Ottava parte del commento al libro
di Remo Bodei
Immaginare
altre vite
Realtà, progetti, desideri, Feltrinelli,
Milano 2013
Procedo con il VII capitolo del libro di Remo Bodei La vita
più desiderabile, presentandone il paragrafo Gli splendidissimi astri (pp. 130-132)
L’autore prende in esame “il modello offerto dalla
filosofia”.
Nell’età classica i maestri di etica insegnavano
l’emancipazione dal potere, dalla brama dei beni materiali, dal piacere, dal
conformismo. Socrate, alla fine della sua Apologia
(scritta da Platone), lascia questo
testamento spirituale alla polis: “ i miei figli, una volta cresciuti,
puniteli, cittadini, causando loro gli stessi dispiaceri che io ho causato a
voi, se vi parrà che si prendano cura delle ricchezze oppure di altro prima
della virtù” (41E).
Bodei fa l’esempio appropriato di Diogene il Cinico
che suggeriva il ritorno alla natura e l’autarchia, cioè il bastare a se stesso
dell’uomo.
“fatto prigioniero e venduto come schiavo, alla
domanda cosa sapesse fare, rispose provocatoriamente ‘Comandare gli uomini’ e,
rivolgendosi all’araldo, gli ‘ingiunse di bandire se ci fosse qualcuno che
volesse comprare un padrone’[1].”[2]
Diogene arrivò a dare ordini ad Alessandro Magno che
era andato a fargli visita con il suo seguito, per omaggiarlo, quando si
trovavano entrambi a Corinto.
Ebbene, Plutarco racconta che il filosofo se ne
stava in ozio, sdraiato al sole nel Craneo, un sobborgo orientale della città
dai due mari, e, “al
sopraggiungere di tanta gente, si sollevò un poco e guardò fisso verso
Alessandro. Come quello, dopo averlo salutato affabilmente e avere cominciato a
parlargli, gli chiese se per caso avesse bisogno di qualcosa, 'scostati un poco
dal sole' (mikro;n
- ei\pen - ajpo; tou` hJlivou metavsthqi), disse
Diogene. Davanti a questo si dice che Alessandro, sebbene trattato con
sufficienza, avesse ammirato, la fierezza e la grandezza dell'uomo, al punto
che, mentre quelli del suo seguito, come si allontanavano, lo deridevano e
canzonavano, "io invece - disse - se non fossi Alessandro, sarei
Diogene"[3]
“Nell’era antica la “vita più desiderabile”
consisteva, tra gli epicurei e i cinici, nel prendere le distanze dal mondo,
dalla politica o dagli affari o
(all’interno della filosofia greca, specie nel platonismo e nell’aristotelismo,
a differenza di quella romana di Cicerone) nel riconoscere la superiorità della
vita contemplativa su quella attiva”[4].
Bodei quindi cita Platone e Plotino.
Nel Teeteto,
Socrate dice che il vero filosofo è una
persona la cui anima disprezza le cose terrene, e, con citazione pindarica,
trasvola da ogni parte (pantach`/ pevtetai) e ora scende nel profondo della terra, ora ne
misura la superficie, e ora sale nel cielo ajstronomou`sa, a misurare le stelle (173E-174A)
“In Plotino questo distacco diventa una dichiarata
evasione dal mondo”[5].
Il filosofo neoplatonico fa l’esempio di Odisseo il
quale, sfuggendo alle lusinghe di Circe e Calipso, ha fatto comprendere che non
voleva rimanere in mezzo ai piaceri (e[cwn hJdonav~, ) e alle bellezze sensibili. La nostra patria
infatti è quella dalla quale veniamo e il nostro padre è là (kai; path;r ejkei`).
E’ dunque necessario compiere un viaggio
non con i piedi (ouj posi;) né con cocchi e navigli, ma bisogna staccarsi da queste cose
e mutare la vista corporea con un’altra e risvegliare la facoltà che molti
possiedono, ma pochi adoprano (Enneadi,
I, 6, 8, 21).
