lunedì 15 dicembre 2025

Ifigenia CIV. Pensieri successivi. Non buoni.


 

Finita la storia con Ifigenia, sono tornato più di una volta a osservare il fatiscente edificio, collegio forse  di una razza estinta di mostri tristi, per poterlo descrivere con precisione; tuttavia non ho trovato il coraggio di oltrepassare l’ultimo dei tre gradini sbrecciati. Mi sono affacciato all’interno, ho rievocato e ruminato i ricordi rimanendo sulla soglia, poi sono tornato a Pesaro sabbiosa come Pilo, oppure a Bologna nella casa riempita dai libri.

Oggi penso che in quella occasione noi due dovevamo sentire un ineluttabile impulso erotico per avere il coraggio e lo stomaco di entrare tra quelle macerie, per stenderci nudi e inermi esponendoci a diversi rischi: dal soffitto malsicuro in bilico sulle nostre teste, al malvivente che poteva colpirci in tante parti del corpo sprotetto, alla perfida serpe sempre pronta a guizzare fuori dall’agguato per infilare  i propri denti letali nelle nostre carni esposte a molti modi di morte.

Allora in certi momenti sentivo per la giovane donna che mi si era affidata un’attrazione che mi dilatava l’anima verso la sua persona, e se non leggevo ma stavo con lei, se non pensavo ma facevo l’amore con lei, se non interrogavo il mare o gli alberi o il cielo ma guardavo vivere Ifigenia, non mi sembrava di perdere tempo: il desiderio che sentivo escludeva noia, rimpianti, rimorsi. Un desiderio contraccambiato e soddisfatto: ora guardo una fotografia di quei giorni e vedo la ragazza con le labbra tese dalla volontà di piacermi e dirmi parole invitanti, con gli occhi aperti che lanciavano bagliori di intesa, con le belle membra pronte a scattare verso la gioia che ci chiamava a celebrare i nostri tripudi festosi. Erano gli ultimi giorni di una felicità già vicina all’abisso.

La sera del 24 agosto, quando tornai dal mese di Debecen e la incontrai alla stazione di Padova, la sua bocca era sfatta quale un fico troppo maturo, gli occhi erano opachi e inespressivi,  le sue spalle cadenti si appoggiavano sulle mie come se un malvivente cui si era affidata le avesse spezzato il vincolo dell’armonia che tiene insieme le membra.

La ragazza che l’autunno precedente mi era apparsa talmente formosa da dare una forma bella anche a me, quella sera mi parve deforme.

Da allora lo stare con lei in qualsiasi modo non giustificò più il mio trascurare lo studio, siccome studiare era attività più emozionante che frequentare quella povera creatura avvizzita, noiosa, fuorviata  da se stessa, corrotta e incattivita da gente malvagia.

 

Bologna 15 dicembre 2025 ore 19, 29  giovanni ghiselli

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Ifigenia CIII. Il concubito pericoloso. Lepidi moretti.

Ci incamminammo lungo la via che costeggia la spiaggia. A un tratto vedemmo un edificio enorme, tetro, cadente, situato tra la strada asfaltata e la riva renosa. Era circondato da una rete metallica tanto fitta di squarci che poteva essere attraversata anche da persone assai meno snelle di noi. Eravamo in costume da bagno. Avevo preso  un lenzuolo per la schiena di Ifigenia o per quella mia se avessi fatto l’amore “beato e resurpino” come era solito Totò Merumeni con la cuoca diciottenne.

Tra la rete e il cupo edificio c’era un prato che sembrava quello della sciagura di Empedocle: pieno di morbi e putredine.

Vi si vedevano carte, lattine, bottiglie, siringhe, stracci sporchi, resti di fuochi e di sciagurati bivacchi. Doveva esserci stato un qualche sabba di streghe presiedute da Ecate o da altri mostri della mitologia inferiore. Magari si erano viste tre lune ed erano apparsi  spettri di morti evocati da quelle incantatrici.

La brama amorosa doveva essere immensa per superare lo schifo sparso dovunque e l’orrore immaginato da entrambi. Attraversammo quella landa maledetta attenti a non rimanerne insudiciati o feriti, e giungemmo a tre gradini grandi e sbrecciati che menavano a un corridoio. Li superammo con cautela e apprensione. Sull’andito macerie e sporcizia erano un po’ dappertutto.  Si vedevano ovunque segni di caos: pezzi di soffitto caduto, di piancito crollato, di scale precipitate. Doveva esserci stato  uno sfacelo non tanto remoto, una catastrofe scatenata dall’ira divina contro i malvagi fruitori di quel luogo ove ogni sorta di nefandezza era stata perpetrata per anni.

A un certo punto però  quei discepoli di Satana non avevano trovato scampo.

Da uno di quegli orribili mucchi sbucò una piccola serpe nera che saettò per alcuni metri fino a infilarsi in un altro  cumulo immondo.

