venerdì 31 gennaio 2025

Grecia 1981 Capitolo II. La pedalata dal Metauro all’Esino. La sosta a Senigallia.


 


 

Volevo imparare dell’altro dal dolore e dalla bellezza. Sapevo che non avrei sofferto più di quanto necessitava al mio scopo di apprendere.

Prima del dolore però veniva la bellezza, quella corporea  che ai miei occhi preponderava su tutto il resto nella compagna di viaggio.

Arrivati a Senigallia, facemmo una breve sosta in un bar dove negli anni futuri mi sarei fermato decine di volte andando e tornando dall’Ellade con gli amici o da solo. Alcuni luoghi, certi fatti la prima volta insignifìcanti, se ripetuti con il volgere delle stagioni, diventano ricchi di molti segni e assumono un’importanza storica nella nostra vita mortale.

Ricordo, caro lettore, l’osteria di Abony a metà strada tra Budapest e Debrecen e la prima vota che ci entrai, desolato  come un mendicante  nel luglio del 1966. Ero invecchiato anzi tempo e uscito dalla mia scassata Seicento Fiat, barcollavo, quasi brancolavo come un cieco, tanto che un ubriaco, forse un tedesco, uscendo da quella taverna si avvicinò e mi domandò: “bist du Homerus?”.

Per vincere almeno il sonno, entrai nella bettola. Volevo  bere un caffè e domandare se procedevo sulla via giusta.   Non ne ero sicuro. Tanto meno prevedevo che in quel locale avrei fatto una fermata trionfale, più volte tornando dall’Università estiva di Debrecen, ogni volta con una donna diversa, ma sempre bella, fine e innamorata di me.

 Quella sosta sarebbe diventato un rito celebrativo di trionfi erotici.

Sperarlo quella prima volta sarebbe stata follia.

Questo è il mio  mito di Abony.

Il passato gioioso ma anche quello doloroso va conservato come forza vivente che si è trasformata nell’avvenire e seguita a crescere sempre[1].

 

La  colazione a Senigallia in tanti anni seguenti adesso  significa non tanto  l’amore di Ifigenia ma la breve sosta rituale, anche religiosa, con i tre migliori amici della mia vita: Fulvio oggi amico celeste, Maddalena e Alessandro presente, vivo, e benefico, durante la pedalata ciclistica dell’estate  scorsa. Spero che non sia stata l’ultima. Per il prossimo luglio abbiamo già in programma anche con Maddalena Delfi, il Parnaso, il Citerone e Atene. Faremo senz’altro sosta a Senigallia,

 

 Dopo il caffè riprendemmo le biciclette. Pregai Ifigenia di starmi davanti. Non volevo tanto risparmiare energie quanto esaminare una per una le sue belle membra in movimento, per coglierne l’esemplarità, per sottrarle alla rovina del tempo irremeabile, alle offese crudeli degli uomini, delle malattie, dei fallimenti, e, dopo tutto questo, all’annientamento della morte, l’unico evento del tutto sicuro e inesorabile.

Osservavo i movimenti che distendevano e riaccostavano le parti del corpo nel pedalare la bici. Quindi consideravo una per una le membra dove nei primi mesi del nostro amore avevo visto l’idea del bello e quella del bene incarnate: un somatizzarsi della luce solare che è nel visibile quello che è Dio nell’ intellegibile.

Ifigenia  mi aveva dato una spinta sovrumana verso l’amore e l’arte. Poi quello splendore si era offuscato e l’immagine statuaria era diventata meno pulsante di grazia,  di gioia, di vita, anche se materialmente era rimasta  quasi perfetta.

La piccola testa, incorniciata dai capelli ondulati, sorretta dal collo lungo e sottile, oscillava sulle spalle forti e rotonde; gli occhi scuri e grandi, incastonati tra gli zigomi in rilievo, ogni tanto si volgevano indietro per vedere se tenevo il ritmo delle giovani gambe che spingevano i pedali con forza. Quegli occhi interrogativi, circondati dai folti capelli nerissimi, sembravano laghi montani circondati da una cupa foresta,  densi di inquietanti misteri. I seni cospicui fendevano l’aria come prue fornite di aplustri e assecondavano i movimenti del busto agile senza perdere la loro compattezza armoniosa.

