Il libro di Valerio Varesi Il
rivoluzionario (Frassinelli) e i topoi (luoghi) letterari.
Il bel libro di Valerio Varesi
contiene dei topoi, dei luoghi della storia della politica e della letteratura
nei quali ho ritrovato i miei auctores, gli autori-accrescitori che hanno
arricchito la mia umanità di coscienza e di bellezza.
Il primo topos è “la nostalgia
della guerra” (Il rivoluzionario, p. 3) che induce alcuni partigiani a
continuare in un modo o in un altro, in un luogo o in un altro, la guerra di
liberazione combattuta contro i nazisti.
La guerra in sé è una cosa brutta,
ma ancora più brutta è la schiavitù.
Io, forse perché sono inermis,
auspico una guerra senza armi letali, e usa la buona Eris delle parole.
Considero pessima l’Eris delle armi.
La guerra viene esecrata sin
dall’Iliade, il poema delle battaglie “sempre sonanti” dove tuttavia
Zeus dice ad Ares: "e[cqisto"
dev moiv ejssi qew'n oi} [ Olumpon e[cousin“ (Iliade, V, 890), tu per me sei il più
odioso tra gli dei che abitano l'Olimpo.
Ares è appunto il dio della guerra
ed esso viene esecrato anche dal religioso Eschilo: nel primo Stasimo dei
Sette a Tebe
il Coro dissacra il dio
sanguinario definendolo un domatore di popoli che soffia con furia
violenta e contamina la pietà "mainovmeno"
d j ejpipnei' laodavma"-miaivnwn eujsevbeian"(vv. 343-344).
Nell' Agamennone (del 458) Ares
viene definito "oJ crusamoibo;"
d' j [Arh" swmavtwn"(v.437), il cambiavalute dei corpi,
nel senso che la guerra distrugge le vite e arricchisce gli speculatori. Quando
i conflitti armati finiscono infatti "Invece di uomini, / urne e cenere /
giungono alla casa di ciascuno" (vv. 434-436).
Un’ultima testimonianza: il
religiosissimo Sofocle prega tutti gli dèi, ma nell'Edipo re Ares viene deprecato dal religiosissimo autore come
"il dio disonorato tra gli dei" (ajpovtimon
ejn qeoi'" qeovn, v.215). Il dio è privo di onore poiché la guerra
del Peloponneso dopo la morte di Pericle veniva condotta dal becero e
sanguinario Cleone senza rispetto dell'etica eroica e senza riguardo per
l'umanità: Tucidide nel dialogo senza didascalie del V libro fa dire dagli
imperialisti Ateniesi ai Meli di non volgersi a quel senso dell' onore (aijscuvnhn, 111, 3) che procura grandi
rovine agli uomini.
La guerra dunque è cruenta, omicida
e senza onore.
Eppure in certi casi è difficile
evitarla. Dopo la liberazione, chi ha lottato per il comunismo, per la
giustizia, per l’uguaglianza tra gli uomini senza la quale non c’è vera
libertà, prova sensi di delusione, frustrazione, sente di avere subito un
tradimento da chi prometteva equità e moralità nei rapporti tra gli uomini.
Invece nell’Italia del dopoguerra il fascismo rialza la testa, sebbene
mascherato e camuffato: “Carabinieri e poliziotti sono rimasti quelli del
Fascio così come i funzionari della Questura” (Il rivoluzionario, p. 27). E’ Oscar che parla. il
protagonista di questo romanzo storico che, come quello del Manzoni, fornisce
il quadro di un’epoca e nello stesso tempo scava nella psicologia dei suoi
personaggi, rappresenta scene di massa, dà voce a dibattiti politici e di
partito. Il PCI è spesso sullo sfondo perdendo un poco per volta credibilità
nell’animo del rivoluzionario e dei suoi sodali. A Bologna già con Dozza si
fanno le prove generali del compromesso storico mentre il partito dà uno spazio
sempre maggiore ai mediocri, ai burocrati senza pathos, ai pedanti, e nello
stesso tempo lo riduce ai generosi appassionati di giustizia e libertà.
C’è il racconto dei morti di Reggio
Emilia, un massacro programmato dall’alto, perpetrato con ferocia dai cani da
guardia della borghesia, la “sesquiplebe” già vituperata da Vittorio
Alfieri.
