NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

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martedì 24 aprile 2018

Il pathos come elemento educativo. Parte ultima

Zeus


Proseguo con un un personaggio, Boppi, di un romanzo giovanile di H. Hesse: "mi capitò di diventare l’allievo meravigliato e riconoscente di un misero storpio. Se un giorno arriverò davvero a compiere il poema iniziato da gran tempo e a pubblicarlo, vi si troverà ben poco di buono che io non abbia imparato da Boppi. Incominciò per me un periodo buono e piacevole nel quale troverò da nutrirmi per tutta la vita. Mi fu concesso di vedere addentro una magnifica anima umana sulla quale malattia, solitudine, povertà e maltrattamenti erano passati soltanto come nuvole leggere e vaganti. Tutti i piccoli vizi coi quali ci amareggiamo e guastiamo la vita bella e breve, l’ira, l’impazienza, la menzogna, tutte queste odiose e luride piaghe che ci deformano erano state cauterizzate in quell’uomo da lunghi e profondi dolori. Non era un saggio, né un angelo, ma un uomo pieno di comprensione e di affetto che, a furia di tremende sofferenze e di gravi privazioni aveva imparato a sentirsi debole senza vergognarsi, e ad affidarsi nelle mani di Dio"[1].

Compassione quale condivisione del pathos, come capacità di mettersi nei panni degli altri.
Piero Boitani, professore di Letterature comparate nell’Università di Roma La Sapienza, scrive: “La vita è fatta della nostra relazione con gli altri, non solo di contemplazione della natura o di noi stessi. Penso che per sopravvivere con gli altri sia necessario compatire: non soltanto nel senso di avere pietà nei loro confronti, di guardare alle loro e alle nostre sventure con umana pietas, ma di “soffrire con”, “com-patire”. Se soffriamo con gli altri, se prendiamo su di noi i loro dolori, riconosciamo l’essere umano che è in loro, e in noi, in maniera assai più profonda di quanto non ci consenta il semplice conoscere…Leggere la compassione nell’Elettra di Sofocle, ma poi cercarne le variazioni in Omero, in Proust, in Guerra e Pace. Temi e tradizioni. La letteratura è un albero gigantesco, ma le radici sono sempre le medesime, e la ri-scrittura è il principio che ne governa la crescita”[2].
E più avanti, specificamente sul tw/' pavqei maqo~: “La sofferenza, allora, è un prerequisito del riconoscimento. Se la Genesi ebraica postula che il prezzo del sapere sia la morte[3], i Greci sapevano perfettamente che la conoscenza si può acquisire soltanto attraverso il dolore. Era saggezza comune fin dai tempi di Omero ed Esiodo[4], ma è stato Eschilo, all’inizio della tragedia, ad esprimerla in maniera memorabile nell’Agamennone, quando il coro intona il famos “Inno a Zeus”[5]

Zeus, chiunque egli sia, se è questo il nome
Con cui gli è caro essere invocato,
così a lui mi rivolgo: nulla trovo cui compararlo,
pur tutto attentamente vagliando,
tranne Zeus, se veramente si deve gettar via
il vano peso dal proprio pensiero.
(….)

Ma chi a Zeus con gioia leva il grido epinicio
Coglierà pienamente la saggezza-

A Zeus che ha avviato i mortali
A essere saggi, che ha posto come valida legge
“saggezza attraverso la sofferenza”.
Invece del sonno (oppure: “anche nel sonno”) stilla davanti al cuore
un’angoscia memore di dolori:
anche a chi non vuole arriva saggezza.

Pathei mathos: questa è l’indicazione di Zeus per il phronein umano, la “prudenza” che è saggezza”[6].
Aggiungo i due versi dell’Agamennone opportunamente indicati da Boitani in nota: “Divka de; toi'~ me;n paqou'-
sin maqei'n ejpirrevpei” (Agamennone, vv. 250-251), Giustizia fa pendere comprensione verso quelli che hanno sofferto.

Concludo questo argomento affermando che Euripide ha anticipato di molti secoli la scoperta che i ragionamenti spesso sono sentimenti con la maschera.
Svevo è del tutto esplicito nell'affermare la precedenza e la prevalenza del sentimento: "Nelle lunghe ore che egli passò là, inerte, ragionò anche una volta sui motivi che l'avevano indotto a lasciare Annetta, ma come sempre il suo ragionamento non era altro che il suo sentimento travestito"[7].
La discrepanza tra pavqo" e lovgo" , crea dolore in Alfonso Nitti:" Ad onta di tutti i ragionamenti rimase triste. Una volta di più, così raccontava a se stesso, quel fatto gli provava l'imbecillità della vita e non pensava in questo fatto al torto di Annetta o di Macario ma al proprio, di sentire in modo strano e irragionevole" (p. 284).

