Nel giardino
semibuio c'erano altre rappresentazioni poco seguite. Tra fiochi fasci di
luce andavano e venivano alcune persone. Mi tornò in mente l'affaccendarsi di
quelli che bazzicavano il festival del Cinema Nuovo di Pesaro negli anni
Sessanta. Chi voleva farsi credere
addetto ai lavori, accreditato, inserito, si aggirava fra il Teatro
sperimentale dove proiettavano i film, il bar Capobianchi e la sala stampa,
sempre tenendo sottobraccio fasci di giornali e riviste specializzate.
Costoro si mostravano attivi; ogni tanto si avvicinavano a qualche
personaggio e lo salutavano chiamandolo per nome. Il famoso non rispondeva, o
rispondeva appena. Ma gli indaffarati oziosi, se ricevevano anche solo un
cenno del nume, esultavano, poiché avevano fatto la parte di quelli che
conoscono chi conta, e contano a loro volta qualcosa. Negli anni Ottanta
questo culto dell'apparenza e dell'intrallazzo stava crescendo in maniera
ipertrofica. I più si recavano in tali ambienti non per imparare, ma per
curiosare, cercare incontri utili o piacevoli. Ci andavano e ci si fermavano apposta.
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Ifigenia, se
voleva, poteva riuscire piacevole a uno che le sarebbe stato utile, se avesse
ritenuto quel piacere degno di iterazione e meritevole di contraccambio. A me
quel mondo appariva senza cuore e senza spirito. Perciò pensavo che la mia donna,
giovane e bella com'era, se fosse stata anche disposta a compiacere chi
veramente contava, e lo avesse fatto con intelligenza machiavellica, ossia
senza morale, ma con la comprensione reale di quanto le conveniva, si sarebbe
trovata in vantaggio rispetto alle persone meno dotate di lei, eppure ugualmente
bramose di inserirsi in quel giro spietato. Già presoffrivo la fine della
nostra storia. Del resto sapevo che i dolori possono essere occasioni per la
virtù, e non recalcitravo al destino.
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Poco prima di
mezzanotte, Ifigenia si ricordò di me: venne a cercarmi, e, come mi vide, si
accorse che non ero a mio agio. Avvicinatasi, disse: "Non avere paura.
Io ti amo tanto, ma ora devo stare con i miei compagni della scuola di
recitazione. Lo capisci, vero?"
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"Certo. Anzi
adesso torno a Bologna, perché domani devo alzarmi alle sette".
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"Non ce l'hai
con me, vero Gianni?" Chiese ancora. Poi ripetè: "Non avere paura:
io ti amo, ti amo tanto, e voglio stare con te".
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“No, non ce l'ho
con te creatura - risposi. “Sono solo stanco: è da questa
mattina presto che sto in piedi. Voglio tornare a casa, andare a dormire. Poi
qui in effetti non ho niente da fare. Tu sì.
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Restaci e non
temere: io mi fido di te, ti amo e ti voglio bene”.
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Non volevo darle
pretesti per odiarmi. Tuttavia osai rivolgerle una domanda rischiosa, per chi
la pone, in circostanze del genere a una donna del genere.
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"Domani che
cosa farai?"
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"La mattina
andrò in spiaggia per abbronzarmi, nel pomeriggio tornerò qui per vedere se
ci sono lavori interessanti, per ascoltare qualche esperto che fa lezione. A
proposito, mi hanno detto che
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domani dovrebbe
venire a parlare l'attore famoso".
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Questa notizia
inopinata, tuttavia non mi sgomentò né mi diede fastidio; anzi pensai che il
celebre istrione avrebbe portato se non altro una nota di mondana vivacità
tra quei giovani arrivisti e provinciali.
E Ifigenia avrebbe avuto qualche cosa da raccontarmi. Ma forse in cuor mio
desideravo che sarebbe accaduto quanto doveva accadere. Sentivo che la
catastrofe era destino e sapevo che recalcitrare al destino è un errore. La
fine tra noi era inevitabile e imminente, ma avvenendo in maniera tragica, non
con un piagnisteo, ma con uno scoppio[1],
e per mezzo di quell' uomo fatale, preannunciato due anni e mezzo prima, sia
da uccelli profetici sia da altri presagi, sarebbe stata anche drammatica o
romanzesca, comunque adatta a provocare, per reazione, la nascita dell'opera
letteraria che pensavo di dovere a me stesso e all'umanità.
