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sabato 22 marzo 2014

La scuola corrotta nel paese guasto Sedicesimo capitolo



Grand Hotel di Riccione
copyright Andrea Speziali
Il Grand Hotel di Riccione. La mia commedia sulla scuola corrotta non viene selezionata dalla giuria del 35° premio nazionale Riccione/Ater per il teatro. Il disagio di entrambi. 

Giovedì 11 giugno accompagnai Ifigenia a Riccione, al Grand Hotel. C'era un convegno sul teatro: in quell'albergo monumentale si stavano riunendo  attori, registi, giornalisti, e una commissione giudicatrice che la sera seguente doveva assegnare il trentacinquesimo premio nazionale Riccione/Ater per il teatro.
Partecipavo al concorso cui avevo inviato, secondo la prescrizione del bando, dieci copie dattiloscritte del mio pezzo teatrale. Poco prima di partire, attraverso una telefonata, seppi di non essere stato selezionato tra i quattro migliori. Ci rimasi male, ma non persi la convinzione che il mio lavoro, sebbene breve, scritto in fretta, e piuttosto didascalico, fosse bello. Si vede che i drammi scelti erano ancora più belli. Oppure la commissione non ha giudicato con il criterio del bello, ed era corrotta come la scuola descritta nella mia gedia, come quasi tutto in quei tempi bui. Comunque ho trascritto il testo in capo a questo romanzo, e sarai tu a giudicare se vale qualcosa, lettore.
Ifigenia fu comprensiva e gentile quando, prima di passare da lei per portarla a Riccione, le telefonai per dirle che non ero entrato nella rosa dei selezionati.
"Non dubitare di te - mi incoraggiò – il tuo lavoro è servito a farci capire che sai scrivere bene, con forza. Ora però devi impiegarla in un'opera più grande, più degna di noi. Non perdere fiducia in te stesso".
"No, no – promisi - anzi, sono sempre determinato a scrivere: voglio rifarmi di questo insuccesso".
"Un insuccesso apparente, vedrai!"
“Sì certo. Ora vengo a prenderti".

Erano le cinque e mezzo di un pomeriggio afoso, umido e ventoso. Il cielo era trascorso da una nuvolaglia bianchiccia, inquieta, eppure monotona, come una persona nervosa e cretina. Il sole  veniva e andava via nascondendo il suo santo volto di luce.
Partimmo da Bologna  intorno alle sei. Alle otto e mezzo alcuni allievi attori già convenuti là, avrebbero recitato un dramma di Pirandello in una sala del vecchio albergo. Ifigenia non partecipava ma voleva vederli. Poi sarebbe rimasta tra loro, mentre io sarei tornato a casa di notte poiché la mattina seguente avevo lezione.
Arrivammo verso le sette. La cittadina non era ancora gremita di gente in vacanza. Andammo a fare due passi sulla riva del mare. Mi vennero in mente frasi del libro che stavo leggendo: "Non eravamo in un angolo dell'arcipelago greco, non c'erano c'erano glauche onde carezzevoli, isole e rocce, né una spiaggia fiorita con un magico panorama in lontananza e l'invito del sole morente"[1]. L'acqua incalzata dal vento era agitata e torbida, come una donna isterica, stupida, dalle intenzioni non chiare.
Poi ci sedemmo a un tavolino del corso. Ordinammo due coni. Ifigenia parlava poco e di malavoglia. Niente di interessante e di vivo diceva. Io non sapevo che cosa dire. Per lo più tacevamo. Leccavamo il gelato grosso, non buono, e guardavamo il passeggio nella celebre via  percorsa dal turistame. Sorbivamo la poltiglia fredda e dolciastra adagio, per fare passare il tempo. Mi sentivo un anziano in pensione. Nell'aria salata e appiccicosa c'era una stanchezza mortale, un'afa di putrefazione. Non avevamo più idee, sentimenti né interessi comuni. Ifigenia voleva inserirsi nell'ambiente dei convenuti a "Le Grand Hotel", e io le pesavo; lo capivo, mi sentivo a disagio e, nell'imminenza della catastrofe pur necessaria, avevo paura. Come succede prima di un'operazione chirurgica, anche se sai, o speri, che ti ridarà la salute. Di questo però non si poteva parlare, poiché lei dissimulava. Se le avessi fatto notare qualcosa del nostro disagio, avrebbe detto: "Gianni, io ti amo tanto, tanto. Hai capito?"
Come fece qualche ora più tardi, mentre il suo comportamento manifestava tutt'altro che amore. Eravamo sempre seduti sulla strada famosa percorsa da turisti precoci eppure già decomposti. Si chiama con un nome che finisce in “ini”, ma non voglio ricordarlo poiché mi disturbano gli
imbecilli che, per farsi considerare uomini di mondo, di vita allegra e ricca, sfoggiano la conoscenza toponomastica di tali località sacre per loro, Gerusalemme o Mecche delle vacanze, posti squallidi generalmente, frequentati da pezzenti mentali, secondo me. Beninteso io scrivo male di Riccione anche perché vi ho subito una delle più grosse frustrazioni della mia vita.

Restammo fissi là fino alle otto e qualche minuto. Poi finalmente arrivò l'ora di muoversi per vedere la recita. Del resto fu una cosa noiosa. Finita questa, Ifigenia andò a congratularsi con i compagni e rimase a parlare con loro. Li osservavo da qualche metro e ne ascoltavo i discorsi, naturalmente giovanili, sebbene alcuni si dessero toni da persone già vissute e un poco bruciate. La mia compagna era agitata: faceva battute nel gergo degli zingari dionisiaci, chiedeva quale fosse il programma dei giorni seguenti, voleva sapere chi sarebbe arrivato tra i famosi in odore di frequentare l'ambiente del premio.
Mi sentivo sempre più a disagio, e di impiccio per lei. Rimasi lì dieci minuti, poi mi scostai senza dire niente, né salutare, in quanto nessuno badava a me, come giusto. Però, altrettanto giustamente, ero pentito di essere andato a Riccione. Volevo tornare a Bologna quanto prima. A casa mia, ai miei libri, ai bambini di quarta ginnasio. Era tutto più autentico. Uscii. Camminai per dieci minuti nel buio del vasto giardino. L'albergo visto da fuori e da sotto sembrava più malandato che mai: incrinato quasi, e prossimo a crollare lì sulla ghiaia grigia dei viali. Sul pensiero confortante che era l'inizio dell'estate, prevaleva il presentimento terrificante che finiva un'era per me, quella di Ifigenia la bella; che dovevo cambiare vita ancora una volta, come dopo la Sarjantola, dopo Kaisa,  Päivi e le altre, e dovevo restare solo per chissà quanto tempo. Dovevo affrontare un'altra morte per arrivare a una nuova nascita. E la morte, anche se vi si giunge soltanto quando si è esauriti e stremati, è sempre un fatto inquietante, giacché nell'ora estrema non possiamo sapere cosa saremo dopo la nuova genesi.

giovanni ghiselli
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[1] Cfr I Demoni di Dostoevskij, trad. it. Garzanti, Milano, 1973, p.453.

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