Il clima morale
agli inizi degli anni Ottanta. Il banchiere impiccato. Il sudato lavoro per Ifigenia.
Nei primi giorni
di giugno studiavo e pensavo a Ifigenia. Aveva recitato con forza e fierezza,
almeno così mi sembrava, era apparsa splendidissima in quel costume da bagno;
dopo la recita si era anche rappattumata con me, però non mi amava.
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"Perché dò
tanta importanza all'amore pur così malato?" Mi domandavo, e non trovavo
risposta. Oggi, passati non pochi anni ricchi di casi e cadute, rispondo:
perché già all'inizio degli anni Ottanta non esisteva una vita politica e
sociale. Il capitalismo strozzino l'aveva annientata. L'anima buona, lieta,
religiosa della gente comune veniva annichilita dall'egoismo ottuso e
criminale degli affaristi.
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Le stragi, la
pubblicità, la miseria mentale e morale diffusa nella nazione stavano
distruggendo i sani e santi valori classici della lealtà, dell'amicizia,
della fratellanza tra gli uomini, dell'amore pulito che, intendiamoci bene,
non esclude il rapporto sessuale, bensì l'uso dell'amante quale strumento. La
solidarietà con una creatura dell'altro sesso, cercata come nicchia di sopravvivenza,
veniva resa impraticabile dal clima di strumentalizzazione e inquinamento generale.
Qualche anno più tardi sarebbe scoppiata la cosiddetta peste del secolo, l'AIDS, un flagello
spaventevole, forse reale, certamente enfatizzato per avvelenare anche
l'estremo rifugio.
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In quei giorni un
banchiere fu trovato impiccato. Era un segno. Il capitalismo sfrenato, dopo
avere strangolato i sentimenti e i pensieri degli uomini, avrebbe strozzato
se stesso con le proprie mani. La forza del genere umano ha sempre reagito terribilmente a chi ha tentato di
negare la sua parentela con Dio.
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Del resto studiavo
per fare lezione a Ifigenia. Lavoravo sui poeti dell'Ellenismo onde aiutarla
a raccogliere idee utili per l’esame di
maturità di suo fratello. Il ragazzo portava greco come prima materia.
Leggevo i testi degli autori 'esame: i
soliti Callimaco, Apollonio Rodio, Teocrito. Schedavo la critica relativa,
componevo delle piccole tesi, e le imparavo per recitarle a lei che prendeva
appunti. Faticavo molto, poiché c'era un caldo appiccicoso, soffrivo il
raffreddore da fieno, e poco diletto traevo da quella poesia di seconda mano. Oltretutto l’allieva delegata non dava alcun segno
di gratitudine. Arrivava stanca e svogliata, se ne andava stremata, nauseata,
come se ogni cosa le fosse dovuta, e molto di più; anzi come se fosse lei a
farmi un piacere ascoltandomi.
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A mia volta
provavo disgusto davanti a tale atteggiamento parassitario, tipico dei
giovani più sdilinquiti e servili di quella generazione condizionata per
stimulos a divenire opportunista e arrogante; eppure continuavo a
sgobbare, poiché pensavo di doverlo a chi mi aveva aiutato salvandomi dallo sconforto quando, tre anni
scolastici prima, la canaglia del liceo, con latrati e morsi, aveva palesato
ostilità nei confronti di un lavoro apprezzato dall'utenza, siccome fatto con
strenuo impegno, con sacrifici enormi e, magari, con qualche capacità. Se con
la splendidissima giovane donna non avessi avuto ben più di quanto l’invidia
dei colleghi più cani mi aveva tolto, avrei dubitato perfino della giustizia divina.
Ebbene, nel giugno del 1981 mi sentivo in dovere di
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contraccambiare
la ragazza aiutandola a uscire dall'ambiente meschino dove forse la cricca
del preside Tanghero avrebbe voluto tenerla ancora nell’infimo precariato per
dare un esempio di delinquenza amorosa punita.
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D'altra parte l'allieva,
mentre non manifestava alcuna riconoscenza per le mie fatiche sudate assai,
con i 33 gradi diurni , i 28 notturni, e un'umidità che incollava tutto
addosso, ogni tanto mi dava qualche soddisfazione dicendo di apprezzarmi come
traduttore dell'Antigone, e
pure come scrittore in proprio: al punto che un giorno mi chiese se le
preparavo un monologo per la prossima prova di recitazione. E, dopo tutto,
talora riuscivo a ricavare qualche cosa per me pure dai poeti ellenistici,
poveri di contenuti e di sentimenti.
Bravi però a padroneggiare la lingua. Insomma da loro compresi la necessità
della cura formale, e quella di utilizzare il meglio della tradizione,
soprattutto nel raccontare una vicenda d'amore che poteva essere
rappresentativa di un'epoca sì, ma rischiava comunque di restare una
storiella rosa se non trovava un'espressione nobile, ricca dei succhi della
cultura europea.
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giovanni ghiselli
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ciao...Gio
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