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D'altra parte
Ifigenia aveva appena affermato che voleva stare con me. E quando aveva
voluto piantarmi, il 15 marzo, lo aveva detto direttamente e tosto fatto,
lasciandomi solo nello studio che
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biancheggiava di
luna primaverile.
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La notte dell'11
giugno invece disse: "Ti telefono domani alle due. Ci mettiamo d'accordo
sull'ora. Tu verrai qua, prenderemo una camera, faremo l'amore tante volte,
dormiremo un poco, e dopo domani
andremo a Pesaro. Domenica sera torneremo a Bologna, e lunedì mi farai
lezione su Demostene. Va bene?"
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"Sì creatura,
faremo l'amore, andremo al mare di Pesaro, poi ti farò lezione su Demostene e
i tre generi dell'oratoria", risposi.
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" Davvero ti
va il mio programma?" ripeté con un ammiccamento che voleva simulare la
voglia erotica e dissimulare la preoccupazione
reale: quella che suo fratello non
superasse l'esame di maturità classica cui era stato ammesso con
grande stento in una scuola privata.
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"Sì,
certo" ribadii, ma poi, non volendo nascondere tutta la diffidenza
insorta davanti al desiderio troppo ostentato di stare con me, aggiunsi: "A
me va benissimo; tu piuttosto non fare complimenti: domani, se vedi o prevedi
di avere qualche impegno che non mi riguarda, dimmelo chiaramente al
telefono. Capirò: io quando ho del lavoro da fare, non ammetto distrazioni.
Non mi sentirò offeso se dirai di non avere tempo per me. Invece mi spiacerebbe
venire qua per niente. Tanto più che domani pomeriggio dovrò preparare lo
scrutinio".
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"Va bene -
fece -, restiamo d'accordo così". Poi aggiunse: "Ti dispiace se non
ti accompagno alla macchina? I miei amici mi aspettano".
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La bianca
Volkwagen era parcheggiata sul lungomare davanti al Grand Hotel, a cento
metri dal luogo dove stavamo parlando. Questo egoismo ingrato, volgare, mi
disturbò, e glielo dissi: "Se
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hai fretta vai
pure, ma non mi sembra cosa ben fatta, né di buon gusto, visto che ti ho
portata qui da Bologna, non accompagnarmi all'auto parcheggiata a due passi.
Mi dispiace rinfacciartelo, ma tu mi costringi".
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"Hai ragione,
scusa" rispose, contrariata a sua volta, e mi seguì fino all'automobile,
di malavoglia. Non vedeva l'ora che mi togliessi dai piedi. A quel punto
anche io volevo restare solo per non vedere più la faccia, divenuta odiosa,
della spudorata egoista con la quale avevo vissuto l'amore più grande della
mia vita.
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Mentre mi seguiva
con riluttanza, Ifigenia aveva il volto teso, cupo, e nello stesso tempo
acceso da un'ira che mandava bagliori sinistri; come se le si riverberasse in
faccia il fosco bagliore di un fuoco infernale, violento, distruttivo e inarrestabile.
L'aveva contrariata assai essere stata scoperta e sgridata subito dopo la commedia
di benevolenza recitata da cane. Insomma era un pessimo segno per la sua
capacità e carriera di attrice. Ci salutammo senza dire altro.
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giovanni ghiselli
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P. S
Venerdì 28 marzo, alle 18, 30 terrò una conferenza sui Significati
della tragedia greca nella biblioteca Scandellara di Bologna
la fine di un grande amore è sempre struggente e non può avvenire sottovoce , mi piace molto come percorri lo sviluppo psicologico della storia....se non diventavi il migliore dei grecisti potevi essere un grande psicanalista...ti ammiro molto..Gio..
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