Oscar vedeva i mali presenti e
prevedeva quelli futuri “perché lui stesso era convinto che il sistema del
profitto, oltre che iniquo e autoritario, fosse destinato a disintegrarsi in
una macelleria sociale com’era già capitato nel ‘29” (Il rivoluzionario, p.
124). E come sta ri-capitando ora.
Il rivoluzionario è, come Tiresia,
il profeta in grado di capire e “presoffrire tutto”.
Obiettivi polemici sono la
Democrazia Cristiana e i preti, ma la moglie di Oscar, Italina, “una brava
compagna”, sa distinguere tra loro e non li considera tutti dei nemici di
classe: “C’è anche chi non ha tradito Cristo e con quelli io ci vado d’accordo,
benché il partito sia contrario” (p. 155).
Questa donna equilibrata e triste
diviene la custode della casa, del figlio Dalmazio, mentre Oscar, deluso e
annoiato dai compromessi paludosi dei comunisti nostrani, va in Russia e in
Mozambico per dare stimoli e significato alla sua vita.
L’Italia infatti è sempre più
calpestata e schiacciata dallo stivale statunitense: “Chi tiene il guinzaglio
sono gli americani - soggiunse Oscar - democristiani, repubblicani, liberali e
fascisti sono solo marionette. Fanfani, Gronchi, Segni… Tutti al servizio di
Truman e dei capitalisti” (p. 163). La denuncia della nostra sovranità limitata
è esplicita.
Un asservimento dei nostri politici
che ha spinto Pasolini a incriminarli addirittura per le stragi :
“In conclusione il Psi e il Pci
dovrebbero per prima cosa (se vale questa ipotesi) giungere ad un processo
degli esponenti democristiani che hanno governato in questi trent’anni
(specialmente gli ultimi dieci) l’Italia. Parlo proprio di un processo penale,
dentro un tribunale. Andreotti, Fanfani, Rumor, e almeno una dozzina di altri
potenti democristiani (compreso forse per correttezza qualche presidente della
Repubblica) dovrebbero essere trascinati, come Nixon, sul banco degli imputati.
Anzi, no, non come Nixon, restiamo alle giuste proporzioni: come Papadopulos… Nel
banco degli imputati come Papadopulos. E quivi accusati di una quantità
sterminata di reati, che io enuncio solo moralmente… Indegnità, disprezzo per i
cittadini, manipolazione del denaro pubblico, intrallazzo con i petrolieri, con
gli industriali, con i banchieri, connivenza con la mafia, alto tradimento in
favore di una nazione straniera, collaborazione con la Cia, uso illecito di
enti come il Sid, responsabilità nelle stragi di Milano, Brescia e Bologna
(almeno in quanto colpevole incapacità di punirne gli esecutori) distruzione
paesaggistica e urbanistica dell’Italia, responsabilità della degradazione
antropologica degli italiani… Responsabilità della condizione, come suol dirsi,
paurosa, delle scuole, degli ospedali e di ogni opera pubblica primaria,
responsabilità dell’abbandono “selvaggio” delle campagne, responsabilità
dell’esplosione “selvaggia” della cultura di massa e dei mass-media,
responsabilità della stupidità delittuosa della televisione, responsabilità del
decadimento della Chiesa, e infine, oltre a tutto il resto, magari,
distribuzione borbonica di cariche pubbliche ad adulatori. Senza un simile
processo penale, è inutile sperare che ci sia qualcosa da fare per il nostro
paese. E’ chiaro infatti che la rispettabilità di alcuni democristiani (Moro,
Zaccagnini) o la moralità dei comunisti non servono a nulla”.
In una situazione del genere non è
possibile che un uomo onesto faccia finta di niente. La guerra allora può
diventare plausibile quale guerra di liberazione.
Euripide nelle Troiane (del 415) fa
dire a Poseidone: "mw'ro" de;
qnhtw'n o{sti" ejkporqei' povlei", -naou;" te tuvmbou"
q j, iJera; tw'n kekmhkovtwn,-ejrhmivvva/ dou;" aujto;" w[leq '
u{steron"(v. 95-97), è stolto tra i mortali chi distrugge le città,
gettando nella desolazione templi e tombe, sacri asili dei morti; tanto poi
egli stesso deve morire.
