PER VISUALIZZARE IL GRECO CLICCA QUI E SCARICA IL FONT HELLENIKA
Procediamo con i più significativi tra i
distici che seguono
Gioverà anche vedere la donna al
naturale arrivando all'improvviso di mattina: "Auferimur cultu: gemmis auroque teguntur/omnia; pars minima est ipsa
puella sui" (Remedia Amoris
vv. 343 - 344), siamo sedotti dall'acconciatura: tutti i difetti sono coperti
dalle gemme e dall'oro; la donna in sé, è una una parte minima di sé - ipsa puella: con questo stilema
platonico (aujto;
~ o{ - auto; tov)
applicato all'amore Ovidio intende distinguere non tanto l'anima della donna
dal suo corpo quanto il suo vero aspetto da tutto l'apparato esteriore. Comunque
anche qui come nel dialogo Gorgia
465b la cosmesi è una forma di adulazione e di inganno.
Infatti, prosegue Ovidio, "Saepe, ubi sit quod ames, inter tam multa, requiras:
/decipit hac oculos aegide dives Amor " (vv. 345 - 346) , spesso tra
tante contraffazioni uno può chiedersi dove sia ciò che ama: Amore arricchito
con questo scudo inganna gli occhi. - tam
multa: sono gli orpelli dell'apparato esterno e della cosmesi che inganna (decipit) .
Platone nel luogo citato sopra definisce
la cosmesi ajpathlhv, ingannevole
appunto.
Si ricorderà che altrove[1]
Ovidio non accusa né denuncia il cultus,
anzi lo approva ma in questo contesto ogni mezzo è valido per demistificare e
svilire la donna.
Un mezzo demistificatorio è quello di
arrivare all'improvviso: "improvisus
ades: deprendes tutus inermem; infelix vitiis excidet illa suis " (vv.
347 - 348) , presentati inaspettato: tu, al sicuro, la sorprenderai disarmata; quella,
disgraziata, cadrà per i suoi difetti. - tutus:
l'uomo che invece si è preparato. Non è una guerra cavalleresca. - inermem: il termine (formato da in e arma)
allude alla guerra: questi versi potrebbero entrare anche nel tovpo" Eros/Eris.
Esiste però una forma sine arte decens (v. 350) , una bellezza elegante senza
trucco ed essa fallit multos, inganna
molti. Volendo spiegarla, questa potrebbe essere la bellezza naturale
potenziata, o conservata, dalla ginnastica e dalla consapevolezza di sé.
L'attrazione esercitata da tale forma potrebbe
non essere fallace. Comunque Ovidio, come Lucrezio, consiglia di avvicinarsi al
volto della domina "compositis cum
linit ora venenis " (v. 351) , quando si spalma il volto con intrugli
pestiferi, che hanno l'odore stercorario delle mense di Fineo insozzate dalle
Arpie: "Illa tuas redolent, Phineu, medicamina
mensas " (v. 355) , quegli intrugli hanno il cattivo odore delle tue
mense, Fineo.
Le donne dunque sono come Arpie che
insozzano; come le Erinni appartengono alla categoria dei mostri femminili
vendicatori e vengono chiamate anche "cani del grande Zeus"[2]. E'
tipico dell'immaginario mitico dei Greci attribuire a figure femminili i tratti
dell'alterità più mostruosa.
Diamo un'occhiata a questi mostri che
possono accostarsi all'immagine della donna tubo di scarico e simboleggiano
tanto la paura quanto il risentimento del maschio verso la femmina umana
degradata a semibestiale: "Virginei
volucrum voltus, foedissima ventris/proluvies uncaeque manus et pallida semper/ora
fame " (Eneide, III, 216 - 218)
, i volti degli uccelli sono da ragazza, schifosissimo è il flusso del ventre, adunche
le mani e pallidi sempre i volti per fame. Sentiamo anche Dante: "Quivi le
brutte Arpie lor nido fanno, /che cacciar delle Strofade i Troiani/con tristo
annunzio di futuro danno. / Ali hanno late, e colli e visi umani, /piè con
artigli, e pennuto il gran ventre; /fanno lamenti in su li alberi strani"
(Inferno, XIII, 10 - 15) .