Avrei voluto succhiarli per trarne la forza di parlare alla magnifica donna con il suo stesso linguaggio che non capivo più da quando nuovi incontri dai quali non aveva ottenuto niente di sperava le avevano torto la mente con la favella.

Tuttavia continuavo ad ammirarla.

La vita sottile connettendo con la sua snellezza le superbe sporgenze superiori e inferiori, le metteva in risalto; le natiche tornite e sode poggiate sullo stretto sellino di cuoio, non si schiacciavano né deformavano in nessun verso; quando ifigenia si rizzava sopra i pedali per superare le brevi salite dei ponti, la carne dei glutei, parzialmente visibili sotto i calzoncini succinti, non faceva una piega. Come tornava a pedalare seduta, usava soprattutto la forza delle cosce per imprimere un’energica spinta al veicolo: allora la carne fiorita e lievitata copiosamente sopra le ossa sottili, si tendeva con  vigore abbronzandosi al sole già alto nel cielo; il piccolo disco delle ginocchia connetteva  e armonizzava la tensione della coscia robusta con il turgore del forte polpaccio in deciso rilievo sopra la caviglia snella. Questa trasmetteva la spinta di tutta la muscolatura complessa ai piccoli piedi calzati di scarpette rosse.

 

Bologna 31  gennaio  2024  ore 20, 42 giovanni ghiselli

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1 1Racconto questo viaggio nel mio romanzo Tre amori a Debrecen. non compratelo: si può chiedere in prestito alla biblioteca Ginzburg di Bologna.

Ifigenia . Il viaggio in Grecia dell’agosto 1981 Capitolo I

I

La maturità in una scuola privata poi la partenza in bicicletta per la Grecia. Da Pesaro al Metauro    

 

 

Dopo l’addio di giugno andai a Pesaro dove seguitavo a acrivere la nostra storia, poi,  nel luglio del 1981 andai a fare l’esaminatore alla maturità in una scuola privata di Milano. Era un diplomificio il cui padrone tentò prima di lusingarmi poi di intimidirmi, visto che non facevo sconti all’impreparazione di certi candidati. Riuscì a mandare dei carabinieri a perquisire la stanza dell’albergo dove ero  alloggiato. Naturalmente non trovarono niente contro di me e potei bocciare una decina di studenti impreparati e immeritevoli di promozione. Il presidente della commissione mi fece i complimenti. Dal boss equivoco e prepotente non avevo mai accettato nemmeno un caffè. Mi resi conto di quanto la scuola privata fosse peggiore in tutti i sensi di quella pubblica che pure negli ultimi tre anni non aveva valorizzato la mia prepaazione, penalizzata anzi proprio per la sua qualità di gran lunga superiore alla media. Ma per lo meno nel liceo di Bologna i diplomi non si compravano né vendevano.

 

Tornato a Pesaro, intorno a ferragosto ricevetti una telefonata da Ifigenia che mi propose un secondo viaggio in Grecia dopo quello dell’estate precedente che ho già raccontato. Questa volta però bisognava andare a pregare in bicicletta perché le nostre orazioni e suppliche  avessero maggiore efficacia.

L’idea mi piacque. Ifigenia mi raggiunse a Pesaro, dormì dalla Giorgia, la zia anomala rispetto alle altre due, tanto  che copriva e  assecondava la nostra relazione addirittura compiacendosene.   Il 19 agosto  partimmo insieme per andare a pregare gli dèi  e gli eroi della Grecia.

