Cesare Pavese |
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Torniamo a Ovidio
Altro rimedio atto a deporre l'amore è
quello, suggerito al poeta da Cupido in sogno, di porre mente ad altri tormenti:
"ad mala quisque animum referat sua:
ponet amorem/omnibus illa deus plusve minusve dedit " (vv. 559 - 560)
, ciascuno volga l'attenzione ai propri guai: deporrà l'amore, a tutti più o
meno il dio ne ha dati.
Ne vengono elencati alcuni, dal denaro
prestato, al padre severo (durus pater, 563) al figlio sotto le armi (filius miles) alla figlia da sposare (filia nubilis, v. 571). "Et
quis non causas mille doloris habet? /Ut posses odisse tuam, Pari, funera
fratrum/debueras oculis substituisse tuis " (vv. 572 - 574) , e chi
non ha mille cause di sofferenza? Per potere odiare la tua amante, Paride, avresti
dovuto metterti davanti agli occhi le morti dei fratelli.
E' questo il sistema di scacciare un dolore
con un altro dolore cui si può rispondere con un sarcasmo usato da Pavese due
giorni prima di uccidersi: "chiodo schiaccia chiodo, ma quattro chiodi
fanno una croce"[1].
Del resto i dolori e i desideri per essere superati vanno attraversati
moralmente, e non repressi, altrimenti esplodono più tardi nella follia, come
succede al protagonista della Morte a
Venezia di T. Mann, la cui "rigida, disciplinata integrità" non
lo tutela dall'esplosione degli "istinti oscuri" che anzi lo
travolgono e lo stendono: "Si abbandonò su una panchina; stravolto aspirò
il profumo notturno degli alberi. "Ti amo!" sussurrò lasciando cadere
le braccia, riverso, sopraffatto, assalito da ricorrenti brividi. Era la
formula stereotipa del desiderio: assurda in quel caso, grottesca, turpe, ridicola,
e tuttavia sacra e venerabile"[2].
Il consiglio successivo è "loca sola caveto " (Remedia, v. 579) , guardati dai luoghi
solitari. Gli amici, perfino la folla aiutano a dimenticare.
Sant'Agostino nel Secretum dà proprio questo consiglio a Petrarca citando questi
versi di Ovidio notissimi anche a tutti i fanciulli: " tam diu cavendam tibi solitudinem scito, donec
sentias morbi tui nullas superesse reliquias… “Quisquis amas, loca sola nocent,
loca sola caveto. /Quo fugis? In populo tutior esse potes"[3], sappi
che devi evitare la solitudine tanto a lungo fino a quando senti che rimangono
strascichi della tua malattia…Chiunque sia tu che ami, i luoghi solitari fanno
male, evita i luoghi solitari. Dove fuggi? Tra la folla puoi essere più sicuro.
Francesco risponde: "Recordor optime:
ab infantia pene michi familiariter noti erant " (Secretum, III, 52) , li ricordo benissimo: quasi fin dall'infanzia
mi erano familiari.
Fillide, Arianna e la catena letteraria.
Segue l'esempio di Fillide (Remedia, 591 - 608) , un altro caso di
donna abbandonata trattato anche altrove da Ovidio. Possiamo soffermarci un
poco su questa "vaga donzella", come la chiamerà il Parini, e ampliare
con lei la tipologia della ragazza abbandonata.
La seconda delle Heroides è una lettera di Fillide, principessa tracia, a Demofoonte
il figlio di Teseo e di Fedra che trovò ospitalità presso di lei, poi
l'abbandonò, come aveva fatto il padre con Arianna la quale se ne duole nella X
delle Heroides.
Il lamento di Fillide rinfaccia a Demofonte
gli spergiuri e la rottura della fides: " Iura, fides ubi nunc commissaque dextera dextrae, /quique erat in falso
plurimus ore deus? " (Heroides,
II, 31 - 32) , dove sono ora i giuramenti, la fede promessa, la destra stretta
alla destra, e tutti gli dèi che si trovavano nella tua bocca bugiarda?