Due amanti meno ossessi sarebbero fuggiti via da quel posto infernale. Invece noi provammo a salire due lunghe rampe di scale senza ringhiera.

Omnia vincit amor.

Il piano di sopra presentava un pavimento non meno bucato e  più pericoloso di quello inferiore dato il dislivello, però era meno ingombro di schifezze. Lassù sentivamo con paura maggiore il problema della stabilità ma con minore ripugnanza lo schifo del luridume e il terrore di imbatterci in persone pazze e criminali.

La spinta erotica reciproca era ineluttabile, sicché ci mettemmo a cercare un luogo  appena plausibile finché trovammo uno stanzone dove si trovavano accumulate vasche gigantesche, forate in varie zone ma pur sempre gravose sul pavimento che perciò doveva essere duro. Pensammo che l’esiguo peso dei nostri corpi, non più di centodieci chili in due, non avrebbe aggravato granché quello delle vasche costruite per ghiottoni mai sazi, defunti oramai con il maiale mai digerito nello stomaco sfondo.

Quindi stesi il lenzuolo da bagno sopra i pochi mattoni sgombri e lo pregai di svolgere la funzione di vello matrimoniale. Per lusingarlo anzi lo chiamai vello d’oro e lo accarezzai.

In tale talamo facemmo l’amore diverse volte nonostante sentissimo rumoreggiare qualcuno o qualcosa e potessimo essere colti durante il concubito periglioso da qualche drogato o alcolizzato o delinquente pazzo pronto a spezzarci la schiena, il ventre, le gambe, insomma la vita.

 

Bologna  15 dicembre 2025 ore 19, 17 giovanni ghiselli

 

p. s. Tre lepidi moretti

Ho visto di nuovo il film Gandhi con Ben Kinglsey. Mi commosse quando lo vidi nel 1983. Oggi mi commuove il ricordo che allora Ifigenia,  oramai trentenne, volle fare l’amore con me due anni dopo il discidium. Disse che le ricordavo quell’attore, un altro lepido moretto all’epoca.

Magari con una parrucca nella prima parte della storia.

Anche il nuovo Papa alcuni decenni fa era un lepido moretto. Senza parrucca. Noto che continua a tenersi in forma. Troppa pompa però  rispetto all’imitatore del poverello a sua volta Imitator Christi.   

Bologna 15 dicembre 2025

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Conferenza di Teramo. Didone-Enea. Decima parte.


 

Didone sempre più tormentata decide di uccidersi ma lo dice alla sorella

 

Didone soffre, ha visioni e ode voci che accrescono il senso di colpa, quindi decide che si è meritata la morte.

"Agit ipse furentem/in somnis ferus Aeneas;  (semperque relinqui/sola sibi, semper longam incomitata videtur/ire viam et Tyrios deserta quaerere terra:/Eumenidum veluti demens videt agmina Pentheus/et solem geminum et duplicis se ostendere Thebas,/aut Agamemnonius scaenis agitatus Orestes/armatam facibus matrem et serpentibus atris/cum fugit ultricesque sedent in limine Dirae " (Eneide, IV, 465-473) spietato Enea la incalza nei sogni rendendola pazza: e sempre le sembra di essere lasciata sola, sempre di andare senza compagnia per una lunga strada e di cercare i Tirii in una terra desolata: come Penteo pazzo vede schiere di Eumenidi e il sole doppio e doppia mostrarsi Tebe, o  quando Oreste figlio di Agamennone incalzato sulle scene fugge la madre armata di fiaccole e di neri serpenti e le Furie vendicatrici seggono sulla soglia.

-ferus (466)  : solo nella situazione onirica, causata dal risentimento esasperato della donna, Enea viene qualificato con l'aggettivo che gli pertiene e che lo caratterizza quale davvero è.

-semperque(…)sola sibi: allitterazione insistente che sottolinea la solitudine.

-desertā(…)terrā : la desolazione della donna ricade sulla terra di cui è regina per il principio della responsabilità collettiva. E' lo schema dell' Edipo re di Sofocle dove la terra tebana è avvelenata dal mivasma costituito da Edipo.

Eumenidum: sono le Furie che perseguitano Oreste divenute "benevole" dopo avere ricevuto un culto ad Atene per intercessione della dea eponima della città[1].

Qui, forse sulla scorta di Pacuvio o di Accio, vengono identificate con le Baccanti che combattono Penteo, il re di Tebe ostile alla religione dionisiaca.-solem geminum…duplicis (=duplices)…Thebas : questa immagine invece deriva proprio dalle Baccanti di Euripide quando Penteo farneticante dice:"kai; mh;n oJra'n moi duvo me;n hJlivou" dokw'-dissa;" de; Qhvba" kai; povvlism' eJptavstomon" (vv. 918-919), veramente mi sembra di vedere due soli e doppia anche Tebe la città dalle sette porte. La pazzia indotta dalla religione è simile a quella provocata dall'amore.

