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domenica 9 marzo 2014

Remo Bodei, Immaginare altre vite, parte VIII



Ottava parte del commento al libro di Remo Bodei
 Immaginare altre vite
 Realtà, progetti, desideri, Feltrinelli, Milano 2013

Procedo con il VII capitolo del libro di Remo Bodei  La vita più desiderabile, presentandone il paragrafo Gli splendidissimi astri (pp. 130-132)
L’autore prende in esame “il modello offerto dalla filosofia”.
Nell’età classica i maestri di etica insegnavano l’emancipazione dal potere, dalla brama dei beni materiali, dal piacere, dal conformismo. Socrate, alla fine della sua Apologia (scritta da Platone),  lascia questo testamento spirituale alla polis: “ i miei figli, una volta cresciuti, puniteli, cittadini, causando loro gli stessi dispiaceri che io ho causato a voi, se vi parrà che si prendano cura delle ricchezze oppure di altro prima della virtù” (41E).
Bodei fa l’esempio appropriato di Diogene il Cinico che suggeriva il ritorno alla natura e l’autarchia, cioè il bastare a se stesso dell’uomo.
“fatto prigioniero e venduto come schiavo, alla domanda cosa sapesse fare, rispose provocatoriamente ‘Comandare gli uomini’ e, rivolgendosi all’araldo, gli ‘ingiunse di bandire se ci fosse qualcuno che volesse comprare un padrone’[1].”[2]
Diogene arrivò a dare ordini ad Alessandro Magno che era andato a fargli visita con il suo seguito, per omaggiarlo, quando si trovavano entrambi  a Corinto.
Ebbene, Plutarco racconta che il filosofo se ne stava in ozio, sdraiato al sole nel Craneo, un sobborgo orientale della città dai due mari, e, “al sopraggiungere di tanta gente, si sollevò un poco e guardò fisso verso Alessandro. Come quello, dopo averlo salutato affabilmente e avere cominciato a parlargli, gli chiese se per caso avesse bisogno di qualcosa, 'scostati un poco dal sole' (mikro;n - ei\pen - ajpo; tou` hJlivou metavsthqi), disse  Diogene. Davanti a questo si dice che Alessandro, sebbene trattato con sufficienza, avesse ammirato, la fierezza e la grandezza dell'uomo, al punto che, mentre quelli del suo seguito, come si allontanavano, lo deridevano e canzonavano, "io invece - disse - se non fossi Alessandro, sarei Diogene"[3]
“Nell’era antica la “vita più desiderabile” consisteva, tra gli epicurei e i cinici, nel prendere le distanze dal mondo, dalla politica o dagli affari  o (all’interno della filosofia greca, specie nel platonismo e nell’aristotelismo, a differenza di quella romana di Cicerone) nel riconoscere la superiorità della vita contemplativa su quella attiva”[4].
Bodei quindi cita Platone e Plotino.
Nel Teeteto,  Socrate dice che il vero filosofo è una persona la cui anima disprezza le cose terrene, e, con citazione pindarica, trasvola da ogni parte (pantach`/ pevtetai) e ora scende nel profondo della terra, ora ne misura la superficie, e ora sale nel cielo ajstronomou`sa, a misurare le stelle (173E-174A)
“In Plotino questo distacco diventa una dichiarata evasione dal mondo”[5].
Il filosofo neoplatonico fa l’esempio di Odisseo il quale, sfuggendo alle lusinghe di Circe e Calipso, ha fatto comprendere che non voleva rimanere in mezzo ai piaceri (e[cwn hJdonav~, ) e alle bellezze sensibili. La nostra patria infatti è quella dalla quale veniamo e il nostro padre è là (kai; path;r ejkei`).
E’ dunque necessario compiere un viaggio non con i piedi (ouj posi;) né con cocchi e navigli, ma bisogna staccarsi da queste cose e mutare la vista corporea con un’altra e risvegliare la facoltà che molti possiedono, ma pochi adoprano (Enneadi, I, 6, 8, 21).
“Nelle maggiori scuole (pitagorica, platonica, stoica) la vita più desiderabile veniva raggiunta attraverso l’imitazione dell’ordine, della regolarità e dell’armonia dell’universo, un paradigma da applicarsi tanto alla politica quanto all’etica”[6]
Questa imitazione, tornando  al Teeteto, è in definitiva  quella che Socrate chiama oJmoivwsi~ qew`/ , un farsi simile a dio. Questa oJmoivwsi~  è una fuga (fughv) dal mondo il cui effetto è  divenire giusto e pio con sapienza (176B).
“In gran parte della filosofia antica, al di sopra dell’oikos-che garantisce la sopravvivenza, la vita fisica, la zoé-e al di sopra della polis, che garantisce il bios, la vita politica individuata, stanno, come dice Aristotele, gli “splendidissimi astri”. La loro conoscenza è considerata una tappa fondamentale nello sviluppo delle civiltà umane”[7].
Bodei prosegue citando alcuni versi (54, 66-78) degli Astronomica di Manilio, un poema di astronomia, e astrologia, scritto al tempo di Augusto e di Tiberio.
Gli studi dei sacerdoti egizi e mesopotamici hanno aperto la strada dei cieli e hanno civilizzato, reso razionale la vita degli uomini svelando i tesori nascosti nelle viscere della terra e aprendo anche le vie del mare che a sua volta teneva nascosti e sconosciuti dei mondi.
Prima di queste scoperte “ necdum etiam doctas sollertia fecerat artes/terraque sub rudibus cessabat vasta colonis;/tumque in desertis habitabat montibus aurum,/nec vitam pelago nec ventis credere vota/audebant, se quisque satis novisse putabant” ( Astronomica, vv. 77-78), non ancora l’applicazione ingegnosa aveva creato le tecniche abili, e una terra desolata rimaneva inerte sotto coloni inesperti, allora l’oro[8] dimorava dentro monti deserti,   né osavano affidare la vita al mare né ai venti gli auspici, credevano, ognuno per sé, di saperne abbastanza.
Per quanto riguarda la navigazione, voglio contrapporre a questo ottimismo  il pessimismo della tragedia Medea di Seneca.
 Il secondo coro (vv. 301-379) del dramma  maledice la navigazione come attività troppo audace per l'uomo:" Audax nimium, qui freta primus/rate tam fragili perfida rupit/terrasque suas post terga videns/animam levibus credidit auris/ dubioque secans aequora cursu,/potuit tenui fidere ligno,/inter vitae mortisque vias/nimium gracili limite ducto"  (vv. 301-308), audace troppo chi per primo ruppe con la barca tanto fragile i perfidi flutti, e, vedendo alle spalle la sua terra, affidò la vita ai venti incostanti, e fendendo gli spazi marini con rotta infida, fu capace di affidarsi a un legno debole guidato sul confine troppo sottile tra le vie della vita e della morte.