La fanciulla spera che Demofonte, al cospetto
di Teseo che fu non solo il seduttore di Arianna ma anche un vincitore di
mostri, venga ricordato soltanto per questa impresa non nobile: avere ingannato
una fanciulla: "Fallere credentem
non est operosa puellam/gloria; simplicitas digna favore fuit. /Sum decepta
tuis et amans et femina verbis; /di faciant laudis summa sit ista tuae
" (Heroides, II, vv. 63 - 66) , non
è gloria produttiva ingannare una fanciulla credula; la semplicità doveva
essere degna di protezione. Sono stata ingannata dalle tue parole in quanto
innamorata e in quanto donna: gli dèi facciano che questo sia il colmo della
tua gloria.
Infine la ragazza minaccia il suicidio la cui
responsabilità dovrà ricadere sul seduttore, tanto che sul sepolcro dovrà
essere scritto: "Phyllida Demophoon
leto dedit hospes amantem/ille necis causam praebuit ipsa manum " (Heroides, II, vv. 147 - 148) , Demofoonte
da ospite ha fatto morire Fillide che lo amava; egli fornì il motivo della
morte, lei stessa la mano.
Ebbene, nei Remedia Amoris Ovidio, tornando sull'argomento, sostiene che
Fillide fu uccisa dalla solitudine: "Certa
necis causa est; incomitata fuit " (v. 592) , la causa della morte è
certa: rimase senza compagne. Vagava come la schiera barbara delle menadi che
ogni tre anni festeggia Bacco, ma da sola.
La solitudine
La solitudine in generale è vista più
negativamente dagli antichi che dai moderni.
Fondamentale su questo argomento mi
sembra una riflessione di Kierkegaard che prende spunto dal Filottete di Sofocle il quale, abbandonato
su un'isola deserta, si lamenta di essere movno" (v. 227) , e[rhmo"…ka[filo" (v. 228) solo,
abbandonato e senza amici. Ebbene ill filosofo danese, in Enten Eller, nota che" il mondo antico non aveva la
soggettività riflessa in sé. Benché si muovesse liberamente, l'individuo
restava nell'ambito delle determinazioni sostanziali, nello Stato, nella
famiglia, nel fato… La riflessione di Filottete non si sprofonda in se stessa, ed
è tipicamente greco che egli si dolga che nessuno sia a conoscenza del suo
dolore. Si ha qui una grande verità, e proprio qui si vede anche la differenza
con il vero e proprio dolore riflessivo, che sempre desidera d'esser solo con
il suo dolore, e che nella solitudine di questo dolore cerca sempre un nuovo
dolore"[4].
La fuga nell'interiorità è già una
necessità in Seneca il quale, costretto a ritirarsi negli "studia... in umbra educata "[5], consiglia:
"fuge multitudinem, fuge paucitatem,
fuge etiam unum " (epist., 10,
1) , evita la folla, evita la compagnia di poche persone e anche quella di una
sola.
Altrettanto decisamente Nietzsche esprime il
punto di vista dell'uomo strutturalmente solo e desocializzato: "C'è da
dir male anche di chi soffre per la solitudine - io ho sempre e solamente
sofferto per la "moltitudine"[6].
La
donna abbandonata
Nei
Remedia, la ragazza di Tracia è
modellata su quella cretese, e, più in generale, sul tipo della donna
abbandonata: "Perfide Demophoon!"
surdas clamabat ad undas, /ruptaque singultu verba loquentis erant" (Remedia Amoris, vv. 597 - 598) , perfido
Demofoonte! gridava alle insensibili onde, e le parole di lei erano rotte dai
singhiozzi.
Il vocativo perfide si trova già nel lamento dell'Arianna di Catullo (64, 132)
, in quello della Didone virgiliana (Eneide,
IV, 305) che è pure assimilata a una menade (Eneide, IV, 300) . Abbiamo indicato la presenza dell' epiteto
ingiurioso in bocca alla figlia di Minosse pure nei Fasti (III, 473) .
Ovidio presenta Arianna, l'archetipo
della ragazza abbandonata, anche nella X delle Heroides dove la figlia di Minosse, trovatasi sola sulla riva del
mare, grida al traditore: "Quo fugis?
…Scelerate revertere Theseu!/Flecte ratem! Numerum non habet illa suum!
" (vv. 37 - 38) , dove fuggi? torna indietro scellerato Teseo, volgi la
nave che non ha il numero completo! In questa lettera il canonico perfide è indirizzato al lectulus, il giaciglio traditore (v. 60)
.