Ci mettemmo sulla strada statale numero 16  alle sei di mattina perché dovevamo arrivare al porto di Ancona non dopo le nove. Avevamo due piccoli zaini sopra la schiena e le biciclette sotto di noi. La bella giovane si era adattata a girare come una baccante. Eravamo due zingari dionisiaci e volevamo interrogare gli oracoli sul nostro destino professionale. Io volevo progredire come maestro , lei si era stancata di insegnare e voleva fare altro nella vita, cioè recitare.

 Già da tempo aveva rinunciato alle supplenze nella scuola.

Fisicamente eravamo entrambi in ottima forma, però i nostri stati emotivi non erano equilibrati.  Eravamo accordati solo precariamente. Facevamo quel viaggio insieme forse per il gusto  di provocare e provare emozioni non buone, però utili ai nostri progetti di vita. Eravamo quasi nudi e si voleva vedere come potevamo funzionare in un contesto del tutto nuovo rispetto a quelli  vissuti in quella Bologna pure troppo civilizzata dove ci eravamo inflitti a vicenda diverse offese non perdonate e parecchie ferite non rimarginate.

 In vista di questo viaggio avevamo stabilito una tregua, tuttavia malsicura, soprattutto  durante le prime ore: bastava un’osservazione appena un poco critica per suscitare nubi e perfino temporali.

Pedalavamo dunque tra Pesaro e Fano la mattina di buonora, io avanti lei dietro, come i frati minori vanno per via. Dionisiaci ma cattolicamente allevati, seppur  renitenti e recalcitranti all’oppressine curiale.

 Per chi pedala da Pesaro in direzione di Fanum Fortunae a sinistra c’è il mare, a destra il colle Ardizio fino a metà strada segnata da fosso Seiore.

Mentre guardavo il sole che cercava di uscire dalla distesa marina a sud est della strada, mi sembrò che non ne avesse la forza: quando il suo faticoso svilupparsi dalla fredda pianura salata fu giunto a metà, mi parve che si stesse fermando così dimidiato: al posto dell’emisfero inferiore sommerso vedevo riflesso dall’acqua l’immagine rossa della metà superiore. Mi fece la sinistra impressione di una ragazza paralitica che passa il tempo seduta su una poltrona tenendo sopra le gambe atrofizzate un grande specchio rotondo per vederci riflessa la faccia ancora bella e la testa splendente di capelli lunghi, fulvi , lucenti, testimonianza del suo buon  tempo quando, ancora  tutta intera, sana e ben fatta, le gambe veloci la portavano dove voleva. Mi tornarono in mente Päivi, i carnevali fantastici, le feste gioiose dei mesi di Debrecen,  poi la nostra bambina mai nata, gli amici spariti, gli amori svaniti della mia gioventù in precipitoso declino, come l’estate dopo la metà di agosto. E mi si strinse il cuore “a pensar come tutto al mondo passa, e quasi orma non lascia”.

Il sole finalmente riuscì a svilupparsi dal mare fremente.

Arrivati vicini a Fano, non ci eravamo detti ancora nulla e pensai che fosse già tempo di  tentare uno scambio di parole: nel girare la testa verso la compagna di viaggio, la vedevo immusonita: poteva essere soltanto assonnata, ma pure scontenta di andare in Grecia con uno che non si impegnava a dire qualcosa di significativo.

Le feci segno di accostarsi, poi cominciai “Ifigenia, guarda il sole che si riflette nel mare raddoppiando il suo fuoco: non sembra una bomba atomica appena scoppiata, l’inizio della grande conflagrazione ignea che tutto distrugge, poi tutto rinnova?”

 Intendevo farle capire che speravo in un salutare rinnovamento tra noi. Ma quella, sgradevolmente colpita  dall’idea apocalittica, oltre che assonnata e già stanca, non tenne conto dell’auspicata catarsi seguita da una palingenesi: mi guardò con disappunto, fece un gesto di scongiuro e disse: “le tue fantasie catastrofiche d’ora in avanti, poeta, tielle per te, almeno mentre pedalo”.

Non risposi. Mi vennero in mente altri suoi atti e parole di questo tono, per niente cortese.

