Le tre Grazie Napoli, Museo Archeologico |
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I generi
All’elegia si addicono gli amori anche
dissoluti. Ovidio si proclama quasi cantore di prostitute.
Ovidio continua la sua apologia. Ogni
genere ha il suo metro e i suoi argomenti: una cosa è l'epica con le sue guerre
eroiche cantate in esametri; un registro magniloquente ha la tragedia, ai
coturni della quale si addice lo sdegno (Grande
sonant tragici: tragicos decet ira cothurnos, v. 375) ; la commedia tratta
il quotidiano; il giambo, sia quello veloce, sia lo scazonte che allunga
l'ultimo piede[1],
può essere brandito quale arma contro i nemici. L'elegia è un'altra cosa ancora:
"blanda pharetratos elegeia cantet
Amores/et levis arbitrio ludat amica suo " (vv. 379 - 380) , l'elegia
carezzevole canti gli Amori faretrati e l'amica leggera vi giochi a suo
capriccio. La contraddizione e il dolore scoppiano quando ci si innamora della levis amica, dell'adultera, dell'etera, in
genere della donna all'inizio comoda siccome non dà responsabilità: allora le
responsabilità vorremmo prendercele ma quel tipo di donna non si presta e non è
prendibile. Allora l'elegia diventa flebile.
A Omero non si confà Cidippe, all'elegia
non si addice Andromaca ma Taide, e l'arte di Ovidio è quella di Taide: "Thais in arte mea est: lascivia libera
nostra est; /nil mihi cum vitta; Thais in arte mea est " (vv. 385) : Taide
è nella mia arte: la mia dissolutezza è sfrenata, io non ho niente in comune
con le bende sacre: Taide è nella mia arte.
Viene ribadito il nome e la presenza
dell'etera per antonomasia, dopo l'Eunuchus
di Terenzio.
L’invidia
non lo fermerà
Se la sua poesia è conseguente al
proposito e coerente con il genere, l'invidia dovrà crepare: "Rumpere, Livor, edax: magnum iam nomen
habemus; /maius erit, tantum, quo pede coepit, eat " (vv. 389 - 390) ,
crepa invidia vorace, abbiamo già un nome grande; sarà più grande se solo va
avanti col ritmo con cui ha iniziato. - rumpere:
imperativo del passivo mediale rumpor.
- edax: la radice deriva
dall'indoeuropeo *ed - da cui discendono pure il greco [esqivw< *ed - qivw l' italiano
inedia, l'inglese to eat, il tedesco essen.
Altri consigli agli amanti
Il Sulmonese si vanta di essere il
Virgilio dell'elegia, quindi, affermata questa sua preminenza nel genere, riprende
la strada dei consigli per salvarsi dalla tirannide dell'amore (vv. 395 - 398)
. Il primo precetto del ciclo scabroso è stravagante, bizzarro e poco
condivisibile: prima di incontrare la tua signora vai con un'altra: "gaudia ne dominae, pleno si corpore sumes, /
te capiant, ineas quamlibet ante velim; /quamlibet invenias, in qua tua prima
voluptas /desinat; a prima proxima segnis erit " (vv. 401 - 404) , per
evitare che il piacere della tua donna ti afferri se lo prenderai con tutte le
forze, vorrei che prima tu entrassi in un'altra qualsiasi; trovane una
qualunque in cui il tuo primo piacere si sfoghi; dopo il primo, il successivo
sarà fiacco. - a prima: sottintende voluptate.
E' un consiglio non solo immorale ma
anche grossolanamente sbagliato: la donna è attirata dal desiderio dell'uomo, se
non prova una ripugnanza iniziale per lui.
La scarsa potenza certamente non la
lusinga, e l'impotenza la disgusta, la fa andare via. Quindi il consiglio può
essere valido per allontanare una donna, non certo per evitare di amarla, se è
vero che in questa partita a scacchi amiamo chi fugge.
Il tema dell'impotenza e quello del
piacere. Un assaggio di Satyricon con
una briciola di Epicuro
Restando nel campo della letteratura si
può pensare alla Circe del Satyricon la
quale, il giorno dopo avere sofferto l'offesa dell'impotenza sessuale di
Encolpio, " hesternae scilicet
iniuriae memor ", evidentemente ricordandosi l'affronto del giorno
prima, cerca di umiliarlo a sua volta dicendogli: "quid est - inquit - paralytice? ecquid hodie totus venisti? "
(131) , come va paralitico? forse che oggi sei venuto tutto intero?