Poco più avanti il Coro situa l'età edenica nel passato antecedente l'impresa di Argo, la prima nave: "Candida nostri saecula patres/videre, procul fraude remota./Sua quisque piger litora tangens,/patrioque senex factus in arvo[9],/parvo dives[10], nisi quas tulerat/natale solum, non norat opes./Bene dissaepti foedera mundi/traxit in unum Thessala pinus,/iussitque pati verbera pontum;/partemque metus fieri nostri/mare sepositum" (vv. 329-339), secoli immacolati videro i nostri padri, quando era tenuta lontano la frode. Ciascuno tenendo pigro i suoi lidi, e divenuto vecchio nel campo paterno, ricco con poco, non conosceva ricchezze se non quelle prodotte dal suolo natale. La nave Tessala unificò le parti del cosmo ben  separato da un recinto d leggi, e ordinò che il ponto patisse le frustate dei remi; e che il mare lontano divenisse parte della nostra paura.
L' u{bri" di Tifi, il timoniere degli Argonauti, è simile a quella di Serse che volle unificare e confondere i mondi  separati dell'Asia e dell'Europa  tentando perfino di aggiogare l'Ellesponto.
Leggiamo a questo proposito alcuni versi dei Persiani di Eschilo con i quali lo spettro di Dario biasima l'audacia eccessiva del figlio, il grande re Serse "il quale presunse di trattenere come schiavo con/ vincoli il sacro Ellesponto che scorre “o{sti~   JEllhvsponton iJro;n dou`lon w}~ desmwvmasin-h[lpise schvsein rJevonta”, 745-746)), il Bosforo, corrente di un dio,/e mutava forma al passaggio, e avvintolo con ceppi/martellati, procurò una grande via al grande esercito./Essendo mortale, presumeva, senza saggezza, di averla vinta/su Poseidone e tutti gli dèi: in questo caso, come poteva/non prendere mio figlio una malattia della mente (novso" frenw'n) ? "(vv. 745-750). Nosos , la malattia della mente denunciata dallo spettro del padre, è quella che spinse Serse a negare l'individuazione tra l'Europa e l'Asia aggiogando le due coste dell'Ellesponto e compiendo un atto contro natura.
 Questo discorso viene richiamato, nelle Storie  di Erodoto,  da Temistocle il quale, dopo la vittoria sui Persiani, afferma:"Poiché questa impresa non l'abbiamo compiuta noi, ma gli dèi e gli eroi i quali non permisero che un uomo solo, per giunta empio e temerario, regnasse sull'Asia e sull'Europa, uno che teneva in egual conto le cose sacre e profane, incendiando e abbattendo i simulacri degli dèi, uno che fece frustare e incatenare anche il mare"( o}~ kai; th;n qavlassan ajpemastivgwse pevda~ te kath`ke, VIII, 109, 4).
Proust ricorda questo episodio in La prigioniera e lo applica al suo sermo amatorius:" Eppure, non mi rendevo conto che già da un pezzo avrei dovuto staccarmi da Albertine, giacché era entrata per me in quel periodo miserando nel quale un essere disseminato nel tempo e nello spazio non è più per noi una donna, ma una serie di eventi sui quali non possiamo far nessuna luce, una serie di problemi insolubili, un mare che, come Serse, cerchiamo inutilmente di fustigare per punirlo di tutto quello che ha ingoiato"[11].   
Seneca vede nell’impiego degli astri  ai fini dell’orientamento nautico una forma di strumentalizzazione  "Alla breve presentazione dell'audacia del primo navigatore segue la descrizione (vv. 309-317) del tempus precedente come tempo di pura contemplazione o comunque di non strumentalizzazione del cosmo-starei per dire dello spazio-da parte dell'uomo: nondum quisquam sidera norat,/stellisque quibus pingitur aether/non erat usus "[12]. Nessuno ancora conosceva i nomi degli astri né faceva uso delle stelle di cui è dipinta la volta celeste.
Manilio invece sottolinea i  benefici dell’orientamento conseguente alla contemplazione del cielo
“L’adattamento  dell’ordine cosmico alla vita terrena costituiva il modello non solo per i filosofi, ma-sul piano pratico e con diversa consapevolezza-anche per i marinai e i contadini, che si orientavano sulle stelle e sulle costellazioni per la navigazione, le semine e il raccolto. Anche allora la forza dell’abitudine ottundeva la meraviglia provata nel contemplare per la prima volta il cielo “e ciò che in se stesso contiene-stelle che vafano ovunque,/la luna , e il sole, che brilla di così splendida luce”. Le prime volte questo spettacolo era apparso stupefacente, “ma ora nessuno, stanco della sazietà di vederli, si degna d’alzare lo sguardo verso gli spazi di luce, nel cielo[13][14]   
Lucrezio in questi versi, particolarmente con gli ultimi due (iam nemo, fessus satiate vivendi/suspicere in caeli dignatur lucida templa) mette in rilievo la stanchezza del genere umano cui corrisponde la vecchiaia e la stanchezza della terra. Nella parte conclusiva di questo secondo libro del De rerum natura, il poeta latino nota che la nostra età è stremata (fracta est aetas, v 1150),  e la terra esausta che un tempo creò ferarum ingentia corpora, adesso produce vix animalia parva (v. 1152). Gli ultimi versi raffigurano il rattristato coltivatore della vigna vecchia e vizza:  " tristis item vetulae vitis sator  atque vietae  (v. 1168), il quale  "temporis incusat nomen saeclumque fatigat,/et crepat, antiquum genus ut pietate repletum/perfacile angustis tolerarit finibus aevum,/cum minor esset agri multo modus ante viritim./ Nec tenet omnia paulatim tabescere et ire/ad capulum spatio aetatis defessa vetusto " (vv. 1169-1174), accusa il corso del tempo e insulta la sua età,/e brontola che l'antico genere umano pieno di devozione/sosteneva assai facilmente la vita entro confini ristretti,/sebbene molto minore fosse prima la misura del campo per testa. E non capisce che tutto a poco a poco si consuma e va verso la tomba, spossato da lungo spazio di tempo.

