foto di Fausto |
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L’inverno a Venezia
Il 20 dicembre del 1981 accompagnai a Venezia, per una
mostra dei Manieristi, un gruppo di studenti del liceo Rambaldi di Imola.
Arrivammo all’ora di pranzo che volli saltare per perdere
peso: da quando, finita del tutto l’estate, Ifigenia era andata via, vivevo in
solitudine, senza conforto di donna né calore di sole, e avevo paura di
degradarmi con il cibo.
Infatti avevo già
preso due chili e mezzo che ancora non mi deturpavano, ma erano un preludio
evidente a uno sfacelo non tanto remoto, a una caduta nella deformità deplorata
e colpevole.
Lasciati i ragazzi a un collega volonteroso e famelico,
salii sul ponte di Rialto rischiarato da un sole fioco e bolso come un
lampione.
Nella città “regale e pitocca”[1],
fluivano gli eterni turisti. Sbucavano in fila da calli anguste dove il sole
dicembrino non riesce a mandare mai, o quasi mai, i suoi raggi santi. Usciti
dai cammini stretti e obbligati, questi invasori senz’armi si allargavano in
torme disordinate, svogliate, gelate dall’indifferenza più che dal tetro freddo
invernale.
Saliti sul ponte, facevano fotografie o si mettevano in posa
con qualche sorriso comandato da chi li riprendeva ghignando, sciocco o
demente, o piuttosto astuto e maligno.
“Non c’è cosa più amara”, pensavo, “della gente attuale:
chiassosa o muta, faziosa e superficiale, priva di idèe e di sentimenti
profondi. I loro cattivi maestri sono i politici, le mode, l’istigazione
pubblicitaria a comprare schifezze. Dalla televisione ci intronano le
chiacchiere becere di gente parassitaria, servile, ignorante e maliziosa assai.
Intanto questa larva di sole si piega sui tetti come un
vecchio stremato cade nel suo letto di morte. All’una e ventotto minuti si è
appoggiato sopra un camino. Ancora dipinge di un rosa sporco le pietre
biancastre di questo ponte alto sull’acqua, ma la sponda occidentale del cupo
canale erutta un’umida nebbia nell’ombra della sera precoce”.
Ricordai una gara podistica vinta e trionfata nel luminoso
calore di un’estate lontana quando Ifigenia mi abbracciò piena di gioia per
quel successo che lei mi aveva ispirato, incitandomi come una dea con il suo
eroe preferito. “Noi due siamo i più belli, i più intelligenti, i più forti e i
più innamorati del mondo”, diceva. Poi però la ragazza se n’era andata con il
celebre, vecchio istrione gradasso.
Finita la commemorazione, ripresi a pensare: “Potrei
scoraggiarmi per questa mancanza di luce, calore e bellezza nel mondo, invece
aspetto con fede la resurrezione del sole invitto e di me stesso sferzato dai
raggi del dio intrecciati di fiamme potenti come fruste di fuoco capaci di
risvegliare i sensi assopiti e l’anima stanca. Incontrerò un’altra volta una
giovane donna dal sorriso che scalda e rende fervido il sangue pulsato dal
cuore rinato alla vita. Ne sono sicuro, quasi sicuro”.
Andato alla mostra, vidi figure contorte sotto cieli di nuvole
nere squarciate da lampi oscuri e minacciosi.
Tornato all’aperto, nel crepuscolo tragicamente precoce
osservavo le ragazze, veri gioielli di carne assai più preziosa di ogni pietra
costosa. Le femmine umane, anche se infreddolite, sono capaci di comunicare
calore a chi sa guardarle con simpatia. Pensavo alle loro gambe snelle e
tornite quando si muovono svelte agitando le gonne sul lungomare, ai loro seni,
ai loro grembi odorosi[2] che
corrono giovanilmente sopra i prati fioriti.
Intanto la palla del
sole pur semisgonfia di luce, lasciava lievi segni purpurei sulle penne di
uccelli grigi che si libravano sopra le cupole verdi già quasi sommerse dalle
onde fumose della bruma invernale. Sorridendo al sole moribondo, agli uccelli
dalle ampie ali e alle donne benedette da Dio, presentivo la bella stagione.
Non mancavano più tante ore all’agognato dies
natalis solis invicti.
La sera a Bologna, verso le dieci, telefonò Ifigenia.
p.s.
21 dicembre 2015, ore 10. Sto andando (ancora!) a scuola.
Oggi è di nuovo il dies
natalis solis invicti, appunto. Il primo fra tutti gli dèi, la santa faccia
di luce tornerà presto a scaldarci.
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