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martedì 29 dicembre 2015

I "Remedia amoris" di Ovidio, Parte X

Cesare Pavese

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Torniamo a Ovidio
Altro rimedio atto a deporre l'amore è quello, suggerito al poeta da Cupido in sogno, di porre mente ad altri tormenti: "ad mala quisque animum referat sua: ponet amorem/omnibus illa deus plusve minusve dedit " (vv. 559 - 560) , ciascuno volga l'attenzione ai propri guai: deporrà l'amore, a tutti più o meno il dio ne ha dati.
 Ne vengono elencati alcuni, dal denaro prestato, al padre severo (durus pater, 563) al figlio sotto le armi (filius miles) alla figlia da sposare (filia nubilis, v. 571). "Et quis non causas mille doloris habet? /Ut posses odisse tuam, Pari, funera fratrum/debueras oculis substituisse tuis " (vv. 572 - 574) , e chi non ha mille cause di sofferenza? Per potere odiare la tua amante, Paride, avresti dovuto metterti davanti agli occhi le morti dei fratelli.
 E' questo il sistema di scacciare un dolore con un altro dolore cui si può rispondere con un sarcasmo usato da Pavese due giorni prima di uccidersi: "chiodo schiaccia chiodo, ma quattro chiodi fanno una croce"[1]. Del resto i dolori e i desideri per essere superati vanno attraversati moralmente, e non repressi, altrimenti esplodono più tardi nella follia, come succede al protagonista della Morte a Venezia di T. Mann, la cui "rigida, disciplinata integrità" non lo tutela dall'esplosione degli "istinti oscuri" che anzi lo travolgono e lo stendono: "Si abbandonò su una panchina; stravolto aspirò il profumo notturno degli alberi. "Ti amo!" sussurrò lasciando cadere le braccia, riverso, sopraffatto, assalito da ricorrenti brividi. Era la formula stereotipa del desiderio: assurda in quel caso, grottesca, turpe, ridicola, e tuttavia sacra e venerabile"[2].

Il consiglio successivo è "loca sola caveto " (Remedia, v. 579) , guardati dai luoghi solitari. Gli amici, perfino la folla aiutano a dimenticare.

Sant'Agostino nel Secretum dà proprio questo consiglio a Petrarca citando questi versi di Ovidio notissimi anche a tutti i fanciulli: " tam diu cavendam tibi solitudinem scito, donec sentias morbi tui nullas superesse reliquias… “Quisquis amas, loca sola nocent, loca sola caveto. /Quo fugis? In populo tutior esse potes"[3], sappi che devi evitare la solitudine tanto a lungo fino a quando senti che rimangono strascichi della tua malattia…Chiunque sia tu che ami, i luoghi solitari fanno male, evita i luoghi solitari. Dove fuggi? Tra la folla puoi essere più sicuro. Francesco risponde: "Recordor optime: ab infantia pene michi familiariter noti erant " (Secretum, III, 52) , li ricordo benissimo: quasi fin dall'infanzia mi erano familiari.

Fillide, Arianna e la catena letteraria.
 Segue l'esempio di Fillide (Remedia, 591 - 608) , un altro caso di donna abbandonata trattato anche altrove da Ovidio. Possiamo soffermarci un poco su questa "vaga donzella", come la chiamerà il Parini, e ampliare con lei la tipologia della ragazza abbandonata.
 La seconda delle Heroides è una lettera di Fillide, principessa tracia, a Demofoonte il figlio di Teseo e di Fedra che trovò ospitalità presso di lei, poi l'abbandonò, come aveva fatto il padre con Arianna la quale se ne duole nella X delle Heroides.
 Il lamento di Fillide rinfaccia a Demofonte gli spergiuri e la rottura della fides: " Iura, fides ubi nunc commissaque dextera dextrae, /quique erat in falso plurimus ore deus? " (Heroides, II, 31 - 32) , dove sono ora i giuramenti, la fede promessa, la destra stretta alla destra, e tutti gli dèi che si trovavano nella tua bocca bugiarda?
 La fanciulla spera che Demofonte, al cospetto di Teseo che fu non solo il seduttore di Arianna ma anche un vincitore di mostri, venga ricordato soltanto per questa impresa non nobile: avere ingannato una fanciulla: "Fallere credentem non est operosa puellam/gloria; simplicitas digna favore fuit. /Sum decepta tuis et amans et femina verbis; /di faciant laudis summa sit ista tuae " (Heroides, II, vv. 63 - 66) , non è gloria produttiva ingannare una fanciulla credula; la semplicità doveva essere degna di protezione. Sono stata ingannata dalle tue parole in quanto innamorata e in quanto donna: gli dèi facciano che questo sia il colmo della tua gloria.
 Infine la ragazza minaccia il suicidio la cui responsabilità dovrà ricadere sul seduttore, tanto che sul sepolcro dovrà essere scritto: "Phyllida Demophoon leto dedit hospes amantem/ille necis causam praebuit ipsa manum " (Heroides, II, vv. 147 - 148) , Demofoonte da ospite ha fatto morire Fillide che lo amava; egli fornì il motivo della morte, lei stessa la mano.
Ebbene, nei Remedia Amoris Ovidio, tornando sull'argomento, sostiene che Fillide fu uccisa dalla solitudine: "Certa necis causa est; incomitata fuit " (v. 592) , la causa della morte è certa: rimase senza compagne. Vagava come la schiera barbara delle menadi che ogni tre anni festeggia Bacco, ma da sola.