Nell'Elena (vv. 37-40), nell’Elettra
(vv. 1282-1283) e nell'Oreste (vv.
1640-1642) il tragediografo afferma che la guerra di Troia è stata combattuta
per un fantasma poiché a Ilio andò soltanto un’icona di Elena, mentre la
bellissima donna in carne e ossa venne trasportata a Ilio dagli dèi che vollero
alleggerire il mondo oberato dalla massa troppo numerosa dei mortali.
Eppure
nell’Ifigenia in Aulide scritta negli ultimi anni di vita del
tragediografo, quando Ciro il Giovane: "parei'ce
crhvmata Peloponnhsivoi" ej" to; nautikovn"( Tucidide,
II, 65, 12) forniva agli Spartani il denaro per la flotta, Euripide esorta
alla guerra. La ragazza, fatta venire in Aulide dal padre Agamennone come
vittima sacrificale perché l’armata potesse partire, in un primo tempo ha
paura, poi però, in un impeto di patriottismo, proclama la necessità della
guerra santa contro i barbari di Oriente, identificabili con i Persiani da
parte del pubblico ateniese, e si offre come prima combattente e prima vittima
in uno scontro, giusto e necessario, fra civiltà: “Offro il mio corpo per
l'Ellade. Sacrificatelo, espugnate Troia. Questo sacrificio infatti sarà il mio
monumento duraturo, questi i figli, le nozze e la gloria. E’ naturale che i
Greci comandino sui barbari, e non i barbari, madre, sui Greci: loro infatti
sono schiavi, noi liberi" (vv. 1397-1401).
Anche Oscar Montuschi e alcuni
altri ex partigiani sentono questa necessità di combattere contro l’oppressione
e l’asservimento.
Il rivoluzionario va prima a Mosca
a preparare il terreno, non senza farsi un’amante, Irina, poi in Mozambico, a
fare la guerra. Per queste missioni si allontana dal figlio Dalmazio e
dalla moglie Italina che mantiene sempre un atteggiamento dignitoso, anzi
nobile. “A Mosca di preti se ne vedevano pochi e la loro influenza sulla
politica era inesistente. Oscar lo scriveva a Italina ricordandole l’appoggio
incondizionato del clero alla repressione in atto e ogni volta lei replicava
che anche i russi erano molto religiosi e forse avevano capito che i comunisti
e i cristiani stavano tutti da una parte sola: quella degli ultimi” ( Il
rivoluzionario p. 179).
Il Vaticano dunque, secondo Oscar,
era un centro di potere, di intrighi, di faide. Il cattolicesimo romano viene
visto continuazione dell’impero romano, tutt’altra cosa dal messaggio di
Cristo. Anche pontefice Joseph Ratzinger se ne è accorto, se ne è
andato con la sua pena.
Il successore Bergoglio-Francesco
sta cercando di cambiare le cose.
Ma torniamo a Varesi. Il suo
bel libro non si perde nelle inezie prive di significato ma coglie le
quintessenze della storia e commenta con intelligenza e sensibillità i fatti
storici epocali degli anni che vanno dal 1945 al 1980.
Nel 1956 c’è l’invasione
dell’Ungheria da parte dei Russi: “Togliatti si schierò coi sovietici e più
tardi si seppe che votò per la condanna a morte di Nagy, mentre l’Unità
liquidava gli insorti come “teppisti”, “spregevoli provocatori” e persino
“fascisti”. A Bologna, i fatti avevano superato la capacità di analisi,
appannando la lucidità dei dirigenti di via Barberia che balbettavano
temporeggiando” (Il rivoluzionario,
p. 193).
Dopo tanti anni da quell’autunno in
cui ero bambino, Luciano Canfora, all’epoca bambino anche lui, ha trovato un
parallelo tra la repressione degli Ungheresi riottosi all’impero
sovietico e quella degli oligarchi di Samo che provarono a ribellarsi alla
democrazia ateniese che era di fatto una talassocrazia, un impero marittimo.
