Pablo Picasso, Donna piangente |
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Adesso però è già tempo di tornare ai Remedia Amoris.
E'
bene dunque evitare i luoghi isolati poiché questi incrementano la furia
amorosa: "augent secreta furores"
(v. 581); dopo l'esempio di Fillide, devono temere le solitudini tanto gli
uomini feriti dalle padrone dei loro cuori, quanto le ragazze ferite dagli
uomini: "Phyllidis exemplo nimium
secreta timete, /laese vir a domina, laesa puella a viro" (vv. 607 - 608)
. Un'altra cosa da evitare è il contagio amoroso: "facito contagia vites" (v. 613) . L'imperativo futuro
conferisce una sanzione legale alla prescrizione. Proust userà la metafora del "bacillo
virgola".
Per quanto riguarda l'amore come malattia dalla quale non
possiamo liberarci con la volontà sono degne di nota queste considerazioni sulla
mania di Swann, un ricchissimo
colto, elegante signore ebreo innamorato di una cocotte, oltretutto senza
esserne contraccambiato e con un'ossessione che rendeva il pover'uomo infelice
fino al desiderio di morire: ebbene chi notava la sproporzione tra i due e la
follia di quel sentimento parlava "con la saggezza di chi non è innamorato,
che pensa che un uomo d'ingegno non dovrebbe essere infelice se non per una
persona che ne mettesse conto; all'incirca è come stupire che ci si degni di
soffrire del colera per opera d'un essere così piccolo come il bacillo
virgola"[1].
L'amore di Swann per Odette ha qualche
cosa di malato dall'inizio alla fine.
La prima volta che si
videro "ella era apparsa a Swann non senza bellezza certo, ma di un tipo
di bellezza che gli era indifferente, che non gl'ispirava nessun desiderio, che
gli dava anzi una specie di repulsione fisica" (p. 209) . Alla fine della
morbo amoroso, come svegliatosi da un'operazione, Swann penserà" E dire
che ho perduto tanti anni della mia vita, che ho voluto morire, che ho avuto il
mio più grande amore, per una donna che non mi piaceva, che non era il mio
tipo" (p. 403) . La similitudine medico - chirurgica mi è stata suggerita
dallo stesso testo di Proust: "E questa malattia ch'era l'amore di Swann
s'era così moltiplicata, era avvinta così strettamente ad ogni consuetudine di
lui, ad ogni suo atto, alla sua mente, alla sua salute, al suo sonno, alla sua
esistenza, perfino a ciò ch'egli desiderava dopo la morte, aveva finito ormai
col formare una cosa sola con lui a tal punto che non sarebbe stato possibile
strappargliela senza distruggere lui stesso quasi per intero: come si dice in
chirurgia, il suo amore non era più
"operabile" (p. 327) .
Questa espressione si può accostare a una concettualmente
analoga di Petronio: "sed antiquus
amor " (Satyricon 42, 7) , ma
un amore vecchio è un cancro.
Ebbene secondo Ovidio il germe patogeno
può essere preso anche dal contatto con altri innamorati. Per argomentare
questa tesi il poeta fa seguire un verso che rivela come l'amore di cui egli
tratta è solo corporale e quindi i suoi precetti servano probabilmente a
evitare quella "ossessione carnale" che Benedetto Croce trovava in
D'Annunzio: "haec etiam pecori saepe
nocere solent" (v. 614) , questo (cioè contagia del v. 613) suole nuocere anche al bestiame. Ma
soprattutto bisogna evitare la vicinanza della domina, altrimenti succederà come a un tale che sembrava guarito: "vulnus in antiquum rediit mala firma
cicatrix/successumque artes non habuere meae " (v. 623 - 624) , la
cicatrice poco solida tornò all'antica ferita e le mie arti non ebbero successo.
Il maestro d'amore si comporta come un medico che rimprovera il paziente poiché
questo non ha seguito le sue prescrizioni.
Poi torna l'assimilazione dell'uomo innamorato
all'animale in foia: "non facile est
taurum visa retinere iuvenca; /fortis equus visae semper adhinnit equae"
(vv. 633 - 634) , non è facile trattenere il toro quando ha visto una giovenca;
il cavallo vigoroso nitrisce sempre verso la cavalla vista.