Gleli suggeriva la superstizione. Un segno di debolezza, di scarsa autostima. Questa cade ovunque come la pioggia che nelle paludi ristagna.

Sul nostro fallimento meditavo con dolore attraversando Fano ancora addormentata. Pensavo alla  bellezza corporea di Ifigenia ancora non vicina alla china da dove nessuno risale. Ma neanche troppo lontana.

“La magnificenza somatica-dicevo a me stesso che pure da anni curavo molto il mio aspetto con l’ascesi sportiva, il mangiare limitato al necessario e l’abbronzatura- se è scompagnata dall’intelligenza  e dalla virtù sfiorisce presto e lascia nell’invalidità chi ha sperato di conquistare il mondo brandendo il proprio aspetto quale arma inoppugnabile e come vessillo di supremazia.

Questa ragazza ha cambiato i modelli e rifiuta la mia educazione,  commettendo l’errore di attribuire alla propria venustà un valore assoluto, preponderante su tutti gli altri e capace di farle raggiungere qualsiasi meta.

Ma la bellezza da sola è un bene fragile e assai per tempo caduco. E’ come un ramo fiorito che il vento di aprile disfiora, è come il fiammeggiante papavero che la calura di giugno scolora, è come il grano giallo che brilla nella luce fulgente dei giorni più lunghi e belli dell’anno, finché la falce  lo miete spietata e l’avido agricoltore lo chiude nel buio di un sacco. E’ come la fragile foglia che il primo temporale di agosto strapazza, stacca dal ramo e trascina nella fangosa pozzanghera.

Soltanto i fiori dell’anima diventano i frutti che il volgere dei mesi e delle stagioni non possono involare mai.

Questi vivono eterni: il Bene che fai, l’Amore che dai e ricevi, la Giustizia che rendi, il Bello che crei, il Vero che trovi.

Ifigenia mi ha aiutato in questa ricerca, ma non posso dirglielo perché prenderebbe la gratitudine rivolta a quanto ha fatto per l’elevazione dell’anima mia come un giudizio limitativo della parte epidermica del nostro rapporto e della propria magnificenza corporea. Il fatto è che io per fruirne al massimo grado ho voluto trarne la spinta a indagare e migliorare me stesso. Facendo l’amore con lei, mi sono spuntate le ali necessarie per assurgere dalla bellezza  terrena a quella celeste”.

Questo è il riconoscimento più pieno di quanto e quale bene mi aveva fatto, ma non potevo dirglielo, siccome le sue mire puntavano su altri  bersagli  oramai, e io che seguitavo a percorre una strada in salita per potenziarmi e raffinarmi l’anima, non avevo più alcun credito presso di lei.

Provai a interessarla citando Dante che un tempo non le spiaceva.

 “Ho io grazie grandi appo te?”

Ma quella ringhiò: “Stai un po’ zitto, letterato incompreso, pedala e lasciami pedalare!”

Non gradiva più le mie citazioni, oppure le davano noia. In Grecia però voleva arrivare e anche io, pure in quella situazione penosa, siccome avrei imparato dell’altro da lei. Soffrendo molto dopo avere molto gioito.

Eravamo arrivati al Metauro dove svanì l’ultima speranza del più nobile fallito dell’antichità

 

Bologna 31 gennaio 2025 ore 19, 16  giovannighiselli

 

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Introduzione alla tragedia parte sesta. Ancora dalla Poetica di Aristotele.


 

Ora veniamo al riconoscimento.

Esso è, come dice la parola ejx ajgnoiva~ eij~ gnw'sin metabolhv (Aristotele, Poetica, 1452a, 30 ) un cambiamento dalla non conoscenza alla conoscenza.

Il miglior riconoscimento

Kallivsth de; ajnagnwvrisi~ è quello che avviene insieme con la peripezia (o{tan a{ma peripeteiva/ gevnhtai, 1452 a, 32-33) come per esempio nell’Edipo re.

