Calipso e Odisseo |
Il pathos con lacrime può dipendere anche dalla carenza di
desiderio amoroso
Nel V canto dell’Odissea, Ermes va da Calipso per
dirle che è volontà di Zeus che lasci partire Odisseo tenuto prigioniero da
lei. La ninfa andò in cerca del magnanimo Ulisse.
Quindi “lo trovò seduto sul lido: mai gli occhi/erano
asciutti di lacrime, ma gli si struggeva la dolce vita/mentre sospirava il
ritorno, poiché non gli piaceva più la ninfa" (ejpei; oujkevti h{ndane nuvmfh V, 151-153).
Quattro parole per spiegare un fatto naturale colto nella
sua essenzialità.
Non c’è bisogno di chiacchiere per spiegare il calo o la
mancanza del desiderio.
Calipso dice a Odisseo che lo lascia partire, che, anzi, lo
aiuterà a partire dandogli il viatico di pane, acqua, vino rosso (si`ton kai; u{dwr kai; oi\non ejruqrovn, v. 265) e vesti (ei{mata, v. 167). Odisseo è, come sempre,
diffidente, ma Calipso giura sulla terra, sul cielo e sullo Stige, il
giuramento più grande e terribile, che lo aiuterà con lo stesso impegno con il
quale provvederebbe a se stessa poiché, dice, sono giusta e nel mio petto non
c’è un cuore di ferro ma compassionevole (oujde;
moi aujth`/qumo;~ ejni; sthvqessi sidhvreo~, ajll j ejlehvmwn, vv.
190-191)
La sofferenza
educativa in Virgilio
Per non limitarci alla letteratura greca e ai suoi
interpreti, aggiungo autori successivi. Nell'Eneide di Virgilio
Didone incoraggia i Troiani giunti naufraghi sulle coste della Libia ricordando
che anche lei è esperta di sventure le quali l'hanno resa non solo attenta e
diffidente, ma pure compassionevole verso i disgraziati:"non ignara mali miseris succurrere disco
"(I, 630), non ignara del male imparo a soccorrere gli sventurati. Tanta humanitas
non verrà contraccambiata da Enea. Eppure questo è uno degli insegnamenti
massimi dei nostri autori e dovrebbe esserlo nella scuola: "E infine,
possiamo imparare la lezione fondamentale della vita, la compassione per le
sofferenze di tutti gli umiliati, e la comprensione autentica"[1].
“Virgilio insiste, com’è ben noto, sull’umanità del personaggio,
che, avendo sofferto, è particolarmente sensibile al dolore degli altri”[2].
E’ l’umanesimo che ritroviamo in quanto dice Teseo nell’ Edipo a Colono e l’Antigone di Sofocle.
Un'alta espressione di
umanesimo è quella che il vecchio Sofocle attribuisce a Teseo nell'Edipo
a Colono: "e[xoid j ajnh;r w[n"(v.567), so
bene di essere un uomo. Per questo motivo dà aiuto a Edipo giunto ad Atene
povero, cieco e malfamato.
L’Antigone
di Sofocle, determinata a disobbedire al decreto disumano che ordina di lascire
insepolto Polinice, dice a Creonte che la minaccia: “ou[toi sunevcqein, ajlla; sumfilei'n
e[fun
(523), non sono nata per condividere l’odio ma l’amore
F. Dostoevskij
in Ricordi del sottosuolo (del 1864) scrive:" io sono convinto che
l’uomo non rinuncerà mai alla vera, autentica sofferenza, e cioè alla
distruzione e al caos. Giacché la sofferenza è la vera origine della coscienza…
In realtà io continuo a pormi una domanda oziosa: che cos'è meglio, una
felicità da quattro soldi o delle sublimi sofferenze? Dite su, che cos'è
meglio?" (p. 234 e p. 320).
H. Hesse, in Siddharta (p.135) esprime con altre parole l'antica legge eschilea
del tw/' pavqei mavqo":"Profondamente
sentì in cuore l'amore per il figlio fuggito, come una ferita, e sentì insieme
che la ferita non gli era stata data per rovistarci dentro e dilaniarla, ma
perché fiorisse in tanta luce".
Dalla donna che ci fa soffrire si impara
anche.