“Nelle maggiori scuole (pitagorica,
platonica, stoica) la vita più desiderabile veniva raggiunta attraverso
l’imitazione dell’ordine, della regolarità e dell’armonia dell’universo, un
paradigma da applicarsi tanto alla politica quanto all’etica”[6]
Questa imitazione, tornando al Teeteto,
è in definitiva quella che Socrate
chiama oJmoivwsi~
qew`/
, un farsi simile a dio. Questa oJmoivwsi~ è una
fuga (fughv) dal mondo il
cui effetto è divenire giusto e pio con
sapienza (176B).
“In gran parte della filosofia antica, al
di sopra dell’oikos-che garantisce la
sopravvivenza, la vita fisica, la zoé-e
al di sopra della polis, che
garantisce il bios, la vita politica
individuata, stanno, come dice Aristotele, gli “splendidissimi astri”. La loro
conoscenza è considerata una tappa fondamentale nello sviluppo delle civiltà
umane”[7].
Bodei prosegue citando alcuni versi (54,
66-78) degli Astronomica di Manilio,
un poema di astronomia, e astrologia, scritto al tempo di Augusto e di Tiberio.
Gli studi dei sacerdoti egizi e
mesopotamici hanno aperto la strada dei cieli e hanno civilizzato, reso
razionale la vita degli uomini svelando i tesori nascosti nelle viscere della
terra e aprendo anche le vie del mare che a sua volta teneva nascosti e
sconosciuti dei mondi.
Prima di queste scoperte “ necdum etiam doctas sollertia fecerat
artes/terraque sub rudibus cessabat vasta colonis;/tumque in desertis habitabat
montibus aurum,/nec vitam pelago nec
ventis credere vota/audebant, se quisque satis novisse putabant” ( Astronomica, vv. 77-78), non ancora
l’applicazione ingegnosa aveva creato le tecniche abili, e una terra desolata
rimaneva inerte sotto coloni inesperti, allora l’oro[8]
dimorava dentro monti deserti, né
osavano affidare la vita al mare né ai venti gli auspici, credevano, ognuno per
sé, di saperne abbastanza.
Per quanto riguarda la navigazione, voglio contrapporre a
questo ottimismo il pessimismo della
tragedia Medea di Seneca.
Il secondo coro (vv. 301-379) del
dramma maledice la navigazione
come attività troppo audace per l'uomo:" Audax nimium, qui freta primus/rate tam fragili perfida rupit/terrasque
suas post terga videns/animam levibus credidit auris/ dubioque secans aequora
cursu,/potuit tenui fidere ligno,/inter vitae mortisque vias/nimium gracili
limite ducto" (vv.
301-308), audace troppo chi per primo ruppe con la barca tanto fragile i
perfidi flutti, e, vedendo alle spalle la sua terra, affidò la vita ai venti
incostanti, e fendendo gli spazi marini con rotta infida, fu capace di
affidarsi a un legno debole guidato sul confine troppo sottile tra le vie della
vita e della morte.
Poco più avanti il Coro
situa l'età edenica nel passato antecedente l'impresa di Argo, la prima nave: "Candida nostri
saecula patres/videre, procul fraude remota./Sua quisque piger litora
tangens,/patrioque senex factus in arvo[9],/parvo
dives[10],
nisi quas tulerat/natale solum, non norat opes./Bene dissaepti foedera
mundi/traxit in unum Thessala pinus,/iussitque pati verbera pontum;/partemque
metus fieri nostri/mare sepositum" (vv. 329-339), secoli immacolati
videro i nostri padri, quando era tenuta lontano la frode. Ciascuno tenendo
pigro i suoi lidi, e divenuto vecchio nel campo paterno, ricco con poco, non
conosceva ricchezze se non quelle prodotte dal suolo natale. La nave Tessala
unificò le parti del cosmo ben separato
da un recinto d leggi, e ordinò che il ponto patisse le frustate dei remi; e
che il mare lontano divenisse parte della nostra paura.
