martedì 21 gennaio 2025

Ifigenia 266. L’osteria di San Pietro e la campagna circostante.


 

Il pomeriggio andai a San Pietro, nell'osteria di due sorelle anziane e di un loro fratello intronato, per osservare con attenzione uno dei posti dove andavamo quando eravamo curiosi uno dell'altro: l'archeologia della storia d'amore avrei potuto intitolarne il capitolo; ma per scriverlo dovevo

ritrovare i sentimenti e i pensieri di quel tempo remoto, quasi

dimenticato oramai. Era la nostra prima primavera. Quasi due anni erano passati da allora. Sicché era necessario rivisitare i luoghi per rinverdire i ricordi. “Quando rivedrò le colline in fiore-cantai- mi ricorderò della nostra primavera, della nostra promaveeera!”,

Mi fermai dieci minuti sulla panca dove in maggio  la

ragazza si era seduta sulle ginocchia mie, davanti agli amici.

Quella volta ero stato contento dell'atto, pensando che fosse

espressivo di forte affetto. Ma con il volgere delle stagioni avevo maliziosamente pensato che tali gesti di parvenza amorosa, in realtà erano versi nevrotici ripetuti coattivamente per mettere alla prova la mia pazienza:

vizi erano, mezzi subdoli per impedirmi di parlare e pensare che lei non capisse le mie parole.

 

Uscito dalla bettola, andai a cercare una nicchia erbosa dove

avevamo fatto l'amore. In verità non era stato agevole: tra le erbe

c'erano ortiche, spini e sassi aguzzi; mi ci vollero dieci minuti di

sforzi per arrivare alla conclusione  di  quel tribolato e graffiato concubitus, tuttavia eravamo contenti poiché ci stavamo simpatici, ci piaceva stare insieme in quel tempo.

Cercavo quel luogo situato tra la vegetazione lussureggiante che

non c'era più, né c’era ancora. Tutto era diverso. Però lo trovai. Mi colpì la presenza di tre gruppetti, ciascuno  di tre viole che sbucavano dal terreno spoglio, duro e grigio. Quanto mutata era la fredda, muta  terra simile al ferro17 da  quella variopinta, calda e canora di

maggio! E com'era mogia l'anima mia in confronto ai salti di gioia

che faceva quando ifigenia, con splendidissima vitalità, con

intuizioni geniali, con l'aurea bellezza, l'aveva liberata dalle

rugginose catene dei luoghi comuni! Staccai dal terreno due

 viole lasciando le altre sette lì sul terreno: i  fiori raccolti erano il

simbolo delle primavere vissute con lei; i sei, rimasti a

segnare e consolare la nicchia santa, rappresentavano la speranza

di ritrovare Ifigenia, di passare nuove stagioni felici con quella donna giovane e bella.

Dopo avere messo in tasca le  creature strappate alla terra, mi

avviai per una strada sulla quale avevamo camminato a lungo il

pomeriggio in cui la mia amante aveva confessato al marito coetaneo che

amava riamata un uomo di trentaquattro anni. Era arrivato giugno, il mese più luminoso, colorito e bello.

Noi due però temevamo di non avere abbastanza da dirci nelle lunghe giornate che avremmo quasi dovuto passare insieme dopo la possibilitàcontaminata dal dovere di frequentarci come due ridicoli fidanzati. Tanto più che era finita la scuola, la sua supplenza, e con il liceo ci erano venuti meno un ambiente, un modus vivendi, e il principale argomento di conversazione.  Per nascondere tale timore, parlai più del solito: le raccontai  un romanzo di Thomas Mann che avevo letto da poco; quindi  celebrai con parole rituali e pure commosse lo splendore della natura nel mese più illuminato; infine esposi i miei vari piani per tornare al liceo, tutti vanificati  per diversi altri anni dal fato  che mi spingeva altrove.

 Ifigenia non parlava; immagino che condividesse la mia paura di fondo: che le ore a disposizione, diventate fin troppe, avrebbero reso meno

commosso e ardente, ossia piuttosto noioso, o addirittura angosciante il

nostro frequentarci dalla mattina alla sera. Invece poi, sulle spiagge adriatiche dove stavamo insieme per diverse ore  nel sole e nell'acqua, ce la

cavammo bene aumentando le razioni quotidiane di sesso, baci e

sorrisi.

Rievocavo tutto questo percorrendo una strada sterrata in direzione di una casa colonica abbandonata, una delle tante dove

si faceva l’amore lietamente giocando:"Ibi illa multa tum iocosa

 fiebant "18.

Ma già nell’ agosto seguente Lusus habuit finem. Si cominciò a farlo  tristemente se non proprio piangendo o sfuggendo all’angoscia attraverso la scappatoia dell’ironia o del sarcasmo corrosivo.

 

 

Note

17

Cfr. Orwell, 1984, trad. it. Mondadori, 1989, parte rerza, capitolo 6: "Era nel Parco, in una

fastidiosa giornata di marzo, rigida e ventosa, quando la terra era simile al ferro-when the earth was like iron., e tuttal'erba sembrava morta- and all the grass seemed dead- e non c'era neppure un germoglio da nessuna parte, tranne qualche croco, qua e là, spuntato solo per essere spazzato dal vento".

 

 

18

Catullo, Carmi, 8, 6. Allora là si facevano quei molti giochi amorosi.

 

 


Bologna 21 gennaio  2025 ore 11, 40 giovanni ghiselli

 

p. s.

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