Pure nell'Ars Amatoria c'è un'Arianna che piange davanti alle onde e grida
parole simili a quelle di Fillide: "Thesea
crudelem surdas clamabat ad undas " (I, 529) , proclamava la crudeltà
di Teseo alle onde che non ascoltavano, e piangeva, senza tuttavia diventare
più brutta per le sue lacrime: "non
facta est lacrimis turpior illa suis " (v. 532) .
La variante delle lacrime belle che
attireranno Dioniso non impedisce a Ovidio l'uso dell'aggettivo topico: "Perfidus ille abiit: quid mihi fiet? "
ait; /"Quid mihi fiet? " ait; sonuerunt cymbala toto/litore et
attonita tympana pulsa manu" (Ars
Amatoria, I, 534 - 536) , quel traditore se n'è andato. Cosa sarà di me? dice,
cosa sarà di me? , dice; risuonarono i cembali su tutta la spiaggia e
tamburelli battuti da mani frenetiche.
Ho ripreso il tovpo" già trattato per mostrare ancora una
volta il funzionamento della catena letteraria; anzi aggiungo una nota della
Lazzarini la quale sostiene che "l'archetipo della iunctura perfide Demophoon è probabilmente
Callimaco, Aetia 556 Pf. nymphie Demophoon, adike xene ("perfido
Demofoonte, ospite traditore) "[8].
Ricordo pure un'eco dal bel suono presente in Il Giorno del Parini il quale utilizza una versione del mito data
da Servio (In Verg. Buc. 5, 10) secondo
cui la ragazza si impiccò e fu trasformata in un mandorlo privo di foglie che
nacquero quando Demofoonte tornò: "e qual ti porge/il macinato di
quell'arbor frutto/che a Ròdope fu già vaga donzella, /e chiama in van sotto
mutate spoglie/Demofoonte ancor Demofoonte"[9].
E’ interessante notare che nell’Ars Ovidio, in polemica scherzosa e
libertina con Virgilio, assimila il presunto pio Enea ai seduttori perfidi
Nel proemio dell'Eneide[10]
Virgilio domanda con meraviglia: "Musa, mihi causas memora, quo numine
laeso, /quidve dolens regina deum tot volvere casus/insignem pietate virum, tot adire labores/impulerit. Tantaene
animis caelestibus irae? " (vv, 8 - 11) , o Musa, dimmi le ragioni, per
quale offesa volontà divina, o di che cosa dolendosi la regina degli dèi abbia
spinto un uomo insigne per la devozione a girare per tante sventure, ad
affrontare tante fatiche. Così grandi sono le ire nell'animo dei celesti?
Ebbene Ovidio trova
la ragione delle grandi ire divine: dopo avere affermato che gli uomini
ingannano spesso, più delle tenere fanciulle (saepe viri fallunt, tenerae
non saepe puellae, Ars, III, 31) il poeta peligno inserisce Enea tra
i seduttori ingannevoli quali il fallax Iason (Ars, III, 33) e
Teseo, tanto perfido che, se fosse dipeso da lui, Arianna avrebbe nutrito gli
uccelli marini.
Siffatto è il figlio di Anchise: "et famam pietatis
habet, tamen hospes et ensem[11]/praebuit
et causam mortis, Elissa, tuae" (Ars, III, 39 - 40) , ha la nomèa di
uomo pio, tuttavia da ospite ti offrì la spada e il motivo della morte tua, Elissa.
Ovidio dunque smaschera Enea e il poeta che lo celebra come
antenato di Augusto.
continua
[1]
Il mestiere di vivere, 16 agosto 1950.
[2]
T. Mann, La morte a Venezia, pp. 62 - 63 e p. 118.
[3]
Remedia Amoris, vv. 379 - 380.
[4] Il
riflesso del tragico antico nel tragico moderno, Tomo secondo, p24 e pp. 33
- 34.
[5]Tacito,
Annales, XIV, 53.
[6]
Ecce homo (del 1888) , p. 37.
[7]
L'uomo e il divino, p. 262.
[8]
Ovidio Rimedi contro l'amore, p. 163.
[9]
G: Parini, Il Mattino, vv. 267 - 271.
[10]
Scritta fra il 29 e il 19 a. C.
[11]
Spada lasciata da Enea (Eneide, IV, 507) e impiegata quale dono funesto
(non hos quaesitum munus in usum., Eneide, IV, 647, dono
richiesto non per questo uso.
bobslabZprim-ga Tyler Totten https://wakelet.com/@hosmoomicu203
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