NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

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martedì 22 dicembre 2015

I "Remedia amoris" di Ovidio, Parte VII

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Procediamo con i più significativi tra i distici che seguono
Gioverà anche vedere la donna al naturale arrivando all'improvviso di mattina: "Auferimur cultu: gemmis auroque teguntur/omnia; pars minima est ipsa puella sui" (Remedia Amoris vv. 343 - 344), siamo sedotti dall'acconciatura: tutti i difetti sono coperti dalle gemme e dall'oro; la donna in sé, è una una parte minima di sé - ipsa puella: con questo stilema platonico (aujto; ~ o{ - auto; tov) applicato all'amore Ovidio intende distinguere non tanto l'anima della donna dal suo corpo quanto il suo vero aspetto da tutto l'apparato esteriore. Comunque anche qui come nel dialogo Gorgia 465b la cosmesi è una forma di adulazione e di inganno.
Infatti, prosegue Ovidio, "Saepe, ubi sit quod ames, inter tam multa, requiras: /decipit hac oculos aegide dives Amor " (vv. 345 - 346) , spesso tra tante contraffazioni uno può chiedersi dove sia ciò che ama: Amore arricchito con questo scudo inganna gli occhi. - tam multa: sono gli orpelli dell'apparato esterno e della cosmesi che inganna (decipit) .
Platone nel luogo citato sopra definisce la cosmesi ajpathlhv, ingannevole appunto.

Si ricorderà che altrove[1] Ovidio non accusa né denuncia il cultus, anzi lo approva ma in questo contesto ogni mezzo è valido per demistificare e svilire la donna.
Un mezzo demistificatorio è quello di arrivare all'improvviso: "improvisus ades: deprendes tutus inermem; infelix vitiis excidet illa suis " (vv. 347 - 348) , presentati inaspettato: tu, al sicuro, la sorprenderai disarmata; quella, disgraziata, cadrà per i suoi difetti. - tutus: l'uomo che invece si è preparato. Non è una guerra cavalleresca. - inermem: il termine (formato da in e arma) allude alla guerra: questi versi potrebbero entrare anche nel tovpo" Eros/Eris.
Esiste però una forma sine arte decens (v. 350) , una bellezza elegante senza trucco ed essa fallit multos, inganna molti. Volendo spiegarla, questa potrebbe essere la bellezza naturale potenziata, o conservata, dalla ginnastica e dalla consapevolezza di sé.
L'attrazione esercitata da tale forma potrebbe non essere fallace. Comunque Ovidio, come Lucrezio, consiglia di avvicinarsi al volto della domina "compositis cum linit ora venenis " (v. 351) , quando si spalma il volto con intrugli pestiferi, che hanno l'odore stercorario delle mense di Fineo insozzate dalle Arpie: "Illa tuas redolent, Phineu, medicamina mensas " (v. 355) , quegli intrugli hanno il cattivo odore delle tue mense, Fineo.
Le donne dunque sono come Arpie che insozzano; come le Erinni appartengono alla categoria dei mostri femminili vendicatori e vengono chiamate anche "cani del grande Zeus"[2]. E' tipico dell'immaginario mitico dei Greci attribuire a figure femminili i tratti dell'alterità più mostruosa.

Diamo un'occhiata a questi mostri che possono accostarsi all'immagine della donna tubo di scarico e simboleggiano tanto la paura quanto il risentimento del maschio verso la femmina umana degradata a semibestiale: "Virginei volucrum voltus, foedissima ventris/proluvies uncaeque manus et pallida semper/ora fame " (Eneide, III, 216 - 218) , i volti degli uccelli sono da ragazza, schifosissimo è il flusso del ventre, adunche le mani e pallidi sempre i volti per fame. Sentiamo anche Dante: "Quivi le brutte Arpie lor nido fanno, /che cacciar delle Strofade i Troiani/con tristo annunzio di futuro danno. / Ali hanno late, e colli e visi umani, /piè con artigli, e pennuto il gran ventre; /fanno lamenti in su li alberi strani" (Inferno, XIII, 10 - 15) .