E' notevole che l'uccello con volto di donna è
un mostro, mentre la donna o l'uomo con qualche cosa di ornitologico nel volto
è nobile e bello, come si legge in Proust[3].
Non potrà che derivarne nausea allo stomaco. Anche
perché la donna che usa tale "orribile manteca" ed è "tutta
goffamente imbellettata e parata d'abiti giovanili " il più delle volte ha
grossi difetti da nascondere: è brutta e vecchia come quella di Pirandello (cfr.
L’umorismo) .
L'apologia della Musa licenziosa
Quindi l'autore si difende dai
detrattori secondo la censura dei quali la sua Musa è sfacciata ("quorum censura Musa proterva mea est
", v. 362) .
Tale apologia si trova già in Catullo
che si difende contrapponendo la pietas
e la castitas della sua vita ai versiculi molliculi: " me ex versiculis meis putastis, /quod sunt
molliculi, parum pudicum. / Nam castum esse decet pium poetam/ipsum, versiculos
nihil necessest " (16, 3 - 6) , mi consideraste, dai miei versi
leggeri, poiché sono lascivi, poco casto. In effetti si addice al pio poeta
come persona essere puro, che lo siano i suoi teneri versi non è necessario.
Su questa linea Marziale scriverà: "lasciva est nobis pagina, vita proba
" (I, 4, 8) , la mia pagina è licenziosa, la vita onesta.
Ovidio piuttosto attacca il livor dei detrattori del genio. L'invidia
attacca i poeti sommi: "Ingenium
magni livor detractat Homeri " (v. 365) , l'invidia deprezza il
talento del grande Omero, come ha cercato di infamare il capolavoro di Virgilio:
"Et tua sacrilegae laniarunt carmina
linguae " (v. 367) , e lingue sacrileghe dilaniarono i tuoi carmi.
Insomma il livor cerca di colpire le cime: "Summa petit livor; perflant altissima venti, /summa petunt dextra
fulmina missa Iovis " (vv. 369 - 370) , l'invidia mira verso l'alto; i
venti soffiano sulle vette più alte, i fulmini scagliati dalla destra di Giove
mirano alle sommità.
L'invidia
degli uomini nei confronti del genio
Il tovpo" dell'invidia è molto diffuso in
letteratura: Erodoto attribuisce questo sentimento certo non alto perfino agli
dèi[4].
Lo stesso ostracismo secondo Plutarco è
un'istituzione con la quale gli Ateniesi cacciavano in esilio quelli tra i
cittadini che superavano gli altri per fama e potenza, e con questo placavano
l'invidia più che la paura: "paramuqouvmenoi to; n fqovnon ma'llon h] to; n fovbon"[5].
Molti uomini politici vennero colpiti
dall'invidia, ma anche non pochi poeti se ne lamentano.
All'invidia dei detrattori Telchìni deve
replicare Callimaco nel prologo degli Aitia,
e, ancora più esplicitamente il poeta di Cirene ribatte ai colpi degli
invidiosi con alcuni esametri dell' Inno
II ad Apollo: l' Invidia disse di nascosto agli orecchi di Apollo ("oJ Fqovno"
jApovllwno" ejp j ou[ata lavqrio" ei\pen", v. 100)
: " non ammiro il cantore che non canta temi grandi quanto il mare".
Apollo respinse l'Invidia con il piede
"to; n
Fqovnon wJpovllwn podiv t& h[lasen", v. 103) e parlò così: "grande
è la corrente del fiume di Assiria, ma molta/lordura della terra e molta
spazzatura trascina sull'acqua. / Le api portano l'acqua a Demetra non da ogni
parte
ma quella che pura e incontaminata
zampilla/da sacra sorgente piccola vena, fiore sublime".
Il grande fiume pieno di scorie simboleggia il
grande poema e può alludere a le
Argonautiche di Apollonio Rodio.