-Orestes : il figlio di Agamennone che per ordine di Apollo ha ucciso la madre e deve subirne le Furie vendicatrici.

-sedent: l'immagine delle Furie in sosta sembra dipendere dalle Eumenidi di Eschilo:"provsqen de; tajndro;" tou'de qaumasto;" lovco"-eu{dei gunaikw'n ejn qrovnoisin h{meno" " (vv. 46-47), davanti a quest'uomo una strana torma di donne dorme seduta nei troni. Verranno svegliate poco dopo dall'ombra di Clitennestra.

 

Didone quindi decide di morire, ma parla con la triste sorella nascondendo con l'aspetto il suo proposito:"Ergo ubi concepit furias evicta dolore/decrevitque mori, tempus secum ipsa modumque/exigit et maestam dictis adgressa sororem/consilium voltu tegit ac spem fronte serenat" ( Eneide, IV, 474-477) come sopraffatta dal dolore, ebbe accolto le furie e decise di morire, stabilisce da sola tra sé il tempo e il modo e, rivolgendosi con queste parole alla triste sorella, copre il proposito con il volto e fa brillare la speranza sulla fronte.

-concepit furias: le furie sono dunque interiorizzate e diventano parti  dell'anima. Tali le Erinni nell'Oreste di Euripide: quando Menelao, vedendo il nipote tormentato, gli domanda: "tiv" s j ajpovllusin novso" ;  " quale malattia ti distrugge?, Oreste  risponde :" hJ suvnesi", o{ti suvnoida deivvn j eijrgasmevno" " , l'intelligenza poiché ho coscienza di avere compiuto atti orrendi  ( vv. 395-396).

Bologna 15 dicembre 2025 ore 15, 54 giovanni ghiselli

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[1] Cfr. Eschilo, Eumenidi, vv. 824 sgg.


Medea di Euripide versi 74- 95 Traduzione e commento miei.


 

 

Nutrice

E tollererà Giasone che i figli soffrano pai`da~

pavsconta~ questo, se pure è in disaccordo con la madre? 75

 

Pedagogo

Le antiche cedono alle nuove parentele , kainw`n levipetai khdeumavtwn

e quello non è amico di questa nostra casa.

 

Nutrice

Siamo perduti allora, se un male nuovo

aggiungeremo all'antico, prima che questo sia esaurito.  

 

Pedagogo

Ma tu comunque, poiché non è opportuno che sappia questo 80

la signora, stai calma e non dire una parola.

 

Nutrice

O figli, sentite com'è il padre verso di voi?

vada in malora magari no: infatti è il mio padrone;

nondimeno è provato che è davvero malvagio verso i suoi cari.

 

Pedagogo

Chi non lo è tra i mortali? Solo ora prendi coscienza di questo, 85

che ciascuno ama se stesso più del prossimo

alcuni magari a ragione, ma altri anche per lucro,

se questi bambini qui per un letto il padre non li ha cari?

 

Nutrice

Andate, ché sarà meglio, dentro la casa, o figli.

Tu, più che puoi, tieni isolate queste creature 90

e non lasciarle andare vicino alla madre furente.

Già infatti l'ho vista mentre fissava con furia taurina

questi bambini, come se avesse in animo di fare qualcosa; e non cesserà

dall'ira, lo so bene, prima di avere assalito qualcuno.

Spero almeno lo faccia con i nemici, non con i suoi cari. 95.

 

Commento

 

pai`da~ pavsconta" (vv. 74- 75)  che i figli soffrano

Il dolore inflitto ai bambini  non ha nessuna giustificazione. Lo dice Ivan Karamazov:" E se le sofferenze dei bambini hanno servito a completare la somma delle sofferenze necessarie per acquistar la verità, io dichiaro fin d'ora che tutta la verità presa insieme non vale quel prezzo"[1].

Dostoevskij mostra la disperazione di una bambina causata da un adulto congiurato con l'inferno, Nikolaj Stavrogin[2], nel romanzi I demoni dove la piccola  Matrioŝa si impicca in "un minuscolo ripostiglio, una specie di pollaio" dopo che il suo viso aveva espresso "una disperazione che era impossibile di vedere sul viso di una bambina"[3]

Per evitare le sofferenze dei bambini si deve rinunciare anche all’armonia: “Hanno valutato troppo cara quell’armonia e non abbiamo mezzi per pagarne a tal prezzo l’ingresso. E perciò mi affretto a restituire il mio biglietto d’ingresso. E se sono un uomo onesto, devo restituirlo al più presto possibile”[4].