Un altro tipo di riconoscimento avviene attraverso la memoria (hJ trivth dia; mnhvmh~, 1454b, 37)  come nella narrazione di Alcinoo. Si tratta  dell’Odissea  quando Odisseo si ricordò e pianse commuove sentendo Demodoco che alla corte dei Feaci canta la lite tra  Achille Pelide e lo stesso Laerziade[1]. Quindi venne riconosciuto..

 

  Varie sono le forme del riconoscimento (ei[dh de; ajnagnwrivsew~, 1454b, 20) dunque. La  più usata e più estranea all’arte (hJ ajtecnotavth) avviene attraverso  segni (dia; tw'n shmeivwn, 1454b, 21) che possono essere congeniti (suvmfuta) o acquisiti (ejpivkthta 1454b, 23). Esempio di segno congenito è la lancia che portavano sulla pelle i Ghgenei'~, i figli della terra progenitori dei Tebani, mentre i segni acquisiti possono essere ferite (oujlaiv, 1454b, 24) impresse sul corpo, come la cicatrice di Odisseo[2], oppure oggetti esterni al corpo, come collane, o  la culla a forma di barca  attraverso la quale nella Tiro di Sofocle la madre riconosce i figli Pelio e Neleo che vi erano stati esposti. Ci sono poi i riconoscimenti di secondo tipo, quelli fatti dal poeta, e nemmeno questi sono artistici.

Nell’Ifigenia fra i Tauri, la protagonista si rivela attraverso la lettera (dia; th'~ ejpistolh'~, 1454b, 34)

C’è un quarto tipo di  riconoscimento: quelli che avviene ejk sullogismou'  (1455a, 4 ), attraverso un sillogismo,  come nelle Coefore  di Eschilo, dove Elettra deduce che il fratello è arrivato, con un ragionamento fatto dopo avere trovato sulla tomba del padre "un ricciolo tagliato" (oJrw' tomai'on tovnde bovstrucon tavfw/, Coefore,  v.168)[3], una ciocca di capelli simili ai propri: qualcuno che mi assomiglia è stato qui, ma solo  Oreste mi somiglia, dunque quello era Oreste. Quindi Elettra trova un secondo  indizio: tracce di piedi simili alle sue:” kai; mh;n stivboi ge, deuvteron tekmhvrion,-podw'n, oJmoi'oi, toi'~ t j ejmoi'sin( Coefore, vv.205-206).

 Nemmeno questo è il  riconoscimento  ottimo, ma quello che deriva dagli stessi fatti (pasw'n de; beltivsth ajnagnwvrisi~ hJ ejx aujtw'n tw'n pragmavtwn1455a, 16), come nell’Edipo di Sofocle e nell’Ifigenia poiché  era verosimile voler mandare una lettera (eijko;~ ga;r bouvlesqai ejpiqei'nai gravmmata, 1455a, 19 ).

Il riconoscimento delle Coefore viene  criticato più duramente da Euripide nell'Elettra[4] dove la stessa figlia di Agamennone polemizza con il sillogismo di Eschilo proposto dal vecchio che l’ha allevata, in quanto, dice, i capelli di Oreste non possono essere simili ai miei, siccome egli è un uomo cresciuto nelle palestre; io invece sono una donna che usa il pettine; del resto molti hanno riccioli simili senza essere parenti ( Elettra , vv.527-531). Altrettanto aspramente viene confutato l'indizio delle orme che il  prevsbu~, quasi echeggiando Eschilo, le fa notare (i[cno~ajrbuvlh~, v. 532, l’impronta dello stivale), dopo i "riccioli recisi dalla testa bionda" ( Elettra, v.515). Le impronte infatti sulla roccia, replica Elettra, non restano neppure, e anche se rimanessero, quelle del fratello non sarebbero uguali a quelle della sorella, ma più grandi (Elettra, vv. 534-537). Il riconoscimento avviene comunque poco più avanti attraverso il segno convincente di una cicatrice sul sopracciglio (oulh;[5] par j ojfruvn) che Oreste si procurò da bambino inseguendo con la sorella un cerbiatto  nel palazzo del padre ( Elettra, vv. 573-574).