Samo si era ribellata nel 441
all’oppressione ateniese. In quell’occasione i democratici partigiani degli
Ateniesi “furono letteralmente massacrati, tranne beninteso quelli che
trovarono scampo fuggendo. Esattamente come i comunisti ungheresi nei giorni
della rivolta popolare tra il 23 ottobre ed il 3 novembre del 1956… Nella
guerra contro Samo, Atene si impegnò con una flotta comprendente anche forze
alleate (per dare l’impressione che tutta la “lega” puniva l’alleato ribelle) e
inviò alla testa di questa grande flotta, che penò non poco a sopraffare tutti
i ribelli, tutto il collegio degli strateghi, compreso il poeta Sofocle che in
quell’anno ricopriva tale carica. L’intervento contro l’Ungheria fu anch’esso
“corale”, per le stesse ragioni propagandistiche… Dopo la sconfitta del
440-439, a Samo tornò, imposto dagli Ateniesi, un governo “popolare”, che fece
piazza pulita della fazione che aveva alimentato la ribellione e condotto senza
esclusione di colpi la guerra. A partire da quel momento Samo fu il più fedele
alleato di Atene”.
Credo che l’impiccagione di Nagy
sia stato un errore politico oltre che un crimine, come lo è ogni condanna a
morte.
Fu saggio invece Kádar a proclamare, dopo
la restaurazione: “Chi non è contro di noi è con noi”.
In Italia poi ci fu il governo
Tambroni appoggiato dai fascisti del Movimento Sociale, quindi l’insurrezione
di Genova, altra città martire delle violenze poliziesche. Nel freddo di Mosca,
Oscar non rimpiange il sole italiano: “Qui tutto si misura con l’inverno, un
tribunale che ci processa da ottobre a maggio - sorrise Irina - nei mesi di
neve e di buio cosa puoi fare se non pensare alla tua vita e farti domande? Da
voi in Italia, invece, c’è luce e sole”
Una luce che però non illumina il
potere, né mentalmente né in altro modo: “Non sempre”, la contraddisse Oscar.
“C’è l’oscurità della nebbia e l’oscurità del potere. Non a caso i fascisti
sono neri” (p. 245).
L’oscurità, la non trasparenza
connaturata al potere viene denunciata anche da Guicciardini
che scrive :"spesso tra il palazzo e la piazza è una nebbia sì folta
o uno muro sì grosso che, non vi penetrando l'occhio degli uomini, tanto sa el
popolo di quello che fa chi governa o della ragione perché lo fa, quanto delle
cose che fanno in India".
Poi i funerali di Togliatti, le
dimissioni di Dozza, l’elezione di Fanti, l’allontanamento del cardinal Lercaro
che aveva condannato i bombardamenti americani sul Vietnam
“Ve’ mo’ - esclamò Scaramagli - altro
che le purghe di Stalin!” (v. 296). Lercaro del resto “venne insignito
dell’Archiginnasio d’oro e della cittadinanza onoraria. Era il primo cardinale
cacciato da Bologna dal papa e reintegrato da un sindaco comunista” (p. 296).
Comunque Montuschi, tornato
dalla Russia, a casa sua non si sente a proprio agio
“Dopo qualche settimana a Bologna,
Oscar sentiva il bisogno di evadere da una città in cui anche i comunisti si
portavano dietro l’odore di sacrestia” (p. 301).
Né a livello nazionale era diverso:
“A Bologna abbiamo Fanti, a Roma c’è Amendola e Napolitano, ma sono tutti uguali:
vogliono andare a cena coi preti” si lamentava (p. 305).
Quindi le stragi, a cominciare da
quella di piazza Fontana.
L’analisi è lucida: sono stati i
fascisti manovrati quali sicari
“E dietro ci sono gli americani coi
servizi, non dimenticartelo” gli dice Guerrino, il politico-imprenditore che
organizza i viaggi all’estero di Oscar. E continua: “Vogliono creare paura,
incertezza, disordine, così al momento giusto tirano fuori la soluzione
autoritaria che, a quel punto, in un paese di pecore come il nostro, verrà
subito applaudita” (310).
Infatti alla gente impaurita si può
fare credere tutto: “nil
falsum trepidis”, nulla è falso per chi è spaventato.
