Chiusa la porta a chiave, pensai che le cose tra noi stavano andando secondo un legge naturale: il diritto in una coppia di amanti è equo, uguale per entrambi finché le forze sono pari, ma se uno diventa più forte dell’altro prende tutto il potere e il debole cede o se ne va. Il mio potere era scosso e infranto e i miei diritti erano ormai cessati. Mi venne in mente quanto dice il personaggio Trasimaco nella Repubblica di Platone: “:"fhmi; ga;r ejgw; ei\nai to; divkaion oujk a[llo ti h] to; tou' kreivttono" suvmferon" (338c), affermo che il giusto non è altro che l'utile di chi è più forte. Pensavo che questa legge di natura non è bella ma è reale e sempre vigente. Dovevo dunque risalire la china diventare forte non menodi lei. Potevo farcela Mi dissi: “Quella si aspetta da me che io abbassi la testa ma il suo è un calcolo sbagliato: io devo adoperarmi contro tale pretesa e con la mia reazione imprevedibile superiore al suo conteggiare, meschino la spiazzerò”. La mattina appena sveglio, sentii un gran desiderio di vederla: agognavo una rivincita. Apparve, attorialmente, nella sala da pranzo dove l'aspettavo da alcuni minuti. Dopo la colazione salimmo all'Alpe di Lusia. La ragazza sedette su una panchina di ferro, davanti al rifugio Le Cune nell'aria ghiaccia ma luminosa, per abbronzarsi; io feci alcune discese fino a mezzogiorno, quindi tornai da lei. Il vento soffiava sempre sbuffi gelati. Stare lì fermi era una pena. D'altra parte, siccome il sole era alto, ci rimordeva perderlo, rinunciando a non poco colore per il desiderio di entrare nel rifugio scaldato dai termosifoni roventi. Preferimmo rimanere a patire nel freddo arrabbiato ma pieno di luce. Parlammo poco: dovevano essere assiderate pure le nostre le lingue. Le cattiverie che avevamo da dirci le tenemmo in serbo per la sera. Ricordo soltanto una mia osservazione che a lei piacque. A un certo momento soffrivamo l'aria raggelante al punto che pregavamo le nuvole di nasconderci il sole e darci l'autorizzazione a entrare nel rifugio senza rimorso. Ma quelle, pur assediandolo, non arrivavano a coprirlo, e il dio continuava a irradiare luce senza calore proprio soltanto nel luogo dove eravamo seduti noi mezzi intirizziti. La vanità della cosmesi era più forte della sofferenza inflitta dal freddo. Dissi:"Questo sole, come il nostro amore è algido, scontato e noioso siccome c'è da tanto tempo e sembra che non voglia sparire. Ma se dovesse eclissarsi o tramontare, ci lascerebbe sotto un povero cielo senza colori , in un buio infernale privo di vita. Se non ci fosse lui, a stare alle altre stelle sarebbe sempre notte1 e noi saremmo morti di freddo. Ifigenia trovò interessante questa mia osservazione. Disse che ci avrebbe pensato sopra. La sera andammo alla malga Panna. Sedemmo vicino al focolare e alle fiamme che si contorcevano nel caminetto, e si riflettevano metallicamenta sui rami e i ferri appesi alle pareti; sulle bottiglie, i bicchieri e i piatti dei tavoli; sui nostri occhi arrossati, immillandosi in un luccicore febbrile. Ci fronteggiavamo. Un anno più tardi Ifigenia avrebbe ricordato la sera del sette marzo 1981 come quella del nostro sbudellarci davanti al fuoco diabolicamente bizzarro.
Cfr. Eraclito, fr.44 Diano.
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Già docente di latino e greco nei Licei Rambaldi di Imola, Minghetti e Galvani di Bologna, docente a contratto nelle università di Bologna, Bolzano-Bressanone e Urbino. Collaboratore di vari quotidiani tra cui "la Repubblica" e "il Fatto quotidiano", autore di traduzioni e commenti di classici (Edipo re, Antigone di Sofocle; Medea, Baccanti di Euripide; Omero, Storiografi greci, Satyricon) per diversi editori (Loffredo, Cappelli, Canova)
sabato 18 gennaio 2025
Ifigenia 254. Il sole e il freddo. La sofferenza offerta alla vanità dell’abbronzatura.
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