 

 

diaforavn (v. 75) disaccorfo: tra i due ex amanti c’è  diversità di carattere, di educazione e di cultura.-kainw'nkhdeumavtwn (v. 76): genitivo dovuto all’idea di paragone contenuta in leivpetai. Le nuove parentele acquisite attraverso il matrimonio sono più convenienti per il pragmatico Giasone, ma Medea interpreta l’imparentamento dei suoi figli con quelli di Glauce figlia del tiranno di Corinto Creonte come una contaminazione della loro razza di discendenti dal Sole la quale non deve sporcarsi avvicinandosi alla stirpe di Sisifo[5], il malfamato fondatore di Corinto. Tali accoppiamenti incongrui, dettati dall’interesse materiale vengono deprecati già da Teognide: “I montoni e gli asini noi li cerchiamo, o Cirno, e pure i cavalli/di razza buona, e ciascuno vuole che derivino/da procreatori buoni; invece, di sposare una donna ignobile, figlia di padre ignobile, non si preoccupa/l'uomo nobile, se gli dà molto denaro,/né una donna sdegna di essere la sposa di un plebeo/purché ricco, anzi lo preferisce facoltoso piuttosto che nobile./Onorano il denaro: e un nobile sposa la figlia di un plebeo e un plebeo quella di un nobile: la ricchezza ha mescolato le stirpi.” (Silloge, vv. 183-190). Come l’incesto, questa mescolanza innaturale genera confusione.

-kakovnnevon palaiw/' (v. 78 e v. 79):  tra i mali, il nuovo e l’antico non c’è neppure quella discontinuità che permetterebbe il respiro.

 Viene in mente una risposta della Pizia delfica ai Lacedemoni che erano andati a interrogarla sulle ossa di Oreste. Ella allora aveva cantato, in esametri: "c'è in Arcadia una Tegea in luogo piano/dove due venti soffiano per possente necessità,/ e colpo e contraccolpo, e male su male si posa" (kai; tuvpo" ajntivtupo", kai; ph'm  j ejp  jphvmati kei'tai, Erodoto  I, 67, 4).-

 kairov" (v. 80) opportuno.

 La scelta giusta del momento opportuno è una delle prove decisive dell’intelligenza di una persona:  Isocrate[6] nel manifesto della sua scuola, Contro i sofisti [7] afferma che  difficile non è tanto acquisire la conoscenza dei procedimenti retorici, quanto non sbagliarsi sul momento opportuno per usarli  :"tw'n kairw'n mh; diamartei'n"( 16).

.-a[rti givgnwvskei" (85 ) –ora capisci- è una comprensione tardiva di una realtà cattiva che non può essere modificata. Diversa è la situazione di Admeto che, nell’Alcesti , comprende in tempo di avere sbagliato chiedendo alla giovane moglie di morire per lui: “lupro;n diavxw bivoton: a[rti manqavnw” (v. 940) . Una comprensione che gli frutta la restituzione della sposa grazie alla possa di Eracle. Jan Kott interpreta malignamente questo ravvedimento: “Ma è guarito Admeto?  “Ora comprendo” (940), dice tornando nella casa vuota dopo il funerale. Ma che cosa ha capito? Che la casa è sporca, che i bambini piangono, che lui non può risposarsi, che tutti lo considerano un codardo”[8].

 

 Il verso 86  sintetizza l'egoismo dell'età borghese di cui, si dice, Euripide è stato il primo poeta:"Il predominio degli affari, del conteggiare e calcolare, dalla sfera privata sino alla più alta sfera pubblica, caratterizza l'età di Euripide"[9].

 Euripide viene considerato il padre della Commedia Nuova, dove troviamo i tipi e i principi della vita borghese. “In essa sopravvisse la forma degenerata della tragedia. Dato questo nesso, è comprensibile l’appassionata inclinazione che i poeti della commedia nuova sentirono per Euripide; sicché non sorprende più il desiderio di Filemone che si sarebbe voluto far impiccare subito solo per poter visitare Euripide agli inferi”[10]. Invero questo predominio degli affari a Euripide non piace: lo racconta con parole critiche.


riquadro

Egoismo e umanesimo. Contro i sacrifici umani della guerra. Contro la pena di morte.

All'opposto di questa chiusura nell'ego c'è l' Antigone di Sofocle che afferma il suo amore per l'umanità :" ou[toi sunevcqein ajlla; sumfilei'n e[fun", (v. 523), certamente non sono nata per condividere l'odio, ma l'amore. "Esiste un umanesimo greco, al quale dobbiamo opere come l'Antigone  di Sofocle, una delle più alte tragedie ispirate a quest'atteggiamento; in essa, Antigone rappresenta l'umanesimo e Creonte le leggi disumane che sono opera dell'uomo"[11].

 Un'altra espressione di umanesimo è quella che il vecchio Sofocle attribuisce a Teseo  nell'Edipo a Colono : "e[xoid  j ajnh;r w[n"(v.567), so di essere un uomo.