La solitudine
 La solitudine in generale è vista più negativamente dagli antichi che dai moderni.
Fondamentale su questo argomento mi sembra una riflessione di Kierkegaard che prende spunto dal Filottete di Sofocle il quale, abbandonato su un'isola deserta, si lamenta di essere movno" (v. 227) , e[rhmo"ka[filo" (v. 228) solo, abbandonato e senza amici. Ebbene ill filosofo danese, in Enten Eller, nota che" il mondo antico non aveva la soggettività riflessa in sé. Benché si muovesse liberamente, l'individuo restava nell'ambito delle determinazioni sostanziali, nello Stato, nella famiglia, nel fato… La riflessione di Filottete non si sprofonda in se stessa, ed è tipicamente greco che egli si dolga che nessuno sia a conoscenza del suo dolore. Si ha qui una grande verità, e proprio qui si vede anche la differenza con il vero e proprio dolore riflessivo, che sempre desidera d'esser solo con il suo dolore, e che nella solitudine di questo dolore cerca sempre un nuovo dolore"[4].
La fuga nell'interiorità è già una necessità in Seneca il quale, costretto a ritirarsi negli "studia... in umbra educata "[5], consiglia: "fuge multitudinem, fuge paucitatem, fuge etiam unum " (epist., 10, 1) , evita la folla, evita la compagnia di poche persone e anche quella di una sola.
 Altrettanto decisamente Nietzsche esprime il punto di vista dell'uomo strutturalmente solo e desocializzato: "C'è da dir male anche di chi soffre per la solitudine - io ho sempre e solamente sofferto per la "moltitudine"[6].
La Zambrano chiama questa attitudine "individualismo moderno" che "ci ha abituati a credere di vivere da soli". Eppure "nella vita umana non si rimane soli eccetto negli istanti in cui la solitudine si fa, si crea. La solitudine è una conquista metafisica, perché nessuno sta solo, ma deve riuscire a creare la solitudine dentro di sé, nei momenti in cui è necessaria per la crescita. I mistici parlano di solitudine come di qualcosa per la quale bisogna passare, punto di partenza della "ascesi", cioè, della morte, di quella morte che, secondo loro, bisogna morire prima dell'altra, per vedersi, alla fine, in un altro specchio. La visione del prossimo è specchio della propria vita; ci vediamo vedendolo. E la visione del simile è necessaria proprio perché l'uomo ha bisogno di vedersi. Non sembra che esista nessun animale che necessiti di contemplare la sua figura nello specchio. L'uomo cerca di vedersi. E vive appieno quando si guarda, non nello specchio morto che gli restituisce la propria immagine, ma quando si vede vivere nello specchio vivo del simile. Soltanto vedendomi nell'altro mi vedo realmente, soltanto nello specchio di un'altra vita simile alla mia acquisisco la certezza della mia realtà"[7].