Rinnovatosi l'affronto, la donna fece
fustigare Encolpio - Polieno il quale poi a sua volta rivolge un'invettiva al
pene disertore: " erectus igitur in
cubitum hac fere oratione contumacem vexavi" quid dicis - inquam - omnium
hominum deorumque pudor? nam nec nominare quidem te inter res serias fas est"
(132) , drizzatomi quindi sul gomito, maltrattai il renitente più o meno con
questo discorso: "cosa dici - faccio - vergogna degli uomini e degli dèi? infatti
non è possibile nemmeno nominarti tra le cose serie".
Segue un attimo di pentimento per avere
litigato con quella parte del corpo che nemmeno si dovrebbe menzionare, quindi
Encolpio, soprannominato Polieno, come Odisseo dalle Sirene, si giustifica
ricordando Ulisse appunto, nonché Edipo: "quid? non et Ulixes cum corde litigat suo, et quidam tragici oculos
suos tamquam audientes castigant? ", e che? Ulisse non litiga con il
suo cuore [2] e certi personaggi della tragedia non sgridano
i propri occhi come se li ascoltassero? Di conseguenza "podagrici pedibus suis male dicunt, chiragrici
manibus, lippi oculis, et qui offenderunt saepe digitos, quicquid doloris
habent, in pedes deferunt ", i podagrosi insultano i loro piedi, i
malati di chiragra le mani, i cisposi gli occhi, e quelli che hanno urtato
spesso le dita, attribuiscono ai piedi tutti i dolori che hanno.
Seguono quattro distici elegiaci con
l'apologia dell'argomento scabroso che abbiamo già visto in Catullo, Ovidio e
Marziale: "quid me constricta
spectatis fronte Catones, /damnatisque novae simplicitatis opus? /sermonis puri
non tristis gratia ridet, /qodque facit populus, candida lingua refert. /nam
quis concubitus, Veneris quis gaudia nescit? /quis vetat in tepido membra
calere toro? /ipse pater veri doctus Epicurus in arte/iussit et hoc vitam dixit
habere tevlo" " (Satyricon, 132) , perché mi guardate con
la fronte corrugata, Catoni, e condannate un'opera di schiettezza inaudita? Qui
ride il fascino non accigliato di uno stile pulito, e una lingua semplice riporta
i fatti del popolo. Infatti chi ignora gli accoppiamenti, chi le gioie di
Venere? chi vieta che le membra ardano in un letto tiepido? Lo stesso dotto
Epicuro padre della verità nella sua filosofia lo ha insegnato e ha detto che
la vita ha questo scopo.
-
constricta... fronte Catones: è il
motivo già catulliano del rumoresque
senum severiorum/omnes unius aestimemus assis " (5, 2 - 3) , le
maldicenze dei vecchi troppo seri valutiamole tutte un soldo soltanto Che poi, in rebus gestis, significa: "Vivamus
mea Lesbia atque amemus " (5, 1) , prendiamoci la vita, mia Lesbia e
facciamo l'amore.
Il tovpo" si trova anche in Seneca: istos tristes et supercilios alienae vitae
censores, suae hostes, publicos paedagogos, assis ne feceris (Ep. 123, 11)
, questi austeri e accigliati censori della vita altrui, nemici della propria, questi
pubblici pedagoghi non stimarli un soldo.
-
novae simplicitatis: in letteratura
la simplicitas è un predicato della
nobiltà. - gratia: il fascino dello
stile, sia nello scrivere sia nell'agire sta nella schiettezza e nella mancanza
di affettazione che è predicato della volgarità.
-
quodque facit populus (...) refert: c'è una bella espressione di
Tucidide che mette in rilievo questa equivalenza delle parole e delle azioni
riferite dalle parole ed è ta; e[rga tw'n pracqevntwn (I, 22, 2) , tra gli eventi bellici[3] le azioni: "La mentalità greca arcaica - scrive
Canfora - pone sullo stesso piano la parola e l'azione. Tale modo di concepire
la parola come "fatto" è vivo anche nella tradizione storiografica, che
rivela, anche in questo, la propria matrice epica. Vi è un assai noto passo di
Tucidide, dove lo storico, nel descrivere il proprio lavoro e la materia
trattata, adopera un'espressione quasi intraducibile: ta; e[rga tw'n
pracqevntwn
(I 22 2) . Si dovrebbe tradurre "i fatti dei fatti", che in italiano
non dà senso... Lì vi è invece una distinzione: la categoria generale degli
"eventi" (ta; pracqevnta) comprende sia le "azioni" (e[rga) che le
"parole" (lovgoi) , delle quali si è appena detto nel periodo precedente...