 

“Compresero che un vero uomo è un fenomeno raro quanto una vera donna. Un uomo che non vuole dimostrare nulla alzando la voce e facendo risuonare la spada, un uomo che vuole soltanto dare e ricevere, senza fretta e senza avidità, perché ha dedicato l’intera esistenza, ogni sua fibra, ogni barlume della sua coscienza e ogni muscolo del suo corpo al richiamo imperioso della vita: un uomo simile è un fenomeno estremamente raro”[12].

“E’ duro avere a che fare con un vero uomo, mia cara, perché ha un’anima”[13].

 

Nell'Heautontimorumenos  troviamo  l'interessamento benevolo dell'uomo per l'uomo :"Homo sum: humani nil a me alienum puto "[14], sono uomo e tutto ciò che è umano mi riguarda, risponde Cremete a Menedemo che gli ha chiesto se abbia tanto tempo libero da prendersi cura di guai non suoi. Infatti "il primo peccato mortale, ora credo, è il tradimento della cortesia. Il venir meno dell'ascolto"[15].

 

Cicerone nel III libro del De Officiis  dice che l'umanità è un unico corpo del quale i singoli individui sono le membra. Dobbiamo aiutare l'uomo perché ogni uomo è parte di noi stessi :"Etenim multo magis est secundum naturam excelsitas animi et magnitudo itemque comitas, iustitia, liberalitas quam voluptas, quam vita, quam divitiae, quae quidem contemnere et pro nihilo ducere  comparantem cum utilitate communi magni animi et excelsi est. Detrahere autem de altero, sui commodi causa, magis est contra naturam quam mors, quam dolor, quam cetera generis eiusdem  "(III, 24). Infatti è molto più secondo natura l'elevatezza e la grandezza d'animo, e parimenti la cortesia, la giustizia, la generosità, che il piacere, che la vita stessa e le ricchezze; quindi disprezzare questa roba e valutarla nulla paragonandola con l'utilità comune è proprio di un animo grande ed elevato. Sottrarre invece a un altro per il tornaconto proprio, è più contro natura che la morte, il dolore e altre cose del medesimo genere.

E più avanti (III, 25):" ex quo efficitur hominem naturae oboedientem homini nocere non posse  ", da ciò deriva che l'uomo il quale obbedisce alla natura non può nuocere all'uomo.

Marco Aurelio, imperatore (161-180 d. C.)  e filosofo, scrive (Ricordi , II, 1): noi siamo nati per darci aiuto reciproco ("pro;" sunergivan"), come i piedi, le mani, le palpebre, come le due file dei denti. Dunque l'agire  uno a danno dell'altro è cosa contro natura ("to; ou\n ajntipravssein ajllhvloi" para; fuvsin").

 

 Una splendida idea dell'humanitas  del circolo scipionico che è stata e sarà ripresa nei secoli dei secoli : in Devotions upon Emergent Occasion di  John Donne (1572-1631) per esempio  leggiamo:" Nessun uomo è un'isola conclusa in sé; ogni uomo è una parte del Continente, una parte del tutto. Se il mare spazza via una zolla, l'Europa ne è diminuita, come ne fosse stato spazzato via un promontorio..la morte di qualsiasi uomo mi diminuisce, perché io appartengo all'umanità, e quindi non mandare mai a chiedere per chi suona la campana("for whom the bell tolls "[16] ); suona per te.

 

L’idea dell'unità  è una meta inseguita, anche come scopo personale,  da diversi autori: Hermann Hesse, per esempio,

 che  scrive:" In nulla al mondo, infatti, io credo così profondamente, nessun'altra idea mi è più sacra di quella dell'unità, l'idea che l'intero cosmo è una divina unità e che tutto il dolore, tutto il male consistono solo nel fatto che noi, singoli, non ci sentiamo più come parti inscindibili del Tutto, che l'io dà troppa importanza a se stesso. Molto dolore avevo sofferto in vita mia"[17].

 

 

 

L'abulico Oblomov di Gončarov nega valore all'intelligenza che non comprende l'umanità:"Voi credete che il pensiero possa fare a meno del cuore. No, il pensiero è reso fecondo dall'amore. Tendete la mano all'uomo caduto per sollevarlo, o piangete lacrime amare su di lui, se egli è finito, ma non lo schernite. Amatelo, riconoscete voi stesso in lui e trattatelo nel modo in cui trattereste voi stessi"[18]. 

La mancanza di solidarietà verso il prossimo è spesso la conseguenza del divide et impera che è forse la prima regola di ogni potere ed è molto evidente, anche se per i più costituisce uno dei tanti imperii arcana .

 

Penso che l'amore di se stesso e quello dell'umanità non siano separabili. Nella seconda commedia della trilogia pirandelliana del teatro nel teatro, Ciascuno a suo modo, l'attrice Delia Moreno afferma:"Sapete che cosa significa "amare l'umanità"? Soltanto questo:"essere contenti di noi stessi"[19]. Quando uno è contento di se stesso "ama l'umanità"[20].