Secondo H. Hesse i sentimenti devono avere la precedenza:"Di nient'altro viviamo se non dei nostri sentimenti, poveri o belli o splendidi che siano, e ognuno di essi a cui facciamo torto è una stella che noi spengiamo"[8].
 Nel romanzo di Musil leggiamo:"Tutto ciò che si pensa è simpatia o antipatia, si disse Ulrich"[9].
Luogo simile si trova anche in La noia di Moravia:"Ma tutte le nostre riflessioni, anche le più razionali, sono originate da un dato oscuro del sentimento"[10].
Infine un ottimo scrittore ungherese :“ Sa che cosa ha fatto? Ha cercato di cancellare il sentimento con la ragione. Come se qualcuno, con i più svariati artifici, tentasse di convincere un pezzo di dinamite a non esplodere”[11].
Un’ idea del genere si trova nel discorso finale del film di Chaplin The great dictator (1940): il barbiere, sosia di Hynkel-Hitler, scambiato per il grande dittatore deve parlare alla folla con parole che legittimino e anzi esaltino la prepotenza del tiranno, presentato come il futuro imperatore del mondo dal ministro della propaganda Garlitsch-Goebbels. Ebbene il piccolo grande uomo non rispetta la parte che gli hanno assegnato e dice di non volere comandare su nessuno, ma aiutare tutti. Poi continua così: “Our knowledge has made us cynical, our cleverness hard and unkind. We think to much and feel to little. More than machinery we need humanity. More than cleverness we need kindness and gentleness”, la nostra conoscenza ci ha resi cinici, la nostra intelligenza duri e scortesi. Noi pensiamo troppo e sentiamo troppo poco. Più che di macchinari abbiamo bisogno di umanità. Più che di intelligenza abbiamo bisogno di bontà gentilezza.

La sofferenza immerita
Cfr Edipo a Colono di Sofocle quando il vecchio cieco dice ai Coreuti
“poiché le azioni io
le ho subite piuttosto che compiute, sappilo,
-ejpei; tav g j e[rga me-peponqovt j i[sqi ma'llon h] dedrakovta-
se ci fosse bisogno che io ti raccontassi i casi della madre e del padre,/
per cui tu hai paura di me: questo io lo so bene: ma come potrei essere di natura malvagia, /
io che dopo avere subito agivo a mia volta, in modo che se pure avessi agito/
con intenzione, neppure così sarei stato malvagio?” (v266-272).
Nell’ Eracle di Euripide: Anfitrione dice a Teseo
Abbiamo subito pene terribili dagli dèi ( ejpavqomen pavqea mevlea pro;" qew'n 1180 ).

giovanni ghiselli


[1]H. Hesse, Peter Camezind (del 1904), p. 117.
[2] P. Boitani, Prima lezione sulla letteratura, pp. X ss.
[3] Genesi 2. 17 riporta l’ordine di Dio ad Adamo: “ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché quando tu ne mangiassi, certamente moriresti”… Nella tradizione occidentale c’è anche un legame costante tra l’anagnorisis e la cecità (o la morte: Edipo e Lear) e tra l’anagnorisis e il ragionamento, di cui ho scritto Il genio di migliorare un’invenzione, cit.
[4] Per l’importanza del pathei mathos nella tragedia, si veda Kuhn Die wahre Tragödie, cit., pp. 254-255. I loci più importanti della tradizione soo Omero, Iliade, XVII, 32; Esiodo, Opere e giorni, 218; Erodoto, I, 207, 1; Sofocle, Edipo re, 402; Sofocle, Antigone, 1190; Platone, Simposio, 222b. Per un elenco generale e una discussione si veda H. Dorrie, Leid und Erfahrung, in “Abhandlunen der Akademie der Wissenschaft und der Literatur”, Mainz, 5, 1956. 
[5] Eschilo, Agamennone, 160-180 (e si vedano anche i vv. 250-252). L’edizione usata è quella curata da V. Di Benedetto, Mondadori, Milano 1995. Si veda anche E. Severino, Il giogo. Alle origini della ragione: Eschilo, Adelphi, Milano, 1989.
[6] Piero Boitani, Prima lezione sulla letteratura, pp. 109-110.
[7]Svevo, Una Vita , p. 239.
[8] L'ultima estate di Klingsor, p.55.
[9]Musil, L'uomo senza qualità , p. 210.
[10]Moravia, La Noia , p. 19.
[11]Sàndor Màrai, La donna giusta (del 1941), p. 78.

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