La parola infatti - scriverà secoli dopo Diodoro - la parola retoricamente
organizzata, è l'elemento che distingue gli inciviliti dai selvatici, i Greci
dai barbari. "[4].
-
tevlo": Epicuro stesso
spiega il significato di questo scopo che è il piacere: non quello dei
dissoluti che sempre giacciono nel godimento, come ritengono alcuni che
fraintendono la dottrina, ma "to; mhvte ajlgei'n kata; sw'ma mhvte taravttesqai kata; yuchvn" (Epistola a Meneceo, 131) , non soffrire
nel corpo e non essere turbati nell'anima. Questa vita piacevole in effetti non
è generata da banchetti né da godimenti di fanciulli, di donne, di pesci ma da
un nhvfwn
logismov"
(132) , un calcolo lucido che indaghi le cause ed elimini le false opinioni ed ogni
motivo di turbamento.
A proposito delle voluttà culinarie, di
quelle provenienti dalle mangiate di pesce in particolare, si esprime
negativamente anche H. Hesse: Boccadoro camminando a zonzo per la città vide
dei pescivendoli che offrivano la loro merce e prova "una viva compassione
per quelle bestie e una triste indignazione contro gli uomini…perché non
vedevano quella tremenda lotta disperata e vana, quell'insopportabile
trasformazione dei misteriosi animali così meravigliosamente belli, che
rabbrividivano nell'ultimo lieve tremito sulla pelle morente e poi giacevano
morti e spenti, lunghi e tirati, miseri pezzi di carne per la tavola del
ghiottone soddisfatto? " Il giovane artista sentiva "l'amore
opprimente e senza speranza per i pesci moribondi, per i fiori che appassiscono,
l'orrore per il quieto vivere degli uomini, sozzo ed ottuso, per il loro stare
a bocca aperta e non vedere"[5].
La
conclusione del capitolo (132) del Satyricon
è "nihil est hominum inepta
persuasione falsius nec ficta severitate ineptius ", niente è più
falso di una convinzione stupida, né più stupido di una severità falsa.
Torniamo ai Remedia
Ovidio poi supera del tutto la barriera
del pudore ("et pudet et dicam
", v. 407, mi vergogno eppure lo dirò) e suggerisce al lettore - discepolo
un'altra stravaganza sessuale: aggancia la donna nella posizione che pensi meno
si addica alla donna. Non è difficile ottenerlo poiché le femmine sono disposte
a qualsiasi indecenza. E prosegue: "Tunc
etiam iubeo totas aperire fenestras/turpiaque admisso membra notare die
" (vv. 411 - 412) , ti consiglio anche di spalancare le finestre e di
osservare in piena luce le parti sconce.
Il protagonista de Il fuoco, l'imaginifico Stelio Effrena anticipa con il pensiero la
visione cruda, quasi ripugnante, dell'attempata attrice Foscarina messa a
confronto con la giovane cantante Donatella Arvale: " Ed egli, con una
strana angoscia su cui passava quasi un'ombra di orrore, evocò l'immagine
dell'altra: - avvelenata dall'arte, carica di sapere voluttuoso, col gusto
della maturità e della corruzione nella bocca eloquente, con l'aridezza della
vana febbre nelle mani che avevano spremuto il succo dei frutti ingannevoli, con
i vestigi di cento maschere sul viso che aveva simulato il furore delle
passioni mortali. In quella notte alfine, dopo il lungo desiderio intermesso, egli
doveva ricevere il dono di quel corpo non più giovane, ammollito da tutte le
carezze e rimasto ancora sconosciuto per lui"[6].
La somma di questi consigli maligni porterà
alla demolizione della "nemica". Serve comunque a disamorarsi, vedere
le brutture della donna, fino alle estreme, quasi irriferibili, a detta del
maestro Ovidio il quale prosegue con tale precettistica: quando poi il piacere
è giunto alla meta, quando l'amante ti pesa al punto che vorresti non avere mai
toccato una donna e ti sembra che non ne toccherai più: "tunc animo signa, quodcumque in corpore
mendum est, /luminaque in vitiis illius usque tene " (vv. 417 - 418) ,
allora imprimiti nell'animo ogni difetto che c'è nel corpo, tieni continuamente
lo sguardo fisso nelle sue imperfezioni.