La paura dunque è funzionale al
potere. Joachim Fest riporta queste parole di Hitler: “La gente ha bisogno
della paura risanatrice. La gente vuole temere qualcosa, pretende che la si
intimidisca e che ci sia qualcuno cui assoggettarsi tremando. Non avete forse
constatato voi stessi, con i vostri occhi, che dopo lo scontro nei locali
pubblici, sono proprio quelli che le hanno buscate i primi a chiedere di
entrare nel partito? Cosa sono dunque queste chiacchiere sulla crudeltà, e
perché vi scaldate tanto per un atto di violenza? E’ proprio quello che la
massa vuole. La massa pretende qualcosa che le faccia orrore”.
Infatti: le torri gemelle hanno
potenziato la cricca di Bush.
E la paura del baratro ha dato il
potere a Monti, poi alla strana coppia Letta (il Giovane) e Alfano che
nel baratro ci stanno facendo cadere, poiché se tu guardi a lungo in un burrone,
alla fine il burrone entrerà in te.
Quindi il Mozambico, per combattere
l’oppressione dei Portoghesi del dittatore fascista Salazar. Laggiù la natura
sovrasta l’uomo e tutto appare carico di colori, di sapori, di luce di vita. La
quale manifesta tutta la sua potenza e la sua crudeltà, dionisiaca se
vogliamo..
Il Mozambico viene liberato,
Salazar cade, ma dall’Italia arrivano notizie inquietanti e anche il paese
africano continuava a essere dilaniato da rigurgiti di guerra, dalla povertà,
dalla fame. Oscar era convinto che il fondamento del comunismo fosse la
crescita cooperativa, ma Guerrino Casadei, il manager, il tecnico voleva
instaurare il mercato, suscitando la reazione di Oscar, una reazione profetica:
“Certe volte non ti capisco. Non so se parli da comunista o come uno di quei
saccenti della Bocconi istruiti per affamare il mondo” sibilò Oscar (Il rivoluzionario, p. 392).
Intanto in Italia procede il
compromesso storico, nascono le cosiddette Brigate Rosse, e “il terrorismo che
non porta da nessuna parte” (p. 398)
Né le cose andavano meglio in
Mozambico: “Oscar ebbe l’impressione che un potente riflusso stesse investendo
il paese” (406).
Le cooperative funzionavano male, o
non funzionavano proprio; qua e là scoppiavano focolai di guerra civile, carnevale
sinistro in cui cambia perfino il significato delle parole. Il mercato è la
quintessenza del male contro il quale Oscar si batte, ma questo Leviatano non
lascia scampo, nemmeno in Mozambico dove arrivano “i boiardi, gli uomini di
partito a capo delle aziende statali italiane con tutta una corte di cicisbei,
tra sottopancia, passacarte e amanti travestite da portavoce. Arrivarono anche
imprenditori contro i quali il partito e il sindacato avevano combattuto lotte
sanguinose al prezzo di bastonature e scontri in piazza. Oscar osservava quel
corteo osceno in preda a un’angoscia crescente. Mai come in quel momento si
sentiva spodestato, derubato della propria parte. Credeva di essere un
rivoluzionario, ma si accorgeva di aver lavorato per i padroni di sempre”
(p.415).
Oscar soffre la vittoria del
mercato e del capitale anche fisicamente. Gli viene un piccolo infarto. Il
medico russo gli consiglia il ritorno in Italia dove intanto “Moro e
Berlinguer sono decisi all’abbraccio” (p. 419) e le cooperative stavano
diventando “il cavallo di Troia del capitale” (p. 420)
Quindi Montuschi riparte,
sconfitto, tra i saluti ipocriti di chi rimane a introdurre in Mozambico i
metodi del capitalismo per il quale i conti vengono prima delle persone, “ma i
conti sono sempre disumani alla fine, com’è disumano il capitalismo… La
cooperazione sarebbe stato il miglior antidoto contro gli apparati totalitari:
tutti uguali, tutti lavoratori, tutti padroni. Ma voi avete scelto il mercato e
nel mercato ci sono sempre pochi padroni e molti servi” (p. 421), dice
Montuschi a Ravaglia, l’uomo del mercato che annulla l’uguaglianza poiché
attribuisce stipendi con differenze sesquipedali tra lavori diversi.
Quindi Montuschi torna a Bologna
dove trova Italina “coi capelli più grigi, con più rughe. Nel suo volto Oscar
misurò amaramente la propria età “ (p. 423). Dalmazio intanto, il loro figliolo
aveva lasciato la madre, secondo Irina per seguire l’esempio del padre. Il
ragazzo ricompare al Sant’Orsola dove il padre è ricoverato. Dalmazio si
era trasferito alle fonderie Reggiane “dove il comunismo sopravvive”, dice (p.