 

 

 “Raskòlnikov ha violato il precetto di Cristo perché ha amato gli altri meno di sé, Sonja perché ha amato sé meno degli altri: Cristo invece ha comandato di amare gli altri non meno e non più di se stessi, ma come se stessi[21].

“Bisogna imparare ad amare se stessi-questa è la mia dottrina-di un amore sano e salutare: tanto da sopportare di rimanere presso se stessi e non andare vagando in giro…E, in verità quello di imparare ad amare se stessi non è un comandamento per oggi e domani. Piuttosto è questa, di tutte le arti, la più sottile, ingegnosa, lontana e paziente”[22].

 

Contro i sacrifici umani che sono parte della disumanità della guerra si esprime umanamente la vecchia regina troiana nell'Ecuba di Euripide che accusa la disumanità dei politici demagogici rappresentati da Odisseo:"Forse il dovere li spinse a immolare un essere umano/presso una tomba, dove sarebbe più giusto ammazzare un bue?(vv. 254-261). Poco più avanti Ecuba supplica Odisseo di non ammazzare la figlia con un verso che è un'alta espressione di umanesimo in favore della vita:"mhde; ktavnhte: tw'n teqnhkovtwn a{li" " (v. 278), non ammazzatela: ce ne sono stati abbastanza di morti. 

 

Nelle Troiane di Seneca Agamennone prende una posizione analoga a quella dell’Ecuba euripidea davanti allo spietato Pirro che esige il sacrificio di Polissena:"Quidquid eversae potest/superesse Troiae, maneat: exactum satis/poenarum et ultra est. Regia ut virgo occidat/tumuloque donum detur et cineres riget/et facinus atrox caedis ut thalamos vocent,/non patiar. In me culpa cunctorum redit:/qui non vetat peccare, cum possit, iubet " (vv.285-291), tutto ciò che può sopravvivere di Troia sconvolta, rimanga: è stato fatto pagare abbastanza in fatto di pene e anche troppo. Non sopporterò che la ragazza figlia della regina muoia e la sua vita sia donata a una tomba e che un delitto atroce spruzzi di sangue le ceneri in modo che parlino di cerimonia nuziale: la colpa di tutti i misfatti ricade su me: chi non impedisce un delitto, quando può, è come se lo avesse ordinato. Se deve essere fatto un sacrificio in onore di Achille, continua il dux "caedantur greges/fluatque nulli flebilis matri cruor" (vv. 296-297), si ammazzino animali del gregge[23] e scorra il sangue che non faccia piangere nessuna madre umana.

 

 

Concludo con Il sogno di un uomo ridicolo di Dostoevskij, un "racconto fantastico" del 1877.


Il kevrdo~ (v. 87) lucro

La parola kevvvrdo" è emblematica dell'età dell'egoismo rappresentata senza simpatia da Euripide. La scarsa considerazione del profitto risale all'età eroica: nell'ottavo canto dell'Odissea , Eurialo, un  atleta giovane e bello dell'isola dei Feaci, per offendere Ulisse, gli dice che non gli sembra un uomo capace di gare, ma un capo di marinai mercanti, uno che si ricorda del carico e sorveglia i guadagni rapaci ("ejpivskopo"...kerdevwn q j aJrpalevwn" (vv. 163-164). Odisseo risponde con ira al suo detrattore dicendogli "sei di aspetto splendido, ma vuoto di mente", quindi lo sbugiarda mostrando a tutti di essere ancora un ottimo atleta. 

Kevrdo"  è una delle parole che ricorrono nei discorsi dei tiranni delle tragedie: il profitto è una vera ossessione del despota.

Nell’Antigone, per esempio Creonte replica al coro usando termini economici, quelli che la nobiltà, non solo greca, considera i più  vicini agli interessi e alla mentalità tanto della plebe quanto dei tiranni che la capeggiano:"e infatti la paga (misqov") è questa. Ma per speranze/il lucro (kevrdo")  spesso manda gli uomini in rovina". (v. 221-222). Più avanti l'autocrate cercherà di rinfacciare l'avidità a Tiresia (v. 1055) il quale subito dopo ritorcerà contro di lui l'accusa di amare i turpi guadagni (v. 1056).

Leopardi in Il pensiero dominante  condanna l’ossessione dell’utile da parte della sua età "superba,/ che di vote speranze si nutrica,/vaga di ciance, e di virtù nemica;/stolta, che l'util chiede,/e inutile la vita/quindi più sempre divenir non vede"(vv. 59-64).

