i libri sulla mia scrivania foto di Polina Oshmianskaya |
La telefonata del 20 dicembre 1981 a Bologna e la Debrecen del 1979
Appena ebbi sentito la sua voce e il suo nome, mi tornò in
mente il giorno buio e nevoso di fine novembre del ’78, quando Ifigenia bussò
alla mia porta, del tutto inopinata, e subito dopo mi apparve piena di luce,
come un meriggio privo di nuvole
all’inizio dell’estate completamente nuda e felice.
Ma il 20 dicembre dell’81 quando la giovane donna cominciò
a parlare dopo un mese e mezzo di silenzio, sentii parole oscure e contorte per
equivocazioni e contraddizioni continue.
Con il tanghero del quale si era invaghita non aveva
raccapezzato una relazione soddisfacente. L’amico drogato non aveva potuto
salvarlo. Nei bassifondi dell’Accademia aveva conosciuto un sedicente
studioso heideggeriano che l’aveva
convinta della totale insignificanza dell’Universo. Tutto questo era avvenuto
perché lei aveva sentito l’incoercibile necessità di conoscere il mondo vivo e
moderno, che frequentando me, fanaticamente innamorato dei classici, aveva dovuto ignorare, costretta com’era a tenere la testa
girata all’indietro, rivolta sempre verso il colombario scalcinato dei Greci e
il loro idioma peggio che sepolcrale. Le erano venuti nausea e torcicollo.
Infine disse di avere deciso di rinunciare all’amore, la
tipica superstizione e frustrazione possessiva di quanti non sanno affrontare
la vita da soli con la mente libera e il cuore sgombro da tali cianfrusaglie
care ai pezzenti, ai mendicanti dei sentimenti. Lei, da quella grande signora
qual era, si sentiva emancipata da
questo empio culto del nulla che tanti danni e malanni aveva seminato nel mondo
intero e nella vita sua: tantum religio
potuit suadere malorum, arrivò a rinfacciarmi. Né si peritò di citare
Turgenev che pure le avevo insegnato io: l’amore “è romanticismo, bazzecole,
marciume”[1]. “E
brava la nichilista postepicurea!”, pensai
Aveva parlato con un tono aggressivo rinfacciandomi diversi
misfatti, mentre ero assai stanco della faticosa giornata, non conclusa
oltretutto, poiché dovevo rileggermi La
nascita della tragedia per raccontarla ai miei allievi con precisione,
forza e brevità, e non avevo ancora
mangiato.
Sicché le chiesi: “In conclusione perché mi hai telefonato e
che cosa vuoi tu da me?”
Allora Ifigenia, cambiato tono, mi domandò cosa pensassi
della sua situazione.
Le risposi sinceramente che la consideravo un’infelice
siccome in balia di chiunque le sapesse scrostare le cicatrici dell’anima, per
poi inebriarsi stuzzicandone le piaghe molli e sanguinose e lambendole con
voluttà canina. Era già tempo che arrivasse a capire chi fosse, e quale meta
volesse raggiungere.
Superati oramai i ventotto anni, non poteva più restare in
balia di pulsioni caotiche e sconclusionate, assaggiando di tutto con labbra
frenetiche, senza discernimento di quanto le si confaceva, mentre la prima
gioventù, l’età più proficua per le creature carnali e telluriche, cominciava a
declinare come il sole nella seconda metà del mese di luglio, ancora caldo ma
già meno brillante e alto nel cielo. Conclusi dicendole che a parer mio quello
che le mancava davvero era un palcoscenico, un cerchio di legno[2] dove
stipare tutte le farse della sua vita, rappresentare ogni volta una parte, come
faceva nei corridoi del Minghetti, giovanissima e bella supplente, utilizzando
me, docente già consumato, quale spalla sinistra, slogata per giunta dai colpi
che lei stessa mi dava, o quale misero servo di scena.
Ma adesso è già tempo di tornare all’anno di mia redenzione
1979 quando Ifigenia ancora l’amavo sperando di esserne contraccambiato.