Giovanni ghiselli

P.S
Ho inserito questo percorso nelle conferenze che terrò per l’Università Alma mater di Bologna il 9 e il 30 aprile 2014  dalle 17 alle 18, 30 nell’aula Guglielmi del Dipartimento di filologia classica e italianistica, via Zamboni, 32.


[1]  Cfr. Diogene Laerzio, Vite dei Filosofi, VI, 29, a cura di M. Gigante, Laterza, Bari, 1962.
[2]  Immaginare altre vite, p. 31 
[3] Plutarco, Vita di Alessandro, 14, 4-5.
[4] Immaginare altre vite, p. 131.
[5] Immaginare altre vite, p. 131,
[6] Immaginare altre vite, p. 131.
[7] Immaginare altre vite, p. 132
[8] Tutt’altra interpretazione della scoperta dell’oro dà Ovidio: effodiuntur opes, inritamenta malorum;/ iamque nocens ferrum ferroque nocentius aurum/ prodierat: prodit bellum, quod pugnat utroque,/sanguineaque manu crepitantia concutit arma (Metamorfosi, I, 140-143), si estraggono dalla terra le ricchezze, stimolo dei mali; e già il ferro funesto e, più funesto del ferro, l'oro era venuto alla luce: venne alla luce la guerra, che combatte con l'uno e con l'altro, e con mano sanguinaria scuote ordigni  che scrosciano.
[9] "Su questa stessa linea - 'romanizzante' ed 'eticizzante' del topos dell'età dell'oro - si colloca anche il v. 332 … che presuppone un ruolo 'forte', all'interno del topos, dell'agricoltura e della coltivazione della terra" (  da G. B. Conte, op. cit., p. 347.
[10] "E' ossimoro di sapore oraziano (analogo, nella formazione, al celebre simplex munditiis di Odi, I, 5, 5)" G. B. Conte, op. cit., p. 347.
[11] La prigioniera, p. 103.
[12] G. Biondi, Il mito argonautico nella Medea. Lo stile 'filosofico' del drammatico Seneca, "Dioniso" 1981,  p. 427.
[13] Lucrezio, De rerum natura, tr. It. Di G. Milanese, La Natura delle cose; Mondatori, Milano 1992, II, vv. 1030-1032, 1037-1039, p. 157.
[14] Remo Bodei, Immaginare altre vite, p. 11132.

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