Ancora più duramente si esprime nei confronti del lucro  il poeta di Recanati nella Palinodia al Marchese Gino Capponi :" anzi coverte/fien di stragi l'Europa e l'altra riva/dell'atlantico mar...sempre che spinga/contrarie in campo le fraterne schiere/di pepe o di cannella o d'altro aroma/fatale cagione, o di melate canne,/o cagion qual si sia ch'ad auro torni"(vv. 61-67).

Efficace è la sintesi pindarica : "ajkevrdeia levlogcen qamina; kakagovrou~ " (Olimpica I , v. 53), una perdita tocca spesso ai maldicenti. Sono quelli che dicono male degli dèi e, quindi, della vita, reificandola, riducendola a cosa.

 

Cnemone, il Duvskolo~ di Menandro, dice di essersi distolto e isolato dall'umanità dopo avere constatato che l'attenzione dei più era indirizzata al lucrare (pro;~ to; kevrdainein, Duskolo~  v, 720)).

Tra i moderni  Celine esprime insofferenza e disgusto per il commercio e la pubblicità che pervadevano tutta New York la "città in piedi…diritta da far paura…costruita in altezza… La mia stanchezza s'aggrappava dinanzi a quelle distese di facciate, a quella monotonia di lastricati, di mattoni e di travature all'infinito e di commercio e di commercio ancora, questo cancro del mondo, che prorompeva con réclames  promettenti e pustolose. Centomila menzogne farneticanti"[24].

 

Fromm descrive senza alcuna simpatia il carattere mercantile il quale" sperimenta se stesso come merce e venditore di merce. Si preoccupa della capacità di risultare vendibile. Non capisce il valore intrinseco di cose o persone ma il loro funzionamento. Non ha  legami emozionali con niente: le cose contano per il prestigio o il conforto che danno ma in sé non hanno importanza: sono consumabili come le persone"[25].

Il culto idolatrico del denaro porta all'annientamento di ogni altro valore e divinità, Eros compreso.

 

D. H. Lawrence fa su questo tema una riflessione che si può collegare alle transvalutazioni generali, anche lessicali[26], che avvengono in certi periodi:" Tutte le grandi parole, pensava Connie, erano diventate vane per la gente della sua generazione; amore, gioia, felicità, casa, padre, madre, marito, tutte quelle grandi parole erano presso che morte ora, e andavano morendo di giorno in giorno. La casa non era che un luogo dove si viveva; l'amore una cosa che non ingannava più; la gioia una parola da applicarsi a un bel charleston; la felicità un termine ipocrita usato per ingannare gli altri; il padre era una persona che si godeva la vita; il marito un uomo con cui si viveva e si cercava di tenere il buon umore. E quanto al sesso, l'ultima grande parola, non era che un nome da cocktail applicato a una eccitazione fugace che divertiva un istante e lasciava più flaccidi di prima…Il denaro? Forse era un'altra cosa. Si aveva sempre bisogno di denaro. Il denaro, il successo, la dea-cagna…erano necessità permanenti…Per far muovere il meccanismo della vita, si ha bisogno di denaro. Bisogna averne. Bisogna avere denaro. Non si ha veramente bisogno di nient'altro, in fondo. Tutto qui! Non è colpa nostra se viviamo; e, dal momento che viviamo, il denaro è una necessità, la sola necessità assoluta. Di ogni altra cosa, alla peggio, si può fare a meno. Ma non del denaro. Per l'ultima volta: tutto qui!"[27].

Alla fine del romanzo di Lawrence c'è una maledizione della civiltà industriale con il culto idolatra di Mammona che nega e uccide la gioia di vivere:"Se gli uomini indossassero calzoni scarlatti, come dissi una volta, non penserebbero tanto al denaro; se potessero saltare e ballare e cantare e far mostra di sé ed essere belli, si accontenterebbero di ben poco denaro. E potrebbero imparare a essere nudi e belli, a cantare in massa, a ballare le antiche danze in gruppo, a intagliare gli sgabelli su cui seggono e a ricamare i propri simboli. Allora non avrebbero più bisogno di denaro. Questo è il solo mezzo per risolvere il problema industriale: insegnare al popolo a vivere e vivere in bellezza, senza bisogno di spendere" (p. 347).


 

-eujnh'" ou{nek '(a), (v. 88 per un letto

): il letto è il  movente, diretto o indiretto, dei delitti di questa coppia disgraziata: “Ho sempre trovato che le coppie male assortite sono quelle più desiderose di vendicarsi: esse fanno scontare al mondo intero di non poter più andare ciascuno per conto suo”[28].- ejrhmwvsa" e[ce (90 tieni isolate)  La conseguenza della completa peccaminosità dell'era dell'homo lupus homini è che la vicinanza tra gli umani è pericolosa al punto che le stesse madri, esasperate, possono arrivare a uccidere i propri figli, come ai nostri giorni. E' il momento  della lotta spietata di tutti contro tutti.