E'
il tema dell'amor omnibus idem, (Virgilio,
Georgica III, 244) e, forse, nel
nitrito quasi automatico del cavallo eccitato, c’è il ricordo dell'episodio
erodoteo (III, 86) della conquista del regno persiano da parte di Dario il cui
cavallo nitrì (ejcremevtise) per primo
avendo sentito l’odore della cavalla che gli avevano fatto montare la sera
prima in quel sobborgo dove sarebbero passati i sei pretendenti al trono che
sarebbe andato a quello appunto sul cavallo che avesse nitrito per primo
Insomma se vuoi emanciparti dalla domina, evita tutto quello che te la fa
venire in mente. Non nominarla nemmeno per dire che non l'ami più: "et malim taceas quam te desisse loquaris; /qui
nimium multis "non amo" dicit, amat" (vv. 647 - 648) , preferirei
che tu tacessi piuttosto che dire di avere smesso; chi a troppa gente dice
"non amo", ama. Questo è uno dei loci
della poesia amorosa risalente a Catullo: "verbosa gaudet Venus loquella" (55, 20) , Venere gode di un
parlare prolisso. Parlare spesso di una persona, perfino farlo in maniera
ingiuriosa è, infatti, segno d'amore: "irata
est; hoc est, uritur et loquitur" (Catullo, 83, 6) , ce l'ha con me; cioè
brucia e parla.
L'amore insomma deve finire per
esaurimento, a poco a poco (paulatim,
Remedia Amoris, 649) : "lente desine, tutus eris" (650) , smetti
lentamente, sarai salvo. Seguono versi (655 - 658) che abbiamo già citato a
proposito della non opportunità di odiare chi pure amiamo o abbiamo amato: questa
è cosa scellerata (scelus, v. 655) , brutta
e vergognosa: " turpe vir et mulier,
iuncti modo, protinus hostes" (v. 659) , è indecente che un uomo e una
donna, fino a poco prima uniti, subito dopo divengano nemici.
Così il misei'n - filei'n viene rifiutato non solo
sincronicamente ma anche in una successione di momenti diversi. Oltre essere
turpe questo odi et amo non è
produttivo, e non è indicativo di emancipazione dall'amore: "Saepe reas faciunt et amant" (v. 661)
, spesso le accusano e amano. Senza contare le relazioni e i matrimoni che
finiscono in tribunale con danni di tutti i generi: "Tutius est aptumque magis discedere pace/nec petere a thalamis
litigiosa fora. /Munera, quae dederas, habeat sine lite iubeto; /esse solent
magno damna minora bono" (vv. 669 - 672) , è più sicuro e più
conveniente separarsi in pace, e non passare dal talamo ai processi del foro. I
doni che le avevi fatto, lascia che se li tenga senza contesa; di solito le
perdite sono inferiori a un bene grande. Che è poi quello di evitare giudici e
avvocati il cui motto è da sempre: "dum
pendet, rendet ". Bisogna imparare a diventare indifferenti agli
artifici, alle lusinghe, alle speranze cui siamo sensibili poiché piacciamo a
noi stessi: "Desinimus tarde, quia
nos speramus amari; / dum sibi quisque placet, credula turba sumus " (vv.
685 - 686) , smettiamo tardi poiché speriamo di essere amati; finché ciascuno
di noi piace a se stesso, siamo una massa di creduloni.
Su questo punto voglio confutare Ovidio.
Piacere a se stessi non è un male ma un bene.