Meglio
due o più amanti che una sola
Segue il consiglio, già presente in
Meleagro (II - I sec. a. C.) , di non limitarsi a una sola amante.
In un epigramma il poeta consiglia a Filocle di
averne otto nello stesso momento così da poter fare un'insalata di ragazzi (ajrtuvsei~ paivdwn lopavda) Antologia
Palatina, XII, 95) . Cfr. Svevo in La
coscienza di Zeno: un’amante in due è meno compromettente.
Ma il tema della pluralità delle amanti
è sviluppato meglio da Properzio[7] che, in II, 22 si giustifica per essere un
uomo mollis in omnes (v. 13) , tenero
con tutte le donne.
La natura ha assegnato a ciascuno un suo
difetto, afferma: "mi fortuna
aliquid semper amare dedit" (18) , a me la sorte ha dato quello di
amare sempre e non sarò mai cieco davanti alle belle, o invidioso: "numquam ad formosas, invide, caecus ero"
(v. 20) . Dalla giustificazione dunque il poeta è passato alla rivendicazione: chi
lo biasima lo fa per invidia. E chi sostiene che fare molto l'amore indebolisce,
non se ne intende: "nullus amor
vires eripit ipse suas" (28) , nessun amore di per sé toglie le forze.
Parole sante e autorizzate da exempla:
Giove giacque con Alcmena per due notti, "nec tamen idcirco languens ad fulmina venit" (27) , né
tuttavia per questo tornò languido ai suoi fulmini. E' un bell'ossimoro
concettuale languens ad fulmina che
accosta, negandola, la fiacchezza moscia dell'uomo scarico alla potenza
infuocata e diritta del fulmen come
simbolo fallico. Ugualmente Achille ed Ettore non si afflosciavano dopo i
convegni amorosi con Briseide e Andromaca, anzi, avrebbero potuto distruggere
questo la flotta, quello le mura. Properzio è come il Pelide e il fiero Ettore.
Anzi è come il cielo che ha bisogno della luce solare e di quella lunare: "sic etiam nobis una puella parum est"
(36) , così anche per me una ragazza non è abbastanza. E' più piacevole e più
sicuro averne due: "nam melius duo
defendunt retinacula navim, /tutius et geminos anxia mater alit" (41 -
42) , infatti due ormeggi assicurano meglio la nave e una madre ansiosa alleva
con maggior sicurezza due figli.
Che l'amore per le donne, per
tutte le donne, sia in ogni caso sano e vitale lo leggiamo in una delle ultime
pagine di La coscienza di Zeno, una
pagina chiave, tra le più dense di significato: "In mezzo a quel verde
rilevato tanto deliziosamente da quegli sprazzi di sole, seppi sorridere alla
mia vita ed anche alla mia malattia. La donna vi ebbe un'importanza enorme. Magari
a pezzi, i suoi piedini, la sua cintura, la sua bocca, riempirono i miei giorni.
E rivedendo la mia vita e anche la mia malattia le amai, le intesi! Com'era
stata più bella la mia vita che non quella dei cosiddetti sani, coloro che
picchiavano e avrebbero voluto picchiare la loro donna ogni giorno salvo in
certi momenti. Io, invece, ero stato accompagnato sempre dall'amore. Quando non
avevo pensato alla mia donna, vi avevo pensato ancora per farmi perdonare che
pensavo anche alle altre. Gli altri abbandonavano la donna delusi e disperando
della vita. Da me la vita non fu mai privata del desiderio e l'illusione
rinacque subito intera dopo ogni naufragio, nel sogno di membra, di voci, di
atteggiamenti più perfetti"[8].
continua
[1]
Sostituendolo con un trocheo o uno spondeo.
[2]Odissea, XX, 17 sgg.
[3]
Poco sopra l'autore tra gli
eventi aveva considerato i lovgoi, i discorsi.
[4]L.
Canfora, L'agorà: il discorso suasorio in Lo
spazio letterario della Grecia antica, I, 1, p. 385.
[5]
Narciso e Boccadoro, p. 263.
[6]
G. D'Annunzio, Il fuoco, p. 108.
[7]
Del quale pure abbiamo letto dichiarazioni di fedeltà oltre la vita.
[8]
Svevo, La coscienza di Zeno, p. 461.
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