 La donna abbandonata
 Nei Remedia, la ragazza di Tracia è modellata su quella cretese, e, più in generale, sul tipo della donna abbandonata: "Perfide Demophoon!" surdas clamabat ad undas, /ruptaque singultu verba loquentis erant" (Remedia Amoris, vv. 597 - 598) , perfido Demofoonte! gridava alle insensibili onde, e le parole di lei erano rotte dai singhiozzi.
 Il vocativo perfide si trova già nel lamento dell'Arianna di Catullo (64, 132) , in quello della Didone virgiliana (Eneide, IV, 305) che è pure assimilata a una menade (Eneide, IV, 300) . Abbiamo indicato la presenza dell' epiteto ingiurioso in bocca alla figlia di Minosse pure nei Fasti (III, 473) .
Ovidio presenta Arianna, l'archetipo della ragazza abbandonata, anche nella X delle Heroides dove la figlia di Minosse, trovatasi sola sulla riva del mare, grida al traditore: "Quo fugis? …Scelerate revertere Theseu!/Flecte ratem! Numerum non habet illa suum! " (vv. 37 - 38) , dove fuggi? torna indietro scellerato Teseo, volgi la nave che non ha il numero completo! In questa lettera il canonico perfide è indirizzato al lectulus, il giaciglio traditore (v. 60) .
Pure nell'Ars Amatoria c'è un'Arianna che piange davanti alle onde e grida parole simili a quelle di Fillide: "Thesea crudelem surdas clamabat ad undas " (I, 529) , proclamava la crudeltà di Teseo alle onde che non ascoltavano, e piangeva, senza tuttavia diventare più brutta per le sue lacrime: "non facta est lacrimis turpior illa suis " (v. 532) .
La variante delle lacrime belle che attireranno Dioniso non impedisce a Ovidio l'uso dell'aggettivo topico: "Perfidus ille abiit: quid mihi fiet? " ait; /"Quid mihi fiet? " ait; sonuerunt cymbala toto/litore et attonita tympana pulsa manu" (Ars Amatoria, I, 534 - 536) , quel traditore se n'è andato. Cosa sarà di me? dice, cosa sarà di me? , dice; risuonarono i cembali su tutta la spiaggia e tamburelli battuti da mani frenetiche.
 Ho ripreso il tovpo" già trattato per mostrare ancora una volta il funzionamento della catena letteraria; anzi aggiungo una nota della Lazzarini la quale sostiene che "l'archetipo della iunctura perfide Demophoon è probabilmente Callimaco, Aetia 556 Pf. nymphie Demophoon, adike xene ("perfido Demofoonte, ospite traditore) "[8]. Ricordo pure un'eco dal bel suono presente in Il Giorno del Parini il quale utilizza una versione del mito data da Servio (In Verg. Buc. 5, 10) secondo cui la ragazza si impiccò e fu trasformata in un mandorlo privo di foglie che nacquero quando Demofoonte tornò: "e qual ti porge/il macinato di quell'arbor frutto/che a Ròdope fu già vaga donzella, /e chiama in van sotto mutate spoglie/Demofoonte ancor Demofoonte"[9].
E’ interessante notare che nell’Ars Ovidio, in polemica scherzosa e libertina con Virgilio, assimila il presunto pio Enea ai seduttori perfidi
Nel proemio dell'Eneide[10] Virgilio domanda con meraviglia: "Musa, mihi causas memora, quo numine laeso, /quidve dolens regina deum tot volvere casus/insignem pietate virum, tot adire labores/impulerit. Tantaene animis caelestibus irae? " (vv, 8 - 11) , o Musa, dimmi le ragioni, per quale offesa volontà divina, o di che cosa dolendosi la regina degli dèi abbia spinto un uomo insigne per la devozione a girare per tante sventure, ad affrontare tante fatiche. Così grandi sono le ire nell'animo dei celesti?
 Ebbene Ovidio trova la ragione delle grandi ire divine: dopo avere affermato che gli uomini ingannano spesso, più delle tenere fanciulle (saepe viri fallunt, tenerae non saepe puellae, Ars, III, 31) il poeta peligno inserisce Enea tra i seduttori ingannevoli quali il fallax Iason (Ars, III, 33) e Teseo, tanto perfido che, se fosse dipeso da lui, Arianna avrebbe nutrito gli uccelli marini.
Siffatto è il figlio di Anchise: "et famam pietatis habet, tamen hospes et ensem[11]/praebuit et causam mortis, Elissa, tuae" (Ars, III, 39 - 40) , ha la nomèa di uomo pio, tuttavia da ospite ti offrì la spada e il motivo della morte tua, Elissa.
Ovidio dunque smaschera Enea e il poeta che lo celebra come antenato di Augusto.


continua



[1] Il mestiere di vivere, 16 agosto 1950.
[2] T. Mann, La morte a Venezia, pp. 62 - 63 e p. 118.
[3] Remedia Amoris, vv. 379 - 380.
[4] Il riflesso del tragico antico nel tragico moderno, Tomo secondo, p24 e pp. 33 - 34.
[5]Tacito, Annales, XIV, 53.
[6] Ecce homo (del 1888) , p. 37.
[7] L'uomo e il divino, p. 262.
[8] Ovidio Rimedi contro l'amore, p. 163.
[9] G: Parini, Il Mattino, vv. 267 - 271.
[10] Scritta fra il 29 e il 19 a. C.
[11] Spada lasciata da Enea (Eneide, IV, 507) e impiegata quale dono funesto (non hos quaesitum munus in usum., Eneide, IV, 647, dono richiesto non per questo uso. 

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