425).
In Italia procede il compromesso
storico e anche la cultura, anzi la sottocultura del liberismo che aizza gli
istinti più volgari: “la lotta bestiale per prevalere sull’altro, l’egoismo
sfrenato” (428). Intanto l’Unione sovietica sta collassando. Nel febbraio del
’77 Oscar, disgustato, strappa la tessera del partito e segue con simpatia la
protesta studentesca fatta di “canti, sberleffi, disegni, ironia” (p. 435). La
contestazione giovanile però era caotica e poco produttiva.
Nel mese di marzo la reazione
giunse all’omicidio di Francesco Lo Russo. Ci fu una reazione violenta dei
giovani, e Cossiga mandò i blindati a Bologna “La città era in stato d’assedio.
Elicotteri la sorvolavano, tremila poliziotti e carabinieri la presidiavano,
centotré studenti furono arrestati e la repressione durò fino all’estate”.
(440).
Sono avvenimenti che quelli della
mia generazione ricordano bene, sono eventi epocali della nostra vita e, mentre
ne leggiamo la storia ci tornano in mente tante vicende cui abbiamo
partecipato, se non altro con il sentimento. La rivoluzione ancora una volta
viene soffocata ma Oscar cedere nescius, come Achille , non molla: “mise in
piedi, con Italina e i soliti vecchi compagni delusi dal partito una
cooperativa in cui avrebbero lavorato persone dimesse dai manicomi e ragazzi
handicappati” (p. 441). Si trattava sempre di stare dalla parte degli ultimi:
“Lavoriamo per gli altri, i più deboli: questo è il comunismo” dichiarava
orgogliosamente Oscar” (p, 444). Nell’impresa umanitaria c’erano anche dei
preti, “i preti da marciapiede che ogni giorno, in silenzio, soccorrono gli
ultimi”. I precursori di don Ciotti e don Gallo.
Oscar rifiuta di rinnovare la
tessera. Al segretario della sezione del PCI che glielo chiedeva, ricorda
l’assassinio di Pasolini che aveva capito molte cose, e il burocrate ottuso
risponde: “Ma dai! Che tiri fuori? Un busone che sognava le lucciole!” (p.
445). Frase emblematica di ignoranza, chiusura mentale, ottuso spirito
gregario.
E siamo arrivati al 16 marzo del
1978, un giorno che quelli della mia età ricordano come fosse ieri.
“La sera prima, la radio aveva
annunciato per quel giorno la fiducia al quarto Governo Andreotti con
l’appoggio dei comunisti: il passo decisivo verso il compromesso storico” (p.
449)
Quindi, ossia di qui, il rapimento
di Moro che “dava fastidio a tutti”. Ricompariva il passato “con il suo ghigno
peggiore” (p. 450). Il compromesso storico con i comunisti al governo dava noia
a molti, soprattutto agli Americani, ma anche ai Russi e alle gerarchie
ecclesiastiche.
Dunque” expedit ut unus moriatur homo”.
Nel marzo del ’79 il PCI perse
voti.
Nel penultimo capitolo c’è un bel
dialogo con un reduce da un manicomio, Erminio, un uomo la cui pazzia
consisteva nell’assenza dei tanti pregiudizi che ci mettono in testa fin da
bambini e ci rendono infelici. Oscar pensò che i veri matti sono quelli fuori
dai manicomi mentre “i saggi erano quelli come Erminio e forse per questo erano
stati rinchiusi” (p. 459).
I vari componenti la comune
comunista di Oscar costituivano un mondo separato. “C’è tutto il mondo qui -
spiegava Italina - questi ragazzi ci mostrano la nostra nudità, gli istinti con
cui facciamo sempre i conti” (460). Razionalità e istinto dovrebbero cooperare,
l’irrazionale dovrebbe essere reso produttivo e benefico, da distruttivo quale
è tante volte, se si scatena e non si lascia guidare. Le Erinni devono
diventare Eumenidi.
La vittoria del capitalismo che ci
rende infantilmente insensati per indurci a comprare una serie di giocattoli
inutili è una “sconfitta prima di tutto culturale” (p. 461). Il paese dei
balocchi diventa il paese degli asini bastonati.