L' u{bri"
di Tifi, il timoniere degli Argonauti, è simile a quella di Serse che volle
unificare e confondere i mondi separati
dell'Asia e dell'Europa tentando perfino
di aggiogare l'Ellesponto.
Leggiamo a questo proposito
alcuni versi dei Persiani di Eschilo con i quali lo spettro di Dario
biasima l'audacia eccessiva del figlio, il grande re Serse "il quale presunse di trattenere
come schiavo con/ vincoli il sacro Ellesponto che scorre “o{sti~
JEllhvsponton iJro;n dou`lon w}~ desmwvmasin-h[lpise schvsein rJevonta”,
745-746)), il Bosforo, corrente di un dio,/e mutava forma al passaggio, e
avvintolo con ceppi/martellati, procurò una grande via al grande
esercito./Essendo mortale, presumeva, senza saggezza, di averla vinta/su
Poseidone e tutti gli dèi: in questo caso, come poteva/non prendere mio figlio
una malattia della mente (novso"
frenw'n) ? "(vv. 745-750). Nosos , la malattia della mente
denunciata dallo spettro del padre, è quella che spinse Serse a negare
l'individuazione tra l'Europa e l'Asia aggiogando le due coste dell'Ellesponto
e compiendo un atto contro natura.
Questo discorso viene
richiamato, nelle Storie di
Erodoto, da Temistocle il quale, dopo la
vittoria sui Persiani, afferma:"Poiché questa impresa non l'abbiamo
compiuta noi, ma gli dèi e gli eroi i quali non permisero che un uomo solo, per
giunta empio e temerario, regnasse sull'Asia e sull'Europa, uno che teneva in
egual conto le cose sacre e profane, incendiando e abbattendo i simulacri degli
dèi, uno che fece frustare e incatenare anche il mare"( o}~ kai; th;n qavlassan ajpemastivgwse pevda~ te
kath`ke, VIII, 109, 4).
Proust ricorda questo episodio in La prigioniera e lo
applica al suo sermo amatorius:"
Eppure, non mi rendevo conto che già da un pezzo avrei dovuto staccarmi da
Albertine, giacché era entrata per me in quel periodo miserando nel quale un
essere disseminato nel tempo e nello spazio non è più per noi una donna, ma una
serie di eventi sui quali non possiamo far nessuna luce, una serie di problemi
insolubili, un mare che, come Serse, cerchiamo inutilmente di fustigare per
punirlo di tutto quello che ha ingoiato"[11].
Seneca vede nell’impiego
degli astri ai fini dell’orientamento
nautico una forma di strumentalizzazione "Alla breve presentazione
dell'audacia del primo navigatore segue la descrizione (vv. 309-317) del tempus
precedente come tempo di pura contemplazione o comunque di non
strumentalizzazione del cosmo-starei per dire dello spazio-da parte dell'uomo: nondum quisquam sidera norat,/stellisque
quibus pingitur aether/non erat usus "[12].
Nessuno ancora conosceva i nomi degli astri né faceva uso delle stelle di cui è
dipinta la volta celeste.