Con parole mie posso dire che se uno non piace
a se stesso non solo non può piacere agli altri, ma nemmeno gli altri possono
piacergli. Aggiungo, guidato da W. Jaeger, che Aristotele, nell'Etica Nicomachea, (IX 8) esprime un alto
apprezzamento della filautiva, cioè dell'amore di sé che non è triviale egoismo, al
contrario. "Le parole stesse d'Aristotele c'insegnano senza equivoco
possibile ch'egli ha invece l'occhio rivolto anzitutto, per l'appunto, ad atti
del più eccelso eroismo morale: chi ama se stesso deve essere instancabile
nell'adoprarsi in pro degli amici, sacrificarsi per la patria, cedere
volonteroso denaro, beni ed onore "facendo suo il Bello in se
stesso…Invero vivere breve tempo in somma gioia sarà preferito, da chi sia
animato da tale amor di sé, ad una lunga esistenza in pigra quiete. Egli vivrà
piuttosto un anno solo per uno scopo elevato, che non condurre una lunga vita
per nulla. Compirà piuttosto un'unica magnifica e grande azione, che non molte
insignificanti"[2].
In queste parole è espressa la fondamentale concezione della vita dei Greci, nella
quale ci sentiamo loro affini d'indole e di razza: l'eroismo"[3].
H. Hesse nella Prefazione a Il lupo della steppa (del 1927) sostiene
che l'amor proprio è collegato all'amore del prossimo: "per tutta la vita
dimostrò con l'esempio che senza amare se stessi non è possibile neanche amare
il prossimo, che l'odio di sé è identico al gretto egoismo e produce infine il
medesimo orribile isolamento, la medesima disperazione" (p. 65) .
Le lacrime insidiose delle donne. Il
piacere delle lacrime.
Un'altra insidia da cui dobbiamo
guardarci secondo Ovidio è quella delle lacrime femminili: "Neve puellarum lacrimis moveare caveto; /ut
flerent, oculos erudiere suos" (vv. 689 - 690) , e bada di non farti
commuovere dalle lacrime delle ragazze; hanno ammaestrato i loro occhi a
piangere (moveare=movearis, erudiere=erudierunt)
.
E' questo un altro luogo comune della
diffidenza verso le donne.
Lo troviamo nell'Aiace di Sofocle in bocca al protagonista che respinge le suppliche
lacrimose di Tecmessa dicendole di chidere la tenda e di non restare a piangere
davanti alla soglia: la donna è molto incline alle lacrime (kavrta toi
filoivktiston gunhv, v. 580) . Del resto la schiava amante gli aveva chiesto
di ricordare le gioie ricevute da lei invece di uccidersi tenendo presenti solo
i fatti negativi. E la donna, secondo Tacito, può permettersi di piangere, l'uomo
non può non ricordare: " Feminis
lugere honestum est, viris meminisse "[4],
per le donne è bello piangere, per gli uomini ricordare.
Ritroviamo il locus nel Coriolano di
Shakespeare quando Tullo Aufidio, comandante dei Volsci, dice: " Per
qualche goccia di lacrime di donna che sono a buon mercato come le bugie, egli
ha venduto il sangue e la fatica della nostra grande impresa. Perciò deve
morire" (V, 6) .
Eppure le lacrime vanno rivalutate
poiché testimoniano, al pari dei sorrisi, dell'unità del genere umano: "l'unità
cerebrale dell' Homo sapiens si
manifesta nell'organizzazione del suo cervello, unico in rapporto agli altri
primati; c'è infine un'unità psicologica e affettiva: certo, le risa, le
lacrime, i sorrisi sono modulati diversamente, inibiti o esibiti a seconda
delle culture, ma, malgrado l'estrema diversità di queste culture e dei modelli
di personalità imposti, risa, lacrime, sorrisi sono universali e il loro
carattere innato si manifesta nei sordo - muti - ciechi dalla nascita, che
sorridono e piangono senza aver potuto imitare nessuno"[5].
Le lacrime manifestano commozione e la creano.
Alcuni autori hanno simpatia per le lacrime: Euripide è stimolato a comporre
dal carattere patetico del soggetto: al drammaturgo ateniese, come a Virgilio[6], interessano
le situazioni che grondano pianto. Il piangere, come scarso controllo delle
situazioni, come uscita dalla realtà, può essere consolatorio: "come sono
dolci le lacrime per quelli che vivono male (wJ" hJdu; davkrua toi'" kakw'"
pepragovsi)
/e i lamenti dei pianti e una musa che narri il dolore " afferma il coro
delle Troiane (vv. 608 - 609) .