Ho riferito questi versi euripidei per dare un saggio di come la tendenza al ragionare  si sviluppa dal poeta più antico a quello più recente in un crescendo che, secondo i detrattori di Euripide, Aristofane e Nietzsche, giunge ad uccidere lo spirito dionisiaco e la pietà tragica.

 

Il riconoscimento è cruciale per l’avvio alla catarsi. Il non riconoscimento, nella tragedia greca quello tra Edipo e Laio, per esempio come nel Nuovo Testamento è qualche cosa di negativo. “Il non-riconoscimento sostituisce, nel mondo degli uomini, la lucida opposizione delle potenze demoniache nel mondo spirituale (il disconoscimento, il non riconoscimento potrebbe quindi essere la figura umana dell’ostilità del demone)”[6].

 

Tornando ancora alla Poetica  che mi sembra la propedeutica più seria, seppure meno brillante di altre, alla tragedia greca, Aristotele  sostiene che il pensiero (diavnoia)  mette in grado di dire quanto è possibile e appropriato (ta; ejnovnta kai; ta; aJrmovttonta1450b, 5), e questo applicato all’eloquenza è il compito della politica e della retorica : infatti gli antichi rappresentavano personaggi che parlavano politicamente, i moderni invece retoricamente  (1450b, 7-8).

Direi che i personaggi della tragedia parlano tutti politicamente.

Infatti per l'uomo greco che viveva nella povli"  democratica la solitudine dell’impolitico è una condizione innaturale :"benché si muovesse liberamente, l' individuo restava nell'ambito delle determinazioni sostanziali, nello Stato, nella famiglia, nel fato. Questa determinazione sostanziale è la vera e propria fatalità della tragedia greca, e la sua vera e propria caratteristica. La rovina dell'eroe non è perciò solo una conseguenza della sua azione, ma è anche un patire"[7].

Allora l’eroe della tragedia, secondo Kierkegaard, come per Aristotele, non è del tutto colpevole. Ma l’attenuazione della colpa non riduce la pena: “La pena è più profonda poiché la colpa ha l’ambiguità estetica[8]. La categoria della bellezza è sempre presente nei classici greci”intendentissimi del bello” come ha scritto bene Leopardi.

 

 

 

 

Quanto alle cosiddette "unità aristoteliche", per quella di tempo l'autore dice  che la tragedia "cerca (peira'tai) di stare il più possibile in un sol giro di sole o di eccederne di poco" (1449b, 13 ). Come si vede non si tratta di una prescrizione, ma, per dirla con il Manzoni che cita “il signor Schlegel”[9] approvandolo, della " semplice notizia di un fatto"[10]; eppure i critici del Rinascimento ne dedussero la regola dell'unità di tempo. Più prescrittivo è Aristotele a proposito dell'unità di azione: "la tragedia-afferma-è imitazione di un'azione compiuta e intera che abbia una certa grandezza"(1450b, 24-25), e questa non deve essere eccessiva né da una parte né dall'altra, ma offrire con la sua giusta misura una buona sinossi, o visione d'insieme (1451a, 4 ).

Quanto all’unità di luogo cui Aristotele nemmeno fa cenno, sentiamo ancora Manzoni : “è nata dal fatto che la più parte delle tragedie greche imitano un’azione la quale si compie in un sol luogo, e dalla idea che il teatro greco sia un esemplare perpetuo ed esclusivo di perfezione drammatica”[11].

 

Vediamo invece quanto prescrive Aristotele riguardo ai caratteri (peri; de; ta; h[qh, 1454a, 16 ).