Tornando alla invidia tra i potenti
della terra, in Tacito l'invidia di Tigellino architetta la rovina di Petronio,
"elegantiae arbiter ", principe
del buon gusto della corte di Nerone. Il despota "nihil amoenum et molle adfluentia putat, nisi quod ei Petronius
adprobavisset ", niente considerava piacevole e raffinato in
quell'abbondanza, se non ciò che Petronio gli avesse approvato, "unde invidia Tigellini quasi adversus
aemulum et scientia voluptatum potiorem "[6],
di qui l'invidia di Tigellino come contro un rivale più capace nella conoscenza
dei piaceri. Tigellino è il famigerato prefetto del pretorio succeduto a Burro
fatto ammazzare da Nerone nel 62 d. C. A lui che cercava accuse di adulterio
contro Ottavia presso le ancelle di lei, una, incalzata, rispose "castiora esse muliebria Octaviae quam os
eius" (Annales, XIV, 60) , che
era più casto il sesso di Ottavia che la sua bocca.
Nell' incipit dell'Agricola lo storiografo afferma che aveva riflettuto sull'invidia
in generale, chiamandola, con l'ignoranza del bene, vizio comune ai piccoli e
ai grandi stati: "vitium parvis
magnisque civitatibus commune ".
Dante individua questo vizio soprattutto nelle
corti: " La meretrice che mai dall'ospizio/di Cesare non torse li occhi
putti, / morte comune, delle corti vizio", [7].
A. Schopenhauer in Parerga e paralipomena dà una definizione efficace di questo
sentimento meschino: " alla gloria dei meriti di alta specie si oppone
l'invidia; l'invidia che vi si oppone fin dai primi passi, perfino quando si
tratta di meriti di infimo grado e non si ritira fino all'ultimo; perciò appunto
l'invidia contribuisce parecchio a peggiorare il corso del mondo, e Ariosto con
ragione definisce la vita come
"questa assai più oscura che
serena/ vita mortal, tutta d'invidia piena"[8].
L'invidia è appunto l'anima
dell'alleanza dovunque fiorente e tacitamente stipulata, senza previa intesa, di
tutti i mediocri contro il singolo individuo eccellente di qualsiasi
specie"[9].
L'invidia di Salieri per il genio di
Mozart è stata resa celebre dal film Amadeus
di Forman. Alle spalle c'è un microdramma di Puskin (1799 - 1837) del quale
cito alcune parole: "Sono invidioso. Invidio; con tormento, /Profondamente,
invidio. O cielo! dunque/Dov'è giustizia, quando il sacro dono, /Quando il
genio immortale non compenso/D'amore ardente, non di dedizione, /
Di sudori, di zelo, è, di preghiere. /Ma
illumina la testa d'un ozioso/
Vagabondo, d'un folle? ... O Mozart, Mozart"[10].
continua
[1] Nell'Ars Amatoria
Ovidio afferma che è proprio l'eleganza a fargli preferire l'età moderna
all'antica, presunta aurea: "prisca
iuvent alios, ego me nunc denique natum/gratulor: haec aetas moribus apta meis" (III, 121 - 122) , i tempi antichi piacciano ad altri, io mi rallegro di
essere nato ora, dopo tutto: questa è l'età adatta ai miei gusti, non perché,
continua il Sulmonese, terre mari e monti sono stati domati dall'uomo, "sed quia cultus adest nec nostros
mansit in annos/rusticitas priscis illa superstes avis " Ars,
III, 127 - 128) , ma perché c'è
eleganza e non è rimasta fino ai nostri anni quella rozzezza sopravvissuta agli
avi antichi.
Un cultus
che include la coltura del corpo e dello spirito.
[2]
Per le Arpie cfr. Apollonio Rodio, Argonautiche, II, 289; poi Virgilio, Eneide,
III, 225 - 258 e Dante, Inferno, XIII, 64 - 66. Per le Erinni cfr. le Eumenidi
di Eschilo, vv. 130 - 132.
[3]
I Guermantes, p. 82.
[4]Una
scheda su questo argomento si trova nel mio Storiografi
Greci.
[5]Plutarco,
Vita di Alcibiade, 13.
[6]Tacito,
Annales, XVI, 18.
[7]Inferno, XIII, vv. 64 - 66.
[8]Orlando furioso, IV, 1.
[9]TomoII,
p. 61O.
[10]Mozart e Salieri.
[11]
L'uomo e il divino, p. 241.
Questo commento è stato eliminato da un amministratore del blog.
RispondiEliminaQuesto commento è stato eliminato da un amministratore del blog.
RispondiEliminaAnche vedere un uomo in certi momenti della giornata effettivamente può far svanire il desiderio...bravo Ovidio che ben consiglia. Giovanna Tocco
RispondiElimina