-mh; pevlaze (v. 91 non lasciarli andare vicino) Pochi versi più avanti (101-103) la Nutrice ripete ai bambini l'invito a non avvicinarsi a quella furia: mh; pelavsht' (e), e a guardarsi da quell'indole selvaggia. Il prossimo, l'avvicinamento, la vicinanza, perfino quella della propria madre, sono diventate categorie a rischio di morte

 

.-dusqumoumevnh/  (v. 91 furente):  participio di dusqumevomai. Il prefisso dus- nei composti conferisce un valore avversativo-negativo. Infatti Medea ha uno qumov" esasperato. Ho tradotto ricordando C. Pavese:"E qualcuno ora è vecchio-e ti parla- che vide i suoi figli sacrificati dalla madre furente"[29].

 

 o[mma (…) tauroumevnhn (v. 92) La donna si  fa toro nello sguardo. Il toro, riproposto al v. 188, incarna potenza sessuale ed è anche la "maxima… victima"  (Virgilio, Georgiche II, 146-147)  del sacrificio, quindi la furia di Medea si ritorcerà contro di lei. L'imbestiamento taurino è conseguenza anche della pazzia di Aiace. L'eroe impazzito dopo avere fatto strage di tori, si fa toro lui stesso: “uJpestevnaze, tau'ro" w{" brucwvmeno"” (Aiace, v. 322), gemeva cupamente come un toro che muggisce.

 

Nell’Otello di Shakespeare la gelosia omicida stravolge l’aspetto del Moro: Some bloody passion shakes your very frame  (V, 2), una passione sanguinaria scuote la vostra stessa forma, gli dice Desdemona in procinto di essere assassinata.

-toi'sd j(e) (v. 93 questi sono i bambini  che la madre fissa con furia) : dativo di svantaggio. Si può immaginare l’angoscia dei bambini che hanno bisogno di delicatezza affettuosa: “Ecco, sei passato accanto a un bambino: eri pieno d’ira, con una cattiva parola sulle labbra, con la collera nell’anima; tu non ti sei accorto del bambino, ma il bambino si è accorto di te, ti ha notato, e la tua immagine, così brutta e cattiva, è forse rimasta improntata nel suo cuore senza difesa. A tua insaputa, è possibile che tu abbia gettato un seme cattivo nell’anima sua, e quel grano cattivo forse vi crescerà, solo perché non ti sei dominato davanti al bimbo, perché non hai saputo educare in te l’amore vigile e attivo”[30].

Bologna 15 dicembre 2025 ore 11, 45 giovanni ghiselli

 

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[1] F. Dostoevkij, I fratelli Karamazov, p. 318.

[2] "lo si sarebbe detto un modello di bellezza, e nello stesso tempo pareva anche ributtante" (p. 44).

[3] I demoni, del 1873, p. 448.

[4] F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, p. 319.

[5] Cfr. v. 405.

[6] 436-338 a. C.

[7] Del 390.

[8] Jan Kott, Mangiare Dio, p. 127.

[9] W. Jaeger, Paideia 1, p. 568.

[10] Nietzsche, La nascita della tragedia, p. 76.

[11]E. Fromm, La disobbedienza e altri saggi , p. 63.

[12] S. Màrai, La recita di Bolzano, p. 31.

[13] S. Màrai, La donna giusta, p. 62.

[14]Heautontimorumenos  ,77,. Questa commedia fu rappresentata nei Megalenses del 163 a. C.

[15] F. Frasnedi, La lingua, le pratiche, la teoria ,  p. 55.

[16] E', notoriamente, il titolo di un romanzo di  Hemingway, 1940

[17]H. Hesse, La Cura , p. 77.

[18] I. Gončarov, Oblomov (del 1859), p. 53.

[19] Cfr. Seneca ep. 9, 13: Se contentus est sapiens.

[20] L. Pirandello, Ciascuno a suo modo (del 1924), atto I. Le altre due commedie della trilogia sono Sei personaggi in cerca d'autore  (del '21) e Questa sera si recita a soggetto  (1929) e

 

[21] D. Merezkovskij, Tolstòj e Dostojevskij, p. 279.

[22] F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, p. 235.

[23] Ora è di moda l’animalismo seguito da gente la quale si  prende maggior cura della vita degli animali che di quella umana.

[24]L. F. Céline, Viaggio al termine della notte (del 1932), p. 194 e p. 215.  p. 171

[25]Avere o Essere? , p. 192.

[26] Sulle quali torneremo neela scheda successiva al v. 394.

[27] D. H. Lawrence, L'amante di Lady Chatterly (del 1928), p. 80.

[28] F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, p. 257.

[29] Dialoghi con Leucò,  Gli Argonauti. Cfr. Satyricon: “nec Medea furens fraterno sanguine pugnat” (108, 14), né Medea furente combatte con il sangue fraterno. E’ un esametro recitato da Trifena che cerca di sedare una rissa sulla nave.

[30] F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, p. 401.