Nel 1980 il vecchio compagno
Aldrovandi finisce in ospedale con un tumore ai polmoni, il 27 giugno “cade” il
Dc9 Itavia nel mare di Ustica con ottantuno persone a bordo, tutte morte.
“Immediatamente si mise in moto la
consueta macchina della menzogna” (p.464). Il 2 agosto Aldrovandi muore e
scoppia la bomba alla stazione di Bologna. In novembre le Brigate Rosse
rapirono l’assessore campano della DC Ciro Cirillo per il quale fu aperta la
trattativa che nel caso di Moro fu esclusa. Perche? Varesi attraverso i suoi
personaggi non manca mai di indicare le cause dei fatti storici, le cause più
vere ma meno segnalate dai ruffiani, dagli ambigui prosseneti dell’informazione
ufficiale.
“Moro voleva sfuggire alla logica
dominante, Cirillo, invece, c’è dentro e forse potrebbe ricattarli”, commentò
Italina (p. 467)
Tutto crollava “Gli rimane solo che
crolli l’Unione sovietica e potranno essere padroni di tutto” (467)
Nell’ultimo capitolo, Oscar lamenta
la propria delusione, ma Italina attribuisce il non conseguimento degli scopi
alla brevità della vita: “Le idee non muoiono. Muoiono gli uomini, ma loro
continuano a vivere” (p. 467).
Questo libro aiuta le idee a
continuare a vivere
Il capitalismo ha avuto una
vittoria momentanea, una vittoria di Pirro: “il capitalismo è un sistema
stupido perché pensa che tutto sia infinito. Imprenditori, banchieri e
finanzieri sono altrettanto stupidi. L’avidità li porta a giocare sporco fino
all’autodistruzione…una volta diventati tiranni, il mondo si ribellerà. Sarà
allora che le nostre idee torneranno e lì ci sarà dentro anche un po’ della
vita tua e della mia” (p. 468)
Sono parole di Italina, profetiche
come quelle della Pizia di Delfi e della Sibilla Cumana.
Cristianesimo e socialismo non si
sono ancora realizzati ma non possono morire poiché rappresentano bisogni
fondamentali della maggioranza delle persone: quello dell’amore e quello
dell’uguaglianza,
Oscar semplifica la storia del
mondo “a una lotta tra servi e padroni” Ma è una lotta impari e “non potrà
cambiare niente finché migliaia di servi saranno contenti di servire” (p. 469)
Si può replicare che milioni di
sfruttati, il meglio dell’umanità, come li chiamava don Milani, non sono
contenti e vogliono l’uguaglianza.
“Noi abbiamo la coopetativa - lo
consolò Italina - lì non sono entrati i manager e non ci sono né servi né
padroni. A nostro modo continueremo a tener viva la fiammella e arriverà un
giorno che verrà buona per appiccare di nuovo l’incendio, quando il capitale
avrà seccato il mondo. Noi non ci saremo, ma avremo conservato il fuoco”…
Quella sera andarono a letto
sereni” (p. 469)
Sono le ultime parole di questo
libro che consiglio di leggere per ricordare, per imparare, per riflettere, per
sentire.
Giovanni ghiselli g.ghiselli@tin.it
---------------------------------------------------
1 Cfr. Carducci, Sogno
d’estate, 1.
2 Del 467 a. C.
3 Propendo per una datazione bassa, posteriore
al 415 a. C.
4 460 ca 400 a.C.
5 Cfr. T. S: Eliot, And I Tiresias
have presuffered all (The Waste Land, , v. 243)..
6 P. P. Pasolini, Lettere luterane, p.
170 e sgg.
7 L. Canfora, Esportare la libertà, p. 40
e p. 44.
8 Ricordi, 141.
9 Stazio, Tebaide, VII, 131.
10 Hitler, Una biografia, p. 214.
11Lettera A Una Professoressa
della Scuola Di Barbiana:"In Africa, in Asia, nell'America latina, nel
mezzogiorno, in montagna, nei campi, perfino nelle grandi città, milioni di
ragazzi aspettano d'essere fatti eguali. Timidi come me, cretini come Sandro,
svogliati come Gianni. Il meglio dell'umanità"(p. 80).
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