Jean-Antoine Theodore Giroust, Edipo en Colonos |
Un' espressione di umanesimo è quella che il vecchio Sofocle
attribuisce a Teseo nell'Edipo a Colono:
"e[xoid j ajnh;r w[n"(v.567),
so di essere un uomo. E' la coscienza della propria umanità senza la quale ogni
atto violento è possibile. Il sapere di essere uomo che cosa comporta?
Significa incontrare una creatura mezza distrutta come è Edipo vecchio,
provarne pietà, incoraggiarla ponendo domande: "kaiv s j oijktivsa"-qevlw &perevsqai[1],
duvsmor& Oijdivpou, tivna-povlew" ejpevsth" prostroph;n ejmou'
t& e[cwn", vv. 556-558, e sentendo compassione, voglio
domandarti, infelice Edipo, con quale preghiera per la città e per me ti sei
fermato qui. Poi significa ascoltare e comprendere con simpatia poiché siamo
tutti effimeri, sottoposti al dolore e destinati alla morte. "Anche
io-dice il re di Atene al mendicante cieco-sono stato allevato fuggiasco come
te"(vv.562-563)."Dunque so di essere uomo e che del domani nulla
appartiene più a me che a te"(vv. 567-568).
“Teseo arriva ben disposto verso Edipo, di cui conosce la
sorte e compiange la miseria-in questo modo connotandosi sin dall’inizio come
il rappresentante dei valori civili (pietà, benevolenza verso lo straniero,
accoglimento delle suppliche), tipicamente ateniesi, in contrapposizione con la
feroce Tebe, che non rinuncia a perseguitare Edipo anche in esilio, ed è
espressione di crudeltà e inciviltà, come appare dai suoi rappresentanti,
Creonte e Polinice, che compariranno successivamente sulla scena”[2].-
cfr. Edipo a Colono:
“qeoi; ga;r eu\ me;n, ojye; d j eijsorw`s j
” (v. 1536), gli dèi vedono bene, ma tardi.“E’ un tema tradizionale della
teodicea greca: gli dèi vedono tardi ma vedono bene. Il motivo era presente in
Euripide (Bacch. 882 sgg.; ved. anche
Sesto Empirico, adv. Math I 287 “i
mulini degli dèi macinano tardi (ojyev)
ma macinano bene”. L’idea che sta alla base di questa riflessione è che il
tempo degli dèi è diverso fa quello degli uomini, e che il loro operare
risponde alla legge dell’infallibile inesorabilità, non dell’istaneità della
punizione: questo motivo teologico arcaico è ripreso e ampiamente sviluppato
nel de sera numinis uindicta di
Plutarco (549d)”[3].-
nell’Edipo a Colono è
Antigone che suggerisce al padre di attenersi all’uso dei cittadini: “ajstoi`~ i[sa crh; meleta`n” (v. 171), in
maniera forse sorprendente rispetto alla protagonista del dramma Antigone.
“Questi versi costituiscono una sorta di “a parte” tra Edipo
e Antigone. E’ quasi sorprendente trovarsi in questo caso davanti a un’Antigone
conformista, nel suo predicare la necessità di adeguarsi alla morale comune
(per una massima di questo genere ved. Euripide, Bacch. 890-3…”non bisogna cercare o praticare nulla che vada al di
là delle leggi”). Sofocle vuole presentare un’altra sfaccettatura del
personaggio…Sofocle sceglie quindi di fare di Antigone nell’Edipo a Colono non l’inflessibile
portatrice di valori assoluti dell’Antigone,
ma la mediatrice, un ruolo che assumerà anche in seguito (vv. 1181-203), quando
otterrà con le sue preghiere che Edipo riceva l’aborrito figlio Polinice.
Guidorizzi commenta il silenzio (siwphv, Edipo a Colono, v. 1623) nel quale Sofocle fa
risuonare e risaltare la voce del dio che chiama Edipo: “La voce divina non può
essere inquinata dal lamento funebre, che si colloca nella sfera della morte.
C’è bisogno di una pausa di silenzio, un silenzio sacro in cui tutto tace e si
manifesta una presenza sovrannaturale, che fa sobbalzare di religioso terrore
tutti i presenti, a cui si rizzano in testa i capelli. E’ la stessa situazione,
al contempo psicologica e rituale, descritta in Euripide, Andr. 1147 quando una voce si leva dall’interno del tempio delfico
di Apollo, poco prima che gli abitanti di Delfi aggrediscano Neottolemo: ti~ ajduvtwn ejk mevswn ejfqevgxato deinovn ti
kai; frikw`de~, “qualcuno parlò dai recessi del tempio con voce
terribile, che faceva rabbrividire”; in Bacch.
1084 Dioniso parla dal cielo alle Baccanti nel silenzio del monte. In questi
casi, la presenza divina che si manifesta con le parole mantiene un contorno
indistinto (specifico è l’uso del pronome indefinito ti~), anche se si può intuire chi sia la divinità che parla
(Apollo nell’Andromaca, Dioniso nelle
Baccanti). Il favete linguis crea uno
spazio rituale in cui il sacro fa irruzione nello spazio umano e la voce del
dio può in questo silenzio essere intesa”[4].-
L’odio tra Tebani e Ateniesi è riscontrabile in diverse
tragedie: in primis l’Edipo a Colono di
Sofocle e le Baccanti di Euripide che
raffigurano una città malata, un paese guasto.
“Dopo la battaglia di Egospotami il tebano Erianto avrebbe
persino proposto di radere al suolo Atene (Plutarco, Lys. 15)”[5].
Plutarco racconta che il tebano Erianto
suggerì di radere al suolo la città e abbandonare la campagna come pascolo alle
pecore Ma Euripide, che pure era già morto da un paio di anni, salvò Atene;
durante un convito un focese cantò alcuni versi della parodo dell’Elettra (167ss. “Figlia di Agamennone,
sono giunta nella tua rustica casa”). A sentire questa poesia tutti i
comandanti si intenerirono e sembrò troppo crudele distruggere una città così
illustre che produceva uomini tanto grandi.
FINE
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