Su questo possiamo sentire Proust: "Perché solo la felicità è salutare al corpo, ma è il
dolore a sviluppare le energie dello spirito… Una donna di cui abbiamo bisogno,
che ci fa soffrire, trae da noi serie di sentimenti ben più profondi, ben
altrimenti vitali di quanto possa fare un uomo superiore che ci interessi.
Resta da sapere, secondo il piano su cui viviamo, se davvero ci sembra che il
tradimento col quale ci ha fatto soffrire una donna sia ben poca cosa in
confronto delle verità che ci ha rivelate, verità che la donna, paga d'aver
fatto soffrire, non avrebbe potuto comprendere...Facendomi perdere il mio tempo,
facendomi soffrire, forse Albertine mi era stata più utile, anche sotto
l'aspetto letterario, di un segretario che avesse messo in ordine le mie
"scartoffie". Tuttavia, allorché un essere è così mal conformato (e
può darsi che nella natura un tal essere sia proprio l'uomo) da non poter amare
senza soffrire, e da aver bisogno di soffrire per imparare certe verità, la
vita d'un tale essere finisce col riuscire ben spossante!"[3].
La sofferenza si confà alla chiarezza della visione e pure
all'arte: "Spesso solo per mancanza d'ingegno creativo non ci spingiamo
abbastanza oltre nella sofferenza. E la realtà più atroce suol dare, insieme
con la sofferenza, la gioia d'una bella scoperta, perché non fa che dare una
forma nuova e chiara a quello che andavamo rimuginando da un pezzo senza
rendercene conto"[4].
“La sofferenza, per quanto ti possa apparire strano, è il
nostro modo di esistere, poiché è l’unico modo a nostra disposizione per
diventare consapevoli della vita; il ricordo di quanto abbiamo sofferto nel
passato ci è necessario come la garanzia, la testimonianza della nostra
identità”[5].
Sentiamo ancora qualche testimonianza.
Lo stariez Zossima dice le sue ultime volontà ad Alioscia: “Avrai
molto da fare. Ma non dubito di te, e perciò ti mando nel mondo. Cristo sarà
sempre con te. ConservaLo nel tuo cuore, ed anche Lui ti conserverà. Conoscerai
grandi sofferenze, e nel dolore troverai la felicità. Eccoti il mio testamento:
nelle sofferenze cerca la felicità. E lavora, lavora senza tregua”[6].
D'Annunzio invece attribuisce
al piacere maggiore efficacia pedagogica che al dolore: "Ella[7] ci
persuade ogni giorno l'atto che è la genesi stessa di nostra specie[8]: lo
sforzo di sorpassar sé medesimo, senza tregua; ella ci mostra la possibilità di
un dolore trasmutato nella più efficace energia stimolatrice; ella c'insegna
che il piacere è il più certo mezzo di conoscimento offertoci dalla Natura e
che colui il quale molto ha sofferto è men sapiente di colui il quale molto ha
gioito"[9].
Sentiamo
il vecchio Malavoglia di Verga:
“Hanno imparato presto perché hanno visti guai assai! - diceva padron jNtoni - il
giudizio viene colle disgrazie”[10].
Passiamo a C. Pavese:
"la grande, la tremenda verità è questa: soffrire non serve a niente"[11].
“Soffrire non serve a niente (26 novembre ‘37).
Soffrire limita l’efficienza spirituale (17 giugno ‘ 38).
Soffrire è sempre colpa nostra (29 settembre ’38)
Soffrire è una debolezza (13 ottobre ’38)
Almeno un’obiezione c’è: se non avessi sofferto non avrei
scritto queste belle sentenze”[12].
“Qualunque sofferenza che non sia anche conoscenza è inutile”[13].
CONTINUA
[1] E. Morin, La testa ben fatta,
p. 49.
[3]M.
Proust, Il tempo ritrovato, pp 238,
239 e 242.
[4]
M. Proust, Sodoma e Gomorra, p. 549.
[5] O. Wilde, De Profundis, in Oscar Wilde
Opere, p. 653.
[6]
F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov,
p. 123.
[7]
La vita.
[8]
" Se il chiavare non
fosse la cosa più importante della vita, la Genesi non comincerebbe di lì" (C. Pavese, Il mestiere di vivere, 25 dicembre, 19 37).
Ndr.
[9]
Il fuoco (del 1900) p. 95.
[10]
G. Verga, I Malavoglia, p. 221.
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