La razionalità viene sopraffatta dal
patetico e dal pianto che può essere pure piacevole: "avanti, ridesta lo
stesso lamento/solleva il piacere che viene dalle molte lacrime (a[nage poluvdakrun
aJdonavn)
", si esorta Elettra nella tragedia euripidea di cui è eponima (vv. 125 - 126)
.
Nell'Elena,
Menelao che ha ritrovato Elena dichiara il suo amore e la sua felicità con il
pianto: "le mie lacrime sono motivo di gioia: hanno più/dolcezza che
dolore" (654 - 655) .
La confusione e la mescolanza dei
sentimenti, la voluttà delle lacrime è reperibile pure in D'Annunzio: Tullio
Hermil, ebbro di sentimenti buoni e amorosi per Giuliana prima di scoprirla
impura, ne beve le lacrime con felice voluttà: " - Oh, lasciami bere - io
pregai. E, rilevandomi, accostai le mie labbra ai suoi cigli, le bagnai nel suo
pianto"[7].
Il pentametro del distico successivo dei
Remedia Amoris ricorda un'immagine
dell' Edipo a Colono: "Artibus innumeris mens oppugnatur amantum, /ut
lapis aequoreis undique pulsus aquis" (vv. 691 - 692) , l'animo di chi
ama è assalito da innumerevoli artifici, come uno scoglio battuto da tutte le
parti dalle onde marine. Nel III Stasimo dell'ultima tragedia di Sofocle, il
coro, dopo un'affermazione di sapienza silenica con relativo rifiuto di tutta
la vita e della vecchiaia in particolare, paragona l'anziano profugo cieco
colpito da sciagure terribili a una scogliera boreale che d’inverno viene battuta
e percossa dalle onde da tutte le parti ("pavntoqen bovreio" w{", ti" ajkta;
- kumatoplh; x ceimeriva klonei''''tai" Edipo a Colono, 1240 - 1241) .
Segue il consiglio del silenzio: "Qui silet, est firmus; qui dicit multa
puellae/probra, satisfieri postulat ille sibi" (697 - 698) , chi tace
è saldo; chi muove molti rimproveri alla sua fanciulla, pretende
giustificazioni. Nell'amore l'unica giustificazione è l'amore stesso e la
medesima cosa si può dire per il non amore.
Evitare gli scripta
Bisogna evitare tutte le occasioni di ricaduta:
non rileggere le lettere: "scripta
cave relegas blandae servata puellae; /constantis animos scripta relecta movent"
(717 - 718) , guardati dal rileggere gli scritti messi da parte della ragazza
quando era carezzevole; gli scritti riletti commuovono anche animi forti. Infatti
gli scritti del passato esprimono stati d'animo passati. Ovviamente constantis=constantes.
Segue un'immagine che potremmo definire
"protobarocca" poiché Ovidio consiglia di fare bruciare l'ardore
amoroso interno da un fuoco divoratore esterno che brucia gli scripta della ragazza: "Omnia pone feros - pones invitus - in
ignes/et dic "Ardoris sit rogus iste mei" (vv. 719 - 720) , getta
tutto nel fuoco divampante, lo getterai contro voglia, e di': "questo sia
il rogo del mio ardore.
Per rendere più concreta
l'immagine e spiegare che non è impossibile buttare nelle fiamme una parte di
se stessi, Ovidio ricorre a un esempio mitico: quello di Altea la quale gettò
nel fuoco la vita del proprio figliolo Meleagro, ossia un tizzone spento dalla
cui conservazione dipendeva il proseguimento della vita del giovane che aveva
fatto infuriare la madre uccidendone il fratello. Una specie di contaminatio tra Medea e Antigone.
continua
[1]La strada di Swann, p. 363.
[2]
Etica Nicomachea, IX, 8, 1169a 18 ss.
[3]
W. Jaeger, Paideia, 1, p. 47.
[4] Germania
(27, 1) .
[5]
E. Morin, op. cit., p. 74.
[6]
Cfr.: "sunt lacrimae rerum et mentem mortalia tangunt" (Eneide,
I, 462) , ci sono lacrime per le sventure e le vicende mortali toccano il
cuore.
[7]L'Innocente. p. 145.
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