“Per il filosofo il carattere è la disposizione alla virtù o al vizio quale si rivela nella  proairesis, ossia nell’intenzione etica che il soggetto, attraverso l’azione o le parole, consapevolmente esprime quando si trova ad affrontare scelte significative (Poet. 6, 1450 b 8 s.): “carattere  rivelato  dai proponimenti (perciò non hanno carattere quei discorsi da cui manca ogni riferimento a ciò che il parlante si propone o vuole evitare)”[12].

 

Insomma il carattere di una persona è dato dal suo orientamento, dalla sua preferenza, dal suo modo di scegliere (proaivresi~ appunto).

I caratteri devono innanzitutto essere buoni (crhstav). Anche la donna e lo schiavo, ammette generosamente il filosofo, possono esserlo, benché, precisa poi, la donna sia una creatura inferiore (cei'ron 1454a, 21) e lo schiavo una cosa di poco conto (fau'lon).

Aristotele è, al contrario di Platone, un cultore del senso comune anche se, come lui, è un tantino antidemocratico. Ed è forse proprio il suo senso comune quello che più annebbia la sua visione[13].

 

La seconda qualità del carattere è che sia appropriato. Alla donna per esempio non si addice essere tanto virile e terribile (oujc aJrmovtton gunaiki; ou{tw~ ajndreivan h] deinh;n ei\nai, 1454a, 23).

Quanto all’essere deinhv della donna, Medea impersona queste terribilità: così la presenta la Nutrice nel Prologo della tragedia: “ Siccome è tremenda (deinh; gavr): nessuno certo che abbia stretto/odio con lei, intonerà facilmente il canto della vittoria (Medea, vv. 44-45).

Tremenda del resto è anche l’Elettra di Sofocle con la madre, Antigone con la sorella Ismene e la Clitennestra di Eschilo con il marito.

 

La terza qualità del carattere è la somiglianza (to; o{moion, 1454a, 24). Aristotele non dice a cosa e non fa esempi; sarà la verosimiglianza, ossia la somiglianza al vero, secondo il principio della mimesi.

O magari la somiglianza co se stesso.

Poi viene la coerenza (to; oJmalovn, 1454a, 26).

Aristotele procede indicando modelli negativi: Menelao nell'Oreste[14] di Euripide costituisce un esempio di malvagità di carattere non necessaria, mentre la ragazza protagonista dell’ Ifigenia in Aulide[15] è un paradigma di incoerenza (tou' de; ajnwmavlou, 1454a, 31).

Tornerò su questi aspetti del dramma, ma intanto chiarisco che Euripide è incline a caricare di vizi e crudeltà i personaggi identificabili come “Spartani" nelle tragedie rappresentate durante gli anni della Guerra del Peloponneso[16], con lo scopo di dare un'immagine negativa della città nemica di Atene. 

Quanto a Ifigenia, quella "che supplica (hJ iJketeuvousa) non assomiglia per niente alla successiva" (Poetica, 1454a, 32).

Nella tragedia di Euripide la fanciulla prima piange e prega il padre suo di risparmiarla (Ifigenia in Aulide, vv. 1211-1252) arrivando a dire, come Achille nell’Ade, che vivere male è meglio che morire bene (kakw'~ zh'n krei'sson h] kalw'~ qanei'n, v. 1252)[17],  poi cambia idea e, con tutta l’anima nobile della quale Achille si innamora (gennaiva ga;r ei\, v. 1411), offre il suo corpo per l’Ellade: “ divdwmi sw'ma toujmo;n    jEllavdi”, v. 1397.     

In realtà è tutta la tragedia nel suo complesso che sembra voler esplorare il tema della mutevolezza psichica. Nella prima parte del dramma, infatti, a cambiare due volte parere circa l’alternativa di fronte a cui sono posti-o rinunciare alla guerra contro Troia o sacrificare Ifigenia-sono addirittura i due capi della spedizione, Agamennone e Menelao, che in maniera quasi paradossale a turno sostengono tesi speculari ed opposte”[18].