E' notevole che l'uccello con volto di donna è un mostro, mentre la donna o l'uomo con qualche cosa di ornitologico nel volto è nobile e bello, come si legge in Proust[3].
Non potrà che derivarne nausea allo stomaco. Anche perché la donna che usa tale "orribile manteca" ed è "tutta goffamente imbellettata e parata d'abiti giovanili " il più delle volte ha grossi difetti da nascondere: è brutta e vecchia come quella di Pirandello (cfr. L’umorismo) .

L'apologia della Musa licenziosa
Quindi l'autore si difende dai detrattori secondo la censura dei quali la sua Musa è sfacciata ("quorum censura Musa proterva mea est ", v. 362) .
Tale apologia si trova già in Catullo che si difende contrapponendo la pietas e la castitas della sua vita ai versiculi molliculi: " me ex versiculis meis putastis, /quod sunt molliculi, parum pudicum. / Nam castum esse decet pium poetam/ipsum, versiculos nihil necessest " (16, 3 - 6) , mi consideraste, dai miei versi leggeri, poiché sono lascivi, poco casto. In effetti si addice al pio poeta come persona essere puro, che lo siano i suoi teneri versi non è necessario.
 Su questa linea Marziale scriverà: "lasciva est nobis pagina, vita proba " (I, 4, 8) , la mia pagina è licenziosa, la vita onesta.

Ovidio piuttosto attacca il livor dei detrattori del genio. L'invidia attacca i poeti sommi: "Ingenium magni livor detractat Homeri " (v. 365) , l'invidia deprezza il talento del grande Omero, come ha cercato di infamare il capolavoro di Virgilio: "Et tua sacrilegae laniarunt carmina linguae " (v. 367) , e lingue sacrileghe dilaniarono i tuoi carmi.
Insomma il livor cerca di colpire le cime: "Summa petit livor; perflant altissima venti, /summa petunt dextra fulmina missa Iovis " (vv. 369 - 370) , l'invidia mira verso l'alto; i venti soffiano sulle vette più alte, i fulmini scagliati dalla destra di Giove mirano alle sommità.



