Teognide
Teognide di Megara, non si sa se
Megara Nisea, sull'istmo di Corinto, o Megara Iblea in Sicilia, visse nella
seconda metà VI secolo. Nelle Leggi
di Platone, l’Ateniese dà per scontato che Teognide fosse”cittadino di Megara
in Sicilia” (630).
Di lui ci è giunto un corpus
di circa 700 distici elegiaci divisi
in due libri disuguali: il primo raccoglie più di 1200 versi, il secondo 159.
"E' un favore
del tutto vano fare del bene ai vili:
è come seminare la
superficie del mare canuto.
Infatti seminando il
mare non mieti folta messe,
né facendo del bene
ai malvagi puoi riceverne bene in cambio:
ché i malvagi hanno
desideri insaziabili: se tu sbagli,
l'affetto per tutti i
favori di prima si versa per terra.
I buoni invece
gustano al massimo quanto ricevono,
e serbano memoria dei
beni e gratitudine in seguito".
mnh'ma d je[cous j
ajgaqw'n kai; cavrin ejxopivsw (v. 111)
In effetti abbiamo visto come la nobiltà spirituale di Saffo
non dimentica il favore ricevuto dalla dea e gliene rende merito in un rapporto
amichevole.
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Il vero riposo.
Zenone sostiene che la morte non è un male
poiché può dare gloria, e non si può porre nemmeno tra gli ajdiavfora -indifferentia-
poiché nihil indifferens gloriosum est;
mors autem gloriosum est; ego mors non est indifferens (10).
Seneca afferma
che la morte in sé non è né un bene né un male: Cato illa honestissime usus est, turpissime Brutus (13).
Si tratta non di Marco Bruto ma di Decimo Bruto, un altro
dei Cesaricidi che per ritardare la propria esecuzione chiese un indugio ad exonerandum ventrem, poi porgendo la
testa al carnefice disse “ita vivam”,
così vivessi! (12)
A queste cose istis quae a nobis indifferentia ac media dicuntur, ricchezze, forza,
bellezza, onori, potere, onori, et contra
morte, malattie, dolori, aut malitia aut
virtus dat boni vel mali nomen (14)
Comunque la morte, se non è un male ne ha l’apparenza: non
enim sic mors indifferens est quomodo utrum capillos pares an impares habeas: mors
inter illa est quae mala quidem non sunt, tamen habent mali speciem (15). Nell’uomo
c’è aspernatio dissolutionis quia videtur
multa nobis bona eripere, ripugnanza del dissolvimento.
Ma il mendico di Pascoli
dice: “ti lodo fortuna” (…) non vidi che nero, non bebbi- che fiele; ma ingrato
non sono: - ti lodo per ciò che non ebbi; - che non abbandono…discendo laggiù
tra le grame-mie genti, nel mondo che tace, -tra gli umili morti di fame-che
dormono in pace” (Il mendico da Canti
di Castelvecchio (1903-1912)
La morte è stata coperta di infamia da molti ingegni descriptus
est carcer infernus et perpetua
nocte oppressa regio in qua
(licet) Ingens ianitor Orci
Ossa super recubans
antro semēsa cruento
Aeternum latrans
exsangues terreat umbras (Eneide
VI, 400-401) con una variante presa da Eneide
VIII 296. Si tratta comunque di Cerbero
il gigantesco portinaio dell’Orco.
Ma queste sono fabulae,
storielle e i morti non hanno nulla da temere.
Cfr. Lucrezio
Tantalo rappresenta la paura degli dèi, Tizio (ha cercato di
violentare Latona e un avvoltoio gli rode il cuore) la sofferenza amorosa,
Sisifo l’ambizione del potere, le Danaidi l’insaziabilità, Le stagioni
dell’anno ci portano frutti nec tamen explemur vitai fructibus umquam
(1007).
La conclusione è hic Acherusia fit stultorum denique vita
(III, 1023).
Ma chi non ha paura
di Cerbero teme di finere nel nulla timent
ne nusquam (16). In ogni caso, fortiter
pati mortem è inter maxima opera
mentis humanae (17)
La virtù attua i propri disegni con animo risoluto
Tu ne cede malis, sed
contra audentior ito
Qua tua te fortuna
sinet (Eneide VI, 95-06) la
Sibilla a Enea con una variante (quam ). Non ricorro agli artifici e alle sottigliezze della
dialettica: pro veritate simplicius
agendum est, contra metum fortius (19)
Non servono i sillogismi per spingere a mori fortiter.
I Fabi che nel 477 vennero massacrati
dagli etruschi di Veio sul torrente Cremera e i 300 delle Termopili (480).
