lucrezio, nel finale del V libro
del suo poema narra che l'incivilimento umano passa anche attraverso il canto e
la musica che furono preceduti dall'imitazione del gorgheggiare degli uccelli: "at liquidas avium voces imitarier ore/ante
fuit multo quam levia carmina cantu/concelebrare homines possent aurisque
iuvare "(vv.1379 - 1381), ma l'imitare con la bocca le limpide voci
degli uccelli avvenne molto prima che gli uomini potessero modulare con il
canto poesie dolci e dilettare le orecchie.
Questa teoria passa anche attraverso
Democrito, il filosofo della teoria atomistica, contemporaneo di Socrate: "nelle
arti più importanti noi siamo stati i discepoli degli animali...degli uccelli
canori, del cigno e dell'usignolo nel canto, mediante l'imitazione"(fr.68
B 154 DK).
Tum ioca, tum sermo, tum dulces esse cachinni –consuerant (1396 - 7)
Allora i contadini
si incoronavano di fiori e percuotevano con il piede la madre terra unde
oriebantur risus dulcesque cachinni (1403)
Poiché allora tutto
allora vigoreggiava più nuovo e meraviglioso. Cfr. La tempesta.
Anche ora si suona e si danza e con maggiore regolarità, ma non se ne ricava
una dolcezza maggiore
Cfr. la colazione
sull’erba di Manet (1863)
Cfr. il carme 61 di Catullo, un epitalamio in gliconei: “Ne diu taceat procax/fescennina iocatio”
(vv. 126 - 127), non rimangano a lungo in silenzio gli sfacciati scherzi
fescennini.
I Fescennini erano "versibus alternis opprobria
rustica "[14],
insulti rustici in versi alterni . Inizialmente erano scherzi innocui,
scambiati tra i contadini, antichi, forti e lieti del poco "agricolae
prisci, fortes parvoque beati "(v.139). Questi, dopo il
raccolto, quando scannavano un maiale, per rendersi propizia la terra, libavano
il latte per Silvano e offrivano vino con fiori al Genio che ci ricorda la
brevità della vita. In seguito però il gioco già crudele si cambiò in aperta
rabbia" iam saevus apertam in rabiem coepit verti iocus "
(vv. 148 - 149), così venne approvata una legge punitiva per impedire che
alcuno fosse oltraggiato da versi infamanti.
Quam silvestre genus capiebat terrigenarum (1411)
Con le scoperte
venne in odio la ghianda, e non si usarono più giacigli di erba e di foglie.
Così la veste di pelle ferina per la quale pure si ammazzavano. Ora si
ammazzano per la porpora e l’oro.
Quo magis in nobis, ut opinor, culpa resedit (1425)
Una colpa maggiore
perché delle pelli c’era bisogno mentre non ne abbiamo della porpora e dell’oro
per ripararci dal freddo.
Il genere umano in
curis consumit inanibus aevum (1431)
Non conosce quale
sia il possesso della misura: ha sospinto in alto mare la vita e ha scatenato
dal fondo grandi onde di guerra
Et belli magnos commovit funditus aestus (1435)
Poi fu trovata la
scrittura e arrivarono i poeti
L’esperienza ha
insegnato a usare tutte le scoperte: navi, coltivazione dei campi, mura, leggi,
armi, strade, e i vantaggi e i piaceri della vita
Praemia, delicias quoque vitae funditus omnis (1450)
La ragione spingeva
gli uomini in alto artibus ad summum donec venere cacumen ( 1457),
finché con le arti raggiunsero la vetta suprema.
Poi, per la rationis
egestas, la caduta.
Fine V canto
La Penna. La
tensione fra inquietudine e serenità e l’esasperazione dei contrasti sono le
fonti principali di quella violenza espressionistica così evidente nel poeta
preaugusteo: qualche cosa quella violenza deve alla tradizione enniana, molto
più all’originalità di Lucrezio, uno dei maggiori lirici che siano mai
esistiti” (La Penna, Da Lucrezio a Persio, Sansoni, Milano, 1995, p. 28)
Espressionismo di
Ennio
Anche negli Annales di
Ennio c'è un combattente che muore cercando la luce con gli occhi: "Oscitat in campis caput a cervice
revulsum,/semianimesque micant oculi lucemque requirunt " (vv. 483 - 484
Skutsch) apre la bocca nei campi la testa staccata dal collo, e semivivi brillano
gli occhi cercando la luce.
Del resto non solo gli occhi dell'eroe o del milite
gregario, ma quelli dell'uomo che non butta via la vita "cercan morendo - il
Sole[15]";
così il moribondo di Foscolo; così Osvald che alla fine degli Spettri di Ibsen invoca il sole.
“La liberazione
nella verità del materialismo si fonda su una spiegazione scientifica del
mondo, ma non è una giustificazione del mondo: una giustificazione del mondo si
potrà trovare, a ragione o a torto, nel materialismo marxista a causa della sua
origine e della sua importanza hegeliana, non nel materialismo epicureo”
(ibidem, 28)
Giovanni ghiselli
p. s.
Presenterò questo
percorso il 24 febbraio 2015 dalle 15 alle 17 nel liceo Leonardo da Vinci di
Casalecchio (via Cavour, 6)
[1] Ovidio preferisce semivir e semimas.