L'invidia degli uomini nei confronti del genio 
Il tovpo" dell'invidia è molto diffuso in letteratura: Erodoto attribuisce questo sentimento certo non alto perfino agli dèi[4].
Lo stesso ostracismo secondo Plutarco è un'istituzione con la quale gli Ateniesi cacciavano in esilio quelli tra i cittadini che superavano gli altri per fama e potenza, e con questo placavano l'invidia più che la paura: "paramuqouvmenoi to; n fqovnon ma'llon h] to; n fovbon"[5].
Molti uomini politici vennero colpiti dall'invidia, ma anche non pochi poeti se ne lamentano.
All'invidia dei detrattori Telchìni deve replicare Callimaco nel prologo degli Aitia, e, ancora più esplicitamente il poeta di Cirene ribatte ai colpi degli invidiosi con alcuni esametri dell' Inno II ad Apollo: l' Invidia disse di nascosto agli orecchi di Apollo ("oJ Fqovno" jApovllwno" ejp j ou[ata lavqrio" ei\pen", v. 100) : " non ammiro il cantore che non canta temi grandi quanto il mare".
Apollo respinse l'Invidia con il piede "to; n Fqovnon wJpovllwn podiv t& h[lasen", v. 103) e parlò così: "grande è la corrente del fiume di Assiria, ma molta/lordura della terra e molta spazzatura trascina sull'acqua. / Le api portano l'acqua a Demetra non da ogni parte
ma quella che pura e incontaminata zampilla/da sacra sorgente piccola vena, fiore sublime".
 Il grande fiume pieno di scorie simboleggia il grande poema e può alludere a le Argonautiche di Apollonio Rodio.
Tornando alla invidia tra i potenti della terra, in Tacito l'invidia di Tigellino architetta la rovina di Petronio, "elegantiae arbiter ", principe del buon gusto della corte di Nerone. Il despota "nihil amoenum et molle adfluentia putat, nisi quod ei Petronius adprobavisset ", niente considerava piacevole e raffinato in quell'abbondanza, se non ciò che Petronio gli avesse approvato, "unde invidia Tigellini quasi adversus aemulum et scientia voluptatum potiorem "[6], di qui l'invidia di Tigellino come contro un rivale più capace nella conoscenza dei piaceri. Tigellino è il famigerato prefetto del pretorio succeduto a Burro fatto ammazzare da Nerone nel 62 d. C. A lui che cercava accuse di adulterio contro Ottavia presso le ancelle di lei, una, incalzata, rispose "castiora esse muliebria Octaviae quam os eius" (Annales, XIV, 60) , che era più casto il sesso di Ottavia che la sua bocca.
 Nell' incipit dell'Agricola lo storiografo afferma che aveva riflettuto sull'invidia in generale, chiamandola, con l'ignoranza del bene, vizio comune ai piccoli e ai grandi stati: "vitium parvis magnisque civitatibus commune ".
 Dante individua questo vizio soprattutto nelle corti: " La meretrice che mai dall'ospizio/di Cesare non torse li occhi putti, / morte comune, delle corti vizio", [7].
A. Schopenhauer in Parerga e paralipomena dà una definizione efficace di questo sentimento meschino: " alla gloria dei meriti di alta specie si oppone l'invidia; l'invidia che vi si oppone fin dai primi passi, perfino quando si tratta di meriti di infimo grado e non si ritira fino all'ultimo; perciò appunto l'invidia contribuisce parecchio a peggiorare il corso del mondo, e Ariosto con ragione definisce la vita come
"questa assai più oscura che serena/ vita mortal, tutta d'invidia piena"[8].
L'invidia è appunto l'anima dell'alleanza dovunque fiorente e tacitamente stipulata, senza previa intesa, di tutti i mediocri contro il singolo individuo eccellente di qualsiasi specie"[9].
L'invidia di Salieri per il genio di Mozart è stata resa celebre dal film Amadeus di Forman. Alle spalle c'è un microdramma di Puskin (1799 - 1837) del quale cito alcune parole: "Sono invidioso. Invidio; con tormento, /Profondamente, invidio. O cielo! dunque/Dov'è giustizia, quando il sacro dono, /Quando il genio immortale non compenso/D'amore ardente, non di dedizione, /
Di sudori, di zelo, è, di preghiere. /Ma illumina la testa d'un ozioso/
Vagabondo, d'un folle? ... O Mozart, Mozart"[10].
La Zambrano definisce l'invidia "il male sacro tra tutti", quello "che di fronte al Dio assoluto grida non serviam, e che nell'uomo sarà l'invidia fraterna, "la prima forma di parentela"[11].


continua




[1] Nell'Ars Amatoria Ovidio afferma che è proprio l'eleganza a fargli preferire l'età moderna all'antica, presunta aurea: "prisca iuvent alios, ego me nunc denique natum/gratulor: haec aetas moribus apta meis" (III, 121 - 122) , i tempi antichi piacciano ad altri, io mi rallegro di essere nato ora, dopo tutto: questa è l'età adatta ai miei gusti, non perché, continua il Sulmonese, terre mari e monti sono stati domati dall'uomo, "sed quia cultus adest nec nostros mansit in annos/rusticitas priscis illa superstes avis " Ars, III, 127 - 128) , ma perché c'è eleganza e non è rimasta fino ai nostri anni quella rozzezza sopravvissuta agli avi antichi.
 Un cultus che include la coltura del corpo e dello spirito. 
[2] Per le Arpie cfr. Apollonio Rodio, Argonautiche, II, 289; poi Virgilio, Eneide, III, 225 - 258 e Dante, Inferno, XIII, 64 - 66. Per le Erinni cfr. le Eumenidi di Eschilo, vv. 130 - 132.
[3] I Guermantes, p. 82.
[4]Una scheda su questo argomento si trova nel mio Storiografi Greci.
[5]Plutarco, Vita di Alcibiade, 13.
[6]Tacito, Annales, XVI, 18.
[7]Inferno, XIII, vv. 64 - 66.
[8]Orlando furioso, IV, 1.
[9]TomoII, p. 61O.
[10]Mozart e Salieri.
[11] L'uomo e il divino, p. 241. 

3 commenti:

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  3. Anche vedere un uomo in certi momenti della giornata effettivamente può far svanire il desiderio...bravo Ovidio che ben consiglia. Giovanna Tocco

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