venerdì 31 gennaio 2025

Ifigenia . Il viaggio in Grecia dell’agosto 1981 Capitolo I

I

La maturità in una scuola privata poi la partenza in bicicletta per la Grecia. Da Pesaro al Metauro    

 

 

Dopo l’addio di giugno andai a Pesaro dove seguitavo a acrivere la nostra storia, poi,  nel luglio del 1981 andai a fare l’esaminatore alla maturità in una scuola privata di Milano. Era un diplomificio il cui padrone tentò prima di lusingarmi poi di intimidirmi, visto che non facevo sconti all’impreparazione di certi candidati. Riuscì a mandare dei carabinieri a perquisire la stanza dell’albergo dove ero  alloggiato. Naturalmente non trovarono niente contro di me e potei bocciare una decina di studenti impreparati e immeritevoli di promozione. Il presidente della commissione mi fece i complimenti. Dal boss equivoco e prepotente non avevo mai accettato nemmeno un caffè. Mi resi conto di quanto la scuola privata fosse peggiore in tutti i sensi di quella pubblica che pure negli ultimi tre anni non aveva valorizzato la mia prepaazione, penalizzata anzi proprio per la sua qualità di gran lunga superiore alla media. Ma per lo meno nel liceo di Bologna i diplomi non si compravano né vendevano.

 

Tornato a Pesaro, intorno a ferragosto ricevetti una telefonata da Ifigenia che mi propose un secondo viaggio in Grecia dopo quello dell’estate precedente che ho già raccontato. Questa volta però bisognava andare a pregare in bicicletta perché le nostre orazioni e suppliche  avessero maggiore efficacia.

L’idea mi piacque. Ifigenia mi raggiunse a Pesaro, dormì dalla Giorgia, la zia anomala rispetto alle altre due, tanto  che copriva e  assecondava la nostra relazione addirittura compiacendosene.   Il 19 agosto  partimmo insieme per andare a pregare gli dèi  e gli eroi della Grecia.

Ci mettemmo sulla strada statale numero 16  alle sei di mattina perché dovevamo arrivare al porto di Ancona non dopo le nove. Avevamo due piccoli zaini sopra la schiena e le biciclette sotto di noi. La bella giovane si era adattata a girare come una baccante. Eravamo due zingari dionisiaci e volevamo interrogare gli oracoli sul nostro destino professionale. Io volevo progredire come maestro , lei si era stancata di insegnare e voleva fare altro nella vita, cioè recitare.

 Già da tempo aveva rinunciato alle supplenze nella scuola.

Fisicamente eravamo entrambi in ottima forma, però i nostri stati emotivi non erano equilibrati.  Eravamo accordati solo precariamente. Facevamo quel viaggio insieme forse per il gusto  di provocare e provare emozioni non buone, però utili ai nostri progetti di vita. Eravamo quasi nudi e si voleva vedere come potevamo funzionare in un contesto del tutto nuovo rispetto a quelli  vissuti in quella Bologna pure troppo civilizzata dove ci eravamo inflitti a vicenda diverse offese non perdonate e parecchie ferite non rimarginate.

 In vista di questo viaggio avevamo stabilito una tregua, tuttavia malsicura, soprattutto  durante le prime ore: bastava un’osservazione appena un poco critica per suscitare nubi e perfino temporali.

Pedalavamo dunque tra Pesaro e Fano la mattina di buonora, io avanti lei dietro, come i frati minori vanno per via. Dionisiaci ma cattolicamente allevati, seppur  renitenti e recalcitranti all’oppressine curiale.

 Per chi pedala da Pesaro in direzione di Fanum Fortunae a sinistra c’è il mare, a destra il colle Ardizio fino a metà strada segnata da fosso Seiore.

Mentre guardavo il sole che cercava di uscire dalla distesa marina a sud est della strada, mi sembrò che non ne avesse la forza: quando il suo faticoso svilupparsi dalla fredda pianura salata fu giunto a metà, mi parve che si stesse fermando così dimidiato: al posto dell’emisfero inferiore sommerso vedevo riflesso dall’acqua l’immagine rossa della metà superiore. Mi fece la sinistra impressione di una ragazza paralitica che passa il tempo seduta su una poltrona tenendo sopra le gambe atrofizzate un grande specchio rotondo per vederci riflessa la faccia ancora bella e la testa splendente di capelli lunghi, fulvi , lucenti, testimonianza del suo buon  tempo quando, ancora  tutta intera, sana e ben fatta, le gambe veloci la portavano dove voleva. Mi tornarono in mente Päivi, i carnevali fantastici, le feste gioiose dei mesi di Debrecen,  poi la nostra bambina mai nata, gli amici spariti, gli amori svaniti della mia gioventù in precipitoso declino, come l’estate dopo la metà di agosto. E mi si strinse il cuore “a pensar come tutto al mondo passa, e quasi orma non lascia”.

