giovedì 30 gennaio 2025

Ifigenia 302. La necessità di scrivere. Una mania divina e più saggia della saggezza del mondo


 

Domenica 14 giugno scrissi alcune pagine di appunti seduto vicino

all'acqua marina che raddoppiava e potenziava la luce del sole.

Raccoglievo materiale per il romanzo, e cercavo di migliorare il mio aspetto

per attirare altre donne. Al tocco anzi non andai a desinare. Mi

sarei nutrito la sera, dopo avere pedalato in salita: non dovevo

cercare una consolazione deleteria nel cibo che, in dosi non

frugali, mi avrebbe imbruttito e abbrutito; non volevo ingrassare

né lasciarmi sconfiggere dalla fortuna che anzi, se la prendevo

dalla parte giusta, non era punto contraria.

Margherita, che nulla sapeva della catastrofe, mi domandò perché

non andassi anche io a scuola di recitazione. Risposi che la mia

libido tirava allo scrivere. La sera, dopo la bicicletta faticosa e la

povera cena, partii per Bologna. Il sole era tramontato da poco

dietro la Panoramica del colle San Bartolo: dalla parte dove il suo pendio

più scosceso si tuffa nel mare;  il cielo là sopra era di un

rosso sanguigno. Mi vennero in mente le mestruazioni di

Ifigenia, e, ancora una volta, il meriggio d'estate nel quale

facemmo l'amore in un'aia deserta, infuocata dalla canicola e

insanguinata da lei.

"La ragazza allora culminò nel mio cielo-pensai-. Adesso

tramonta. E' stata sì  l'incarnazione della carne, e pure della luce

solare".

Mentre la bianca Volkswagen attraversava il borgo di Cattabrighe,

finalmente piansi, quasi senza dolore. Il nostro amore era finito

quando doveva, né prima né dopo: infatti era arrivato il momento

di cominciare il libro con il quale avrei reso migliore me stesso e

quanti mi avrebbero letto. Mi consolava anche il pensiero che la

storia era stata troncata da lei: così non avevo dovuto umiliarla o

farle del male per proseguire il mio cammino da solo, come era

necessario oramai. L'iniziativa, se presa da me, poteva essere

perniciosa per quella ragazza che non aveva i mezzi difensivi con i

quali mi stavo salvando.

"Tu dovrai essere sempre felice ragazza", le dicevo, quando la

vedevo contenta. Se lo sarebbe stata davvero, e glielo auguravo,

non dipendeva più da me. Se era affare dell'attore famoso,

stava fresca.

La notte dormii. La mattina seguente non

feci lezione: mancava mezza classe siccome sabato 13 il preside

aveva annunciato la fine dell'anno scolastico. Ai ragazzini andava

bene non concludere il lavoro iniziato sull’oratoria greca, a me anche. Infatti

era necessario che cominciassi questo lavoro che state leggendo.

Doveva essere  di interesse generale cioè dare un’immagine dei costumi, della cultura, dei vizi  e del valore degli studenti  europei dalla seconda parte degli anni Sessanta all’inizio degli Ottanta.

Conversai con i pochi presenti: mi trovarono meno infelice di

venerdì mattina. In effetti, sapevo con certezza ciò che volevo.

All'uscita la vidi: era davanti al portone del liceo. Aveva dei

calzoni corti che lasciavano vedere le gambe fino a metà coscia.

Visione ancora vertiginosa a dirla tutta.

Mi venne incontro.

"Ciao-feci-, come va?"

"Bene, e a te Gianni?"

Non c'è male, dai!".

"Vuoi che parliamo?", domandò.

"Sì certo-risposi-, ma non qui. Andiamo da me".  Eravamo

entrambi con la bicicletta.

Arrivati a casa mia, disse che a Riccione si era inserita

nell'ambiente che la interessava; in particolare aveva conosciuto

un regista di Genova che le aveva offerto una parte in un

dramma ambientato in Irlanda: le era tornato in mente quanto

avevamo detto sull'Hibernia dell’Ulisse di Joyce .

"E tu che cosa hai fatto?", domandò.

"Ho pensato, ho annotato pensieri e fatti. Oggi comincio a

raccontare la nostra storia, per capire e fare capire, per restare altro

tempo con te, e per renderti eterna. Perché le azioni grandi e

meravigliose compiute da noi due- citai Erodoto1

 con un pizzico di ironia- ma soprattutto da te, rimangano luminose e vive  nella memoria degli uomini. Va bene? Così, mentre tu avrai il tuo da fare per

inserirti nello spettacolo, io avrò il mio per trovare lo stile

dell'universale, dell’infinitudine e per conquistare l'immortalità. Anzi, se i nostri propositi avranno successo, forse un giorno, quando che sia, per

me ci vorranno anni, forse decenni, potremo rinnovarci. L'arte, la gloria,

l'educazione di un popolo, giustificherebbero i dolori che ci siamo

inflitti a vicenda, e smentirebbero il fallimento finale. Non credi?"

"Lo spero. Tu comunque fai bene a scrivere, Gianni. Hai talento.

Adesso è arrivato il momento di  metterci tutte le forze; non puoi

rimandare".

"Lo so. Adesso infatti ti accompagno di sotto, poi comincio".

Erano le due di lunedì 15 giugno 1981. Nel mio studio c'era un

caldo pesante. Eravamo sudati senza aver fatto nulla, solo parlato.