Leonida non fece un sillogismo: quod
malum est, gloriosum non est, mors
gloriosa est; mors ergo non malum. Invece disse: commilitones, prandēte tamquam
apud inferos cenaturi” (21)
Durante la IGP
(264-261) un tribunus (Cecidio) disse: “ire,
commilitones, illo necesse est unde redire non est necesse” Non servono circumscriptiones argomentazioni
capziose né minuta ac spinosa verba
parole miniziose e sottili.
Non trecentis sed
omnibus mortalibus mortis timor detrahi debet (23)
Magnis telis magna
portenta feriuntur, con grandi armi si devono colpire i grossi mostri. Quaedam inutilia et inefficacia ipsa
subtilitas reddit (24).
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La giornata di Seneca. Dell’ubriachezza e delle sottigliezze
degli Stoici
Hoc nos pessimos
facit, quod nemo vitam suam respicit, nessuno esamina mai la propria vita.
Pensiamo poco al passato, ancora meno al futuro, atqui consilium futuri ex praterito venit (2).
Hodiernus dies solidus
est, è tutto intero per me. Passato tra il letto e la lettura, minimum exercitationi corporis datum.
Uno schiavetto, Pharius
puer, ait nos eandem crisin habere,
quia utrique dentes cadunt (4). Sed
iam illum vix adsequor currentem et intra paucissimos dies non potero.
Andiamo in direzioni opposte: ille ascendit,
ego discendo, nec ignoras quanto ex his velocius alterum fiat” (4). Mentitus sum; iam enim aetas nostra non
descendit sed cadit.
Ab hac fatigatione
magis quam exercitatione in frigidam descendi: hoc apud me vocatur parum calda
(5). Io che Kalendis Ianuariis auspicabar
in virginem desilire, desideravo tuffarmi nell’acqua Vergine, ora mi riduco
a una tinozza. Panis deinde siccus et
sine mensa prandium, pane asciutto e pranzo senza imbadigione, post quod non sunt lavandae manus.
Le voci del circo sono come quelle del vento o delle onde e
come ceterae sine intellectu sonantes.
L’ebrietas è una voluntaria insania (18) Basta ricordare Alexandri Macedonis exemplum qui Clitum
carissimum sibi ac fidelissimum inter epulas transfodit, et intellecto facinore,
mori voluit, certe debuit.
Omne vitium ebrietas et incendit er detěgit, obstantem malis conatibus verecundiam remŏvet (19).
Euripide Baccanti
oi[nou
de; mhkevt j o[nto~ oujk estin Kuvpri~-oujd j a[llo terpno;n oujde;n
ajnqrwvpoi~ (773-774).
Terenzio, Eunuco, 732: Sine Cerere et Libero friget Venus.
Ovidio Vina parant animum Veneri, nisi plurima
sumas-et stupeant multo corda sepulta mero” (Remedia, 807-8).
Macbeth “Much drink may be said to be an
equivocator with lechery: makes him stand to and not stand to (II, 3).
perciò bere molto si può denominare colui che rende
equivoca la lascivia: la crea e la distrugge; la spinge innanzi e la tira
indietro; la persuade e la scoraggia; "makes him stand to, and not
stand to", la mette in piedi e non la tiene su, insomma la
equivoca col sonno e dandole una smentita la pianta (II, 3). In questo
monologo, "di un fine umorismo lucianesco… occorrono certe allusioni a
fatti contemporanei, che allora, cioè quando Shakespeare scriveva il Macbeth
[1],
dovevano essere a common topic[2],
o, come diremmo noi, sulla bocca di tutti, e che ci riportano a
quell'anno"[3]
(1606).
Ubi possēdit animum
nimia vis vini, quidquid mali latebat emergit. Non facit ebrietas vitia sed
protrahit (20) tum inpudicus morbum
profitetur ac publicat, tum petulans non linguam non manum continet, omne vitium laxatur et prodit, si scatena e manifesta.
Fu la intemperantia
bibendi et ille Herculaneus ac fatalis scyphus a uccidere Alessandro, a
metterlo in una tomba (Alexandrum condidit, 23)
L’ebrietas nec, minor
vino, Cleopatra Antonium perdidit (25)
L’ebrietas lo rese
nemico della repubblica e crudele: cum
vino gravis sitiret tamen sanguinis, benché pieno di vino, aveva sete di
sangue. Ebrietates continuae efferant
animos (26).
Dunque istae quae
voluptates vocantur, ubi transcendut modum poenae sunt (27)
CONTINUA
Giovanna Tocco
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