In effetti Euripide ama raffigurare slanci repentini e inopinati di giovani mossi da impulsi vari. Ma Aristotele pretende che l'irrazionale (a[logon, 1454b, 5) rimanga fuori dalla tragedia come nell'Edipo di Sofocle.

Questo mi sembra poco chiaro. Trovo piuttosto che Sofocle in questa tragedia tenda a smontare la presunzione di Edipo riguardo alle proprie capacità mentali. L’irrazionale è sottovalutato da Edipo e Giocasta per gran parte della tragedia. Per esempio nel rifiuto degli oracoli e dei segni mandati dagli dèi.

La Medea di Euripide viene criticata poiché la soluzione del racconto non avviene per effetto del racconto stesso ma attraverso una macchina (ajpo; mhcanh'~, 1454b, 2).

 Contro questa pretesa di ridurre in termini di logica il dramma dove coesistono apollineo e dionisiaco in una coincidentia oppositorum, insorgerà Nietzsche, come vedremo.

 

Interessante è anche la condanna del mostruoso, to;  teratw'de~ ( 1453b, 9): coloro che lo mettono al posto del legittimo pauroso ( to; foberovn) , "non hanno nulla in comune con la tragedia".

Ho riferito questa affermazione poiché, invece è tipico del decadentismo, e di quasi tutta l'arte del Novecento, evidenziare gli aspetti patologici e deformi della realtà, insomma il ritorno e la rivincita del Caos:"se l'umanità fosse capace di fare un sogno collettivo, sognerebbe Moosbrugger"[19] che era un idiota squartatore di prostitute, pensa il raffinato e indolente protagonista del romanzo di Musil.

 

 Notevole è pure la prescrizione secondo la quale il racconto va composto e il linguaggio  rifinito avendo sempre situati davanti agli occhi (pro; ojmmavtwn) la composizione (1455a, 23 ), ossia il poeta deve mettersi nei panni dello spettatore, "come se fosse in mezzo ai fatti stessi". Su questo punto, che costituisce sempre un ottimo monito per chi scrive, insistono  diversi autori: Nietzsche, per esempio, in La  nascita della tragedia afferma che il genio nell'atto della creazione artistica “è contemporaneamente soggetto e oggetto, contemporeanamente poeta, attore e spettatore”[20].

Stanislavskij che studia l'altro versante, quello dell’attore , sostiene che il testo debba essere esperienzializzato, siccome "il vero artista arde con ciò che gli succede intorno, è attratto dalla vita che è divenuta oggetto del suo studio e della sua passione, si pasce avidamente di ciò che vede, si sforza di marcare quanto riceve dall’esterno"[21].

E ancora: “Ricordate il mio consiglio: non si può entrare a teatro con le scarpe sporche. Pulitevi le suole prima di entrare, lasciate il fango fuori dalla porta. Lasciate in anticamera insieme alle soprascarpe, tutte le piccole preoccupazioni, i fastidi, le meschinità che avviliscono la vita quotidiana,  e vi distraggono dall’arte”[22].

Tuttavia nella tragedia greca non si richiedeva l’adeguamento emotivo dell’attore al personaggio perché gli attori non erano più di tre e ciascuno attore recitava diverse  parti e psarti diverse in un sol dramma

“Una tarda testimonianza di Apuleio (Flor. 18 comoedus sermocinatur, tragoedus vociferatur) differenzia in modo netto la recitazione degli attori comici e degli attori tragici: di tipo fortemente colloquiale l’una, molto sostenuta e incline alla declamazione potente l’altra”[23].

Qualche cosa di analogo dice Ovidio a proposito dello stile tragico e di quello comico: “Grande sonant tragici: tragicos decet ira coturnos; usibus e mediis soccus habendus erit[24], i tragici hanno un suono forte: l’ira si addice ai coturni tragici: la commedia va tratta dall’esperienza quotidiana.

 

 

Anche il coro, afferma Aristotele, deve essere parte del tutto e partecipare all'azione, al pari di uno degli attori, non come in Euripide, ma come in Sofocle (1456a, 