Il sole finalmente riuscì a svilupparsi dal mare fremente.

Arrivati vicini a Fano, non ci eravamo detti ancora nulla e pensai che fosse già tempo di  tentare uno scambio di parole: nel girare la testa verso la compagna di viaggio, la vedevo immusonita: poteva essere soltanto assonnata, ma pure scontenta di andare in Grecia con uno che non si impegnava a dire qualcosa di significativo.

Le feci segno di accostarsi, poi cominciai “Ifigenia, guarda il sole che si riflette nel mare raddoppiando il suo fuoco: non sembra una bomba atomica appena scoppiata, l’inizio della grande conflagrazione ignea che tutto distrugge, poi tutto rinnova?”

 Intendevo farle capire che speravo in un salutare rinnovamento tra noi. Ma quella, sgradevolmente colpita  dall’idea apocalittica, oltre che assonnata e già stanca, non tenne conto dell’auspicata catarsi seguita da una palingenesi: mi guardò con disappunto, fece un gesto di scongiuro e disse: “le tue fantasie catastrofiche d’ora in avanti, poeta, tielle per te, almeno mentre pedalo”.

Non risposi. Mi vennero in mente altri suoi atti e parole di questo tono, per niente cortese.

Gleli suggeriva la superstizione. Un segno di debolezza, di scarsa autostima. Questa cade ovunque come la pioggia che nelle paludi ristagna.

Sul nostro fallimento meditavo con dolore attraversando Fano ancora addormentata. Pensavo alla  bellezza corporea di Ifigenia ancora non vicina alla china da dove nessuno risale. Ma neanche troppo lontana.

“La magnificenza somatica-dicevo a me stesso che pure da anni curavo molto il mio aspetto con l’ascesi sportiva, il mangiare limitato al necessario e l’abbronzatura- se è scompagnata dall’intelligenza  e dalla virtù sfiorisce presto e lascia nell’invalidità chi ha sperato di conquistare il mondo brandendo il proprio aspetto quale arma inoppugnabile e come vessillo di supremazia.

Questa ragazza ha cambiato i modelli e rifiuta la mia educazione,  commettendo l’errore di attribuire alla propria venustà un valore assoluto, preponderante su tutti gli altri e capace di farle raggiungere qualsiasi meta.

Ma la bellezza da sola è un bene fragile e assai per tempo caduco. E’ come un ramo fiorito che il vento di aprile disfiora, è come il fiammeggiante papavero che la calura di giugno scolora, è come il grano giallo che brilla nella luce fulgente dei giorni più lunghi e belli dell’anno, finché la falce  lo miete spietata e l’avido agricoltore lo chiude nel buio di un sacco. E’ come la fragile foglia che il primo temporale di agosto strapazza, stacca dal ramo e trascina nella fangosa pozzanghera.

Soltanto i fiori dell’anima diventano i frutti che il volgere dei mesi e delle stagioni non possono involare mai.

Questi vivono eterni: il Bene che fai, l’Amore che dai e ricevi, la Giustizia che rendi, il Bello che crei, il Vero che trovi.

Ifigenia mi ha aiutato in questa ricerca, ma non posso dirglielo perché prenderebbe la gratitudine rivolta a quanto ha fatto per l’elevazione dell’anima mia come un giudizio limitativo della parte epidermica del nostro rapporto e della propria magnificenza corporea. Il fatto è che io per fruirne al massimo grado ho voluto trarne la spinta a indagare e migliorare me stesso. Facendo l’amore con lei, mi sono spuntate le ali necessarie per assurgere dalla bellezza  terrena a quella celeste”.

Questo è il riconoscimento più pieno di quanto e quale bene mi aveva fatto, ma non potevo dirglielo, siccome le sue mire puntavano su altri  bersagli  oramai, e io che seguitavo a percorre una strada in salita per potenziarmi e raffinarmi l’anima, non avevo più alcun credito presso di lei.

Provai a interessarla citando Dante che un tempo non le spiaceva.

 “Ho io grazie grandi appo te?”

Ma quella ringhiò: “Stai un po’ zitto, letterato incompreso, pedala e lasciami pedalare!”

Non gradiva più le mie citazioni, oppure le davano noia. In Grecia però voleva arrivare e anche io, pure in quella situazione penosa, siccome avrei imparato dell’altro da lei. Soffrendo molto dopo avere molto gioito.

Eravamo arrivati al Metauro dove svanì l’ultima speranza del più nobile fallito dell’antichità

 

Bologna 31 gennaio 2025 ore 19, 16  giovannighiselli

 

p. s

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