Manilio invece sottolinea i
benefici dell’orientamento conseguente alla contemplazione del cielo
“L’adattamento
dell’ordine cosmico alla vita terrena costituiva il modello non solo per
i filosofi, ma-sul piano pratico e con diversa consapevolezza-anche per i
marinai e i contadini, che si orientavano sulle stelle e sulle costellazioni
per la navigazione, le semine e il raccolto. Anche allora la forza
dell’abitudine ottundeva la meraviglia provata nel contemplare per la prima
volta il cielo “e ciò che in se stesso contiene-stelle che vafano ovunque,/la
luna , e il sole, che brilla di così splendida luce”. Le prime volte questo
spettacolo era apparso stupefacente, “ma ora nessuno, stanco della sazietà di
vederli, si degna d’alzare lo sguardo verso gli spazi di luce, nel cielo[13]”[14]
Lucrezio in questi versi, particolarmente con gli ultimi due
(iam nemo, fessus satiate vivendi/suspicere
in caeli dignatur lucida templa) mette in rilievo la stanchezza del genere
umano cui corrisponde la vecchiaia e la stanchezza della terra. Nella parte
conclusiva di questo secondo libro del De
rerum natura, il poeta latino nota che la nostra età è stremata (fracta est aetas, v 1150), e la terra esausta che un tempo creò ferarum ingentia corpora, adesso produce
vix animalia parva (v. 1152). Gli
ultimi versi raffigurano il rattristato coltivatore della vigna vecchia e vizza: " tristis
item vetulae vitis sator atque
vietae (v. 1168), il quale "temporis
incusat nomen saeclumque fatigat,/et crepat, antiquum genus ut pietate
repletum/perfacile angustis tolerarit finibus aevum,/cum minor esset agri multo
modus ante viritim./ Nec tenet omnia
paulatim tabescere et ire/ad capulum spatio aetatis defessa vetusto "
(vv. 1169-1174), accusa il corso del tempo e insulta la sua età,/e brontola che
l'antico genere umano pieno di devozione/sosteneva assai facilmente la vita
entro confini ristretti,/sebbene molto minore fosse prima la misura del campo
per testa. E non capisce che tutto a poco a poco si consuma e va verso la
tomba, spossato da lungo spazio di tempo.
Giovanni ghiselli
P.S
Ho inserito questo percorso nelle conferenze che
terrò per l’Università Alma mater di Bologna il 9 e il 30 aprile 2014 dalle 17 alle 18, 30 nell’aula Guglielmi del
Dipartimento di filologia classica e italianistica, via Zamboni, 32.
[2] Immaginare altre vite, p. 31
[3] Plutarco, Vita di Alessandro, 14, 4-5.
[4] Immaginare
altre vite, p. 131.
[5] Immaginare
altre vite, p. 131,
[6] Immaginare
altre vite, p. 131.
[7] Immaginare
altre vite, p. 132
[8] Tutt’altra interpretazione della scoperta
dell’oro dà Ovidio: effodiuntur
opes, inritamenta malorum;/ iamque nocens ferrum ferroque nocentius aurum/
prodierat: prodit bellum, quod pugnat utroque,/sanguineaque manu crepitantia
concutit arma (Metamorfosi, I, 140-143), si estraggono dalla terra le
ricchezze, stimolo dei mali; e già il ferro funesto e, più funesto del ferro,
l'oro era venuto alla luce: venne alla luce la guerra, che combatte con l'uno e
con l'altro, e con mano sanguinaria scuote ordigni che scrosciano.
[9] "Su questa stessa linea - 'romanizzante' ed
'eticizzante' del topos dell'età dell'oro - si colloca anche il v. 332 …
che presuppone un ruolo 'forte', all'interno del topos, dell'agricoltura
e della coltivazione della terra" (
da G. B. Conte, op. cit., p. 347.
[10] "E' ossimoro di sapore oraziano (analogo, nella
formazione, al celebre simplex munditiis di Odi, I, 5, 5)"
G. B. Conte, op. cit., p. 347.
[11] La prigioniera, p. 103.
[12] G. Biondi, Il mito argonautico nella Medea. Lo
stile 'filosofico' del drammatico Seneca, "Dioniso" 1981, p. 427.
[13] Lucrezio, De
rerum natura, tr. It. Di G. Milanese, La Natura delle cose; Mondatori, Milano 1992, II, vv.
1030-1032, 1037-1039, p. 157.
[14] Remo Bodei, Immaginare
altre vite, p. 11132.
Mdiatascomo Kevin Gatling Crack
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