Ifigenia fu
comprensiva e gentile quando, prima di passare da lei per portarla a
Riccione, le telefonai per dirle che non ero entrato nella rosa dei
selezionati.
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"Non
dubitare di te - mi incoraggiò – il tuo lavoro è servito a farci capire che
sai scrivere bene, con forza. Ora però devi impiegarla in un'opera più
grande, più degna di noi. Non perdere fiducia in te stesso".
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"No, no – promisi
- anzi, sono sempre determinato a scrivere: voglio rifarmi di questo
insuccesso".
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"Un
insuccesso apparente, vedrai!"
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“Sì certo. Ora
vengo a prenderti".
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Erano le cinque e
mezzo di un pomeriggio afoso, umido e ventoso. Il cielo era trascorso da una
nuvolaglia bianchiccia, inquieta, eppure monotona, come una persona nervosa e
cretina. Il sole veniva e andava via
nascondendo il suo santo volto di luce.
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Partimmo da
Bologna intorno alle sei. Alle otto e
mezzo alcuni allievi attori già convenuti là, avrebbero recitato un dramma di
Pirandello in una sala del vecchio albergo. Ifigenia non partecipava ma
voleva vederli. Poi sarebbe rimasta tra loro, mentre io sarei tornato a casa
di notte poiché la mattina seguente avevo lezione.
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Arrivammo verso
le sette. La cittadina non era ancora gremita di gente in vacanza. Andammo a
fare due passi sulla riva del mare. Mi vennero in mente frasi del libro che
stavo leggendo: "Non eravamo in un angolo dell'arcipelago greco, non
c'erano c'erano glauche onde carezzevoli, isole e rocce, né una spiaggia fiorita
con un magico panorama in lontananza e l'invito del sole morente"[1].
L'acqua incalzata dal vento era agitata e torbida, come una donna isterica,
stupida, dalle intenzioni non chiare.
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Poi ci sedemmo a
un tavolino del corso. Ordinammo due coni. Ifigenia parlava poco e di
malavoglia. Niente di interessante e di vivo diceva. Io non sapevo che cosa
dire. Per lo più tacevamo. Leccavamo il gelato grosso, non buono, e
guardavamo il passeggio nella celebre via
percorsa dal turistame. Sorbivamo la poltiglia fredda e dolciastra
adagio, per fare passare il tempo. Mi sentivo un anziano in pensione.
Nell'aria salata e appiccicosa c'era una stanchezza mortale, un'afa di
putrefazione. Non avevamo più idee, sentimenti né interessi comuni. Ifigenia
voleva inserirsi nell'ambiente dei convenuti a "Le Grand Hotel", e
io le pesavo; lo capivo, mi sentivo a disagio e, nell'imminenza della
catastrofe pur necessaria, avevo paura. Come succede prima di un'operazione
chirurgica, anche se sai, o speri, che ti ridarà la salute. Di questo però
non si poteva parlare, poiché lei dissimulava. Se le avessi fatto notare
qualcosa del nostro disagio, avrebbe detto: "Gianni, io ti amo tanto,
tanto. Hai capito?"
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Come fece qualche
ora più tardi, mentre il suo comportamento manifestava tutt'altro che amore. Eravamo
sempre seduti sulla strada famosa percorsa da turisti precoci eppure già
decomposti. Si chiama con un nome che finisce in “ini”, ma non voglio
ricordarlo poiché mi disturbano gli
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imbecilli che,
per farsi considerare uomini di mondo, di vita allegra e ricca, sfoggiano la
conoscenza toponomastica di tali località sacre per loro, Gerusalemme o
Mecche delle vacanze, posti squallidi generalmente, frequentati da pezzenti
mentali, secondo me. Beninteso io scrivo male di Riccione anche perché vi ho
subito una delle più grosse frustrazioni della mia vita.
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Restammo fissi là
fino alle otto e qualche minuto. Poi finalmente arrivò l'ora di muoversi per
vedere la recita. Del resto fu una cosa noiosa. Finita questa, Ifigenia andò
a congratularsi con i compagni e rimase a parlare con loro. Li osservavo da
qualche metro e ne ascoltavo i discorsi, naturalmente giovanili, sebbene alcuni
si dessero toni da persone già vissute e un poco bruciate. La mia compagna
era agitata: faceva battute nel gergo degli zingari dionisiaci, chiedeva
quale fosse il programma dei giorni seguenti, voleva sapere chi sarebbe
arrivato tra i famosi in odore di frequentare l'ambiente del premio.
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Mi sentivo sempre
più a disagio, e di impiccio per lei. Rimasi lì dieci minuti, poi mi scostai
senza dire niente, né salutare, in quanto nessuno badava a me, come giusto.
Però, altrettanto giustamente, ero pentito di essere andato a Riccione.
Volevo tornare a Bologna quanto prima. A casa mia, ai miei libri, ai bambini
di quarta ginnasio. Era tutto più autentico. Uscii. Camminai per dieci minuti
nel buio del vasto giardino. L'albergo visto da fuori e da sotto sembrava più
malandato che mai: incrinato quasi, e prossimo a crollare lì sulla ghiaia
grigia dei viali. Sul pensiero confortante che era l'inizio dell'estate,
prevaleva il presentimento terrificante che finiva un'era per me, quella di Ifigenia
la bella; che dovevo cambiare vita ancora una volta, come dopo la Sarjantola,
dopo Kaisa, Päivi e le altre, e dovevo
restare solo per chissà quanto tempo. Dovevo affrontare un'altra morte per
arrivare a una nuova nascita. E la morte, anche se vi si giunge soltanto
quando si è esauriti e stremati, è sempre un fatto inquietante, giacché
nell'ora estrema non possiamo sapere cosa saremo dopo la nuova genesi.
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giovanni ghiselli
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A me il tuo dramma piace....un bacio Gio
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