Partii da Bologna con Alfredo domenica 22 luglio. Arrivammo
a Debrecen con una sola giornata di viaggio: conoscevo molto bene la strada,
come puoi immaginare, caro lettore. La
sera del 23 c’era la festa della conoscenza, quella che negli anni passati mi
era servita a incontrare la donna con la quale nel mese successivo avrei
scambiato piacere, amore e un qualche sapere, conseguendo comunque sempre un
ampliamento della necessaria autocoscienza. Tra le altre avevo incontrato, una
per anno, le tre finlandesi Helena, Kaisa, Päivi, le donne più importanti della
mia vita, se non altro perché non mi hanno usato più di quanto io abbia fatto
con loro. Tali Grazie e principali Muse mi hanno ispirato le storie d’amore che
forse tu hai già apprezzato lettore di questo blog.
Noto con soddisfazione che, apparse tanto tempo fa,
continuano a essere lette. Vuol dire che sono favole belle, e non soltanto per
me.
Nel luglio del 1979 dunque non cercavo l’amore e nemmeno
un’avventura, ma le ragazze le osservavo
comunque. Tra le altre notai una bionda dai lunghi capelli che le ondeggiavano
sopra le spalle a ogni mossa della testa. Questa ad un tratto si volse nella
mia direzione. L’aurichiomata aveva la carnagione chiara e gli occhi celesti:
come si accorse che la guardavo e non levavo gli occhi da lei, protese verso di
me la mano destra che stringeva un bicchiere pieno di “sangue di toro”[3]
brillante come un rubino, in segno di brindisi credo, e mi accarezzò il volto abbronzato con uno sguardo carico di
simpatia femminile. “Ecco di nuovo l’eterno, vivacizzante richiamo dei sessi!”,
pensai ancora una volta. Del resto nemmeno il pelo avevo perduto grazie a Dio
che tutto vede e sa tutto.
Senza indugio ricambiai con piacere il simpatico gesto. Ci
guardavamo da un tavolo all’altro. Io ero ancora intruppato con gli Italiani,
lei sembrava tedesca tra altri Tedeschi. Dovevo essere in ottima forma: i mesi
della cura amorosa prestatami da Ifigenia mi avevano fatto un gran bene
rendendomi più sano, più bello di corpo e più forte di mente. Nel bicchiere
avevo messo dell’acqua, ottima[4] tra
tutte le bevande, terapeutica più di ogni farmaco, molto utile e umile e
preziosa e casta[5] e così via.
In ogni caso, che mi astenessi dall’alcol era uno dei segni
della catarsi cui la splendidissima mi aveva avviato. Il proposito di rimanerle
fedele perfino a Debrecen, con il senno del poi era follia pura, da manicomio,
ma quella sera di luglio mi infondeva una calma interiore che, trapelando, mi
faceva apparire misurato nei gesti, equilibrato, sicuro e perciò più piacente.
Un amore vero o presunto, comunque sentito, tra gli altri vantaggi ha pure
quello, tutt’altro che trascurabile, di imbellire gli amanti. Dopo la festa
pomeridiana, calando la sera, andai a sedermi in una rientranza della facciata
dell’edificio universitario, una specie di nicchia con una panchina di pietra.
La fontana antistante, mentre verso le otto e mezza precipitava la notte, e i
borsisti continuavano a uscire dal grande cortile interno, si accese di luci
multicolori che resero i vigorosi zampilli simili, in piccolo, ai fuochi
d’artificio lanciati per la festa solenne del 20 agosto a illuminare il grande
scenario di Buda e di Pest, al di qua e al di là del Danubio.
Allora mi venne in mente una fantasticheria del dicembre del
’68 lontano: avevo 24 anni, scrivevo dalla mattina a tarda notte, senza vedere
nessuno, per finire la tesi di laurea e consegnarla prima dello scadere dei
termini, prossimi ormai, al segretario iracondo della mia facoltà.
continua
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