Scendemmo in strada. Faceva caldo anche fuori. Ci augurammo

buona fortuna a vicenda, ci stringemmo le mani. Poi ifigenia

salì sulla bicicletta e iniziò a pedalare. Vedevo i capelli neri neri e

fluenti fino alle spalle semiscoperte. Dopo pochi metri, girò il

volto abbronzato più che mai . Mi guardò e sollevò la sinistra agitandola in

segno di saluto. Pensavo che non l'avrei vista più. Perciò cercai di

osservarla con attenzione e intensità. Eppure alla mia vista si

imposero altre immagini. Dietro la bella figura di lei c'erano alcune facce

 svigorite che  aspettavano l'autobus; alle loro spalle vedevo un orribile prato della sventura2 dall'erba già risecchita e cosparsa di carte, bottiglie, barattoli, aghi rugginosi, sacchetti e siringhe di plastica.

Ifigenia continuava a sorridermi.

In questo contrasto di bello-brutto, radioso-opaco, vitale-morente,

vidi l'immagine della mia vita.

Tanti dolori c'erano stati: l'infanzia desolata, povera di affetti, gli

inverni gelidi, flagellati dalla bora che penetrava fin dentro il

focolare della cucina tormentando la fiamma, l’oppressione delle

donne frustrate,  il nonno  maltrattato siccome impoverito del tutto dopo avere venduto il palazzo Martelli di Sansepolcro a Gherardo Bruitoni e non avere investito il denaro,    sospettato per giunta di essere l’amante della povera donna che faceva le pulizie in casa nostra, il padre vacante, gli amori non contraccambiati, l'abortimento della creatura concepita da Päivi  e da me con amore, le morti  di amici e parenti strappati alla vita, la loro e la mia che ogni volta ne era stata diminuita. Poi c'erano immagini ancora più tristi, di

rapporti sessuali affamati e affannati con donne che mi piacevano poco, e non stimavo : quelle che dopo un’ora o due mi davano noia e  pena; poi il raffreddore da fieno con l'asma che non lascia dormire tutte le notti dei maggi odorosi e pure velenosi per l’allergia tormentosa; quindi l'immensa volgarità della gente ordinaria depravata e mortificata dal pervertimento del messaggio di Cristo,  dall'avidità degli speculatori, dalle menzogne della pubblicità e delle propagande. Poi le stragi che hanno insanguinato via via, banche, piazze, treni, stazioni; le bombe dal ringhio metallico che hanno fatto macelli di uomini, donne e bambini dilaniati e squartati al pari di pecore e buoi. Tali visioni dolorose facevano una danza macabra, un girotondo tragico nell'aria

infuocata.

 Ma ecco che cominciarono ad apparire e a prevalere immagini belle. Vedevo le donne che mi avevano aiutato: quelle di casa innanzi tutto, la mamma, la

nonna, le tre zie Rina, Giulia e Giorgia; grazie a loro ero sopravvissuto, avevo studiato, possedevo una casa a Bologna, due a Pesaro, e diversi ettari di terra in parte fabbricabile: dei soldi in sé non mi importava,

ma servivano alla mia indipendenza. Quindi le finniche della mia

vita, Helena, Kaisa, Päivi e altre meno importanti; poi le amanti

non tanto speciali ma dignitose; poi le alunne intelligenti come

Luciana; le sante amicizie  dell'Antonia, di mia sorella, di Fulvio; i

successi scolastici, da studente e da insegnante, l'arricchimento

che mi stava a cuore: quello mentale, conseguito leggendo i

classici per decenni, poi l'amore per la natura, il  talento

educativo, quello ciclistico ereditato dal nonno materno con il suo aspetto lepido e seduttivo, elegante pur nella povertà, la fioritura mentale e fisica degli allievi, ma sopra tutto, davanti a tutto, Ifigenia che mi aveva

illuminato zone nuove del mondo, strane e  misteriose regioni

dell'anima.

"Nel suo profondo vidi che s'interna/ legato con amore in un

volume/ciò che per l'universo si squaderna "3.

La figura di Ifigenia era la sintesi e il faro della mia vita.

Avrebbe gettato luce sulle immagini annidate nella memoria

rendendole degne di ricordo.

Il resto era compito mio: dovevo riscattare i nostri errori di misere

creature mortali attraverso la bellezza delle parole e l'intelligenza

dei fatti; dovevo scontare la morte rendendo eterni i trenta mesi della

nostra storia. Non c'era un minuto da perdere: bisognava iniziare

prima che quel sentimento grandioso  mi spaventasse o mi

schiacciasse con la paura della difficoltà dell'impresa  grande e

necessaria. La dovevo a me stesso e all’umanità.

Ifigenia intanto aveva girato di nuovo la faccia, aveva

voltato l'angolo ed era scomparsa.

“Voglia di fare, voglia di fare!”, gridai con forza, e corsi su per i cinque piani di scale sdegnando l’ascensore.

Da una vetrata vidi un mentecatto che indicando casa mia faceva segno a un altro che dovevo essere pazzo. “Sì sono matto-pensai-ma la mia pazzia è divina, ed è più saggia della saggezza del mondo”

 

Note

1

Proemio delle Storie.

2

Cfr. Empedocle, Poema lustrale, v. 109.


3

Dante, Paradiso, XXXIII, vv. 85-87.

 

 

Bologna  30 gennaio 2025 ore 11, 07

p. s

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