[3] Questi sono i popoli riottosi degli “Stati canaglia”
dell’epoca.
[4] Vedi anche 13. 2.
[5] Poema epico di quindici
libri in esametri. Narra la storia del mondo dall'origine all'età contemporanea
attraverso racconti che hanno in comune il tema della metamorfosi. Fu composto
fra l'1 e l'8 d. C.
[6] “L’età ferrea non siamo
noi, data che questa umanità sarà poi cancellata dal diluvio (cfr. v. 188: diversamente
Esiodo, Op. 175). L’effetto di
romanizzazione è accompagnato dall’eco di un passo del carme 64 di Catullo (397
sgg.) sulla decadenza che segue all’età eroica e da echi più generici della
tematica delle guerre civili e delle proscrizioni a Roma. I tempi narrativi
accompagnano questa illusione di “presentizzazione” del mito, dato che a
partire dal v. 140 una sequenza di perfetti e piuccheperfetti cede il passo a
un blocco di verbi al presente; cfr. Landolfi 1996, pp. 84 e 88 sg. Nonostante
tutti questi indizi concomitanti, il poeta non dice, come Esiodo, di vivere
nell’età ferrea, mentre più tardi ammetterà di essere parte della razza
“pietrosa”, iniziata dopo il diluvio (cfr. v. 414 sg.)”, Alessandro Barchiesi
(a cura di) Ovidio Metamorfosi,
volume I, p. 172. Noi siamo un genus
durum experiensque laborum, una razza dura e rotta alle fatiche, in quanto
nati dalle pietre lanciate da Deucalione e Pirra (Ovidio, Metamorfosi, I, 411 - 415). In questo modo i due vecchi “non
sostenendo, come erano sconfortati e disdegnosi della vita, di dare opera alla
generazione… restaurarono la specie umana” (Leopardi, Storia del genere umano).
[7] Lucrezio
afferma che gli uomini, credendo di sfuggire al terrore della morte,
gonfiano gli averi col sangue civile, e ammassano avidi le ricchezze,
accumulando strage su strage, godono crudeli dei tristi lutti fraterni, e odiano e temono le mense dei consanguinei
"et consanguineum mensas odere
timentque " (De rerum natura
, III, 73).
[8]E' un topos antitecnologico
che risale a Erodoto : " ejpi; kakw'/
ajnqrwvpou sivdhro" ajneuvrhtai, ( Storie, I, 68) , il ferro
fu scoperto per il male
dell'uomo. Euripide nelle Fenicie attribuisce alla strage un cuore di ferro: "sidarovfrwn…fovno"
" (vv. 672 - 673). Del resto, anche il ferro, come l’oro e altri metalli
può avere significati diversi, persino contrastanti: “nos e terrae cavernis ferrum elicimus, rem ad colendos agros
necessariam, nos aeris argenti, auri venas penitus abditas invenimus et ad usum
aptas et ad ornatum decoras” (Cicerone, De
natura deorum, 2, 151), noi estraiamo dalle cavità sotterranee il ferro,
attrezzo necessario per coltivare i campi, noi troviamo vene di bronzo,
d’argento, di oro nascoste in profondità appropriate per l’uso e confacenti
all’abbellimento.
[9] Si può pensare a quello
nero: il petrolio per il quale si è versato tanto sangue. Che il ferro e l'oro creino
discordia tra gli uomini portando differenziazioni economiche e sociali lo
afferma anche Platone nelle Leggi (679b).
[10] Hegel, Werke in zwanzig Bänden, a curadi E.
Moldenhauer e K. M. Michel, Suhrkamp. Frankfurt a.. M. (1969 - 1979)
vol. 12, p. 35.
[11] A. Gramsci, Quaderni dal carcere, edizione critica a
cura di V. Gerratana, p. 1417.
[12] D. Losurdo, Stalin, p. 310.
[13] Nel terzo libro troviamo
un episodio che afferma il valore della tolleranza e lo riferisco poiché mi sembra
uno dei più alti insegnamenti della storiografia antica. Contro "la
tolleranza zero" tanto sbandierata oggi dai razzisti e dagli ignoranti. Il
re Dario aveva domandato a dei Greci se sarebbero stati disposti a cibarsi dei
loro padri morti, ed essi risposero che non l'avrebbero fatto per niente al
mondo. Quindi il re dei Persiani chiese agli Indiani chiamati Callati" oiJ; tou;" goneva" katesqivousi"(
III, 38, 4) che mangiano i genitori, a quale prezzo avrebbero accettato di
bruciarli nel fuoco, e quelli gridando forte lo invitavano a non dire tali
empietà. Così, conclude Erodoto, queste usanze sono diventate tradizionali, e a
me sembra che giustamente Pindaro abbia fatto, affermando che la consuetudine è
regina di tutte le cose ("novmon
pavntwn basileva fhvsa" ei\nai"). Vedi a questo proposito il
volumetto novmo~ basileuv~ a cura di
Ivano Dionigi.
[14] Orazio, Epistole II,
1,145.
[15]Foscolo, Dei Sepolcri , vv. 121 - 122.
Verrò a sentirti venerdì 27/02 presso la biblioteca Scandellara ,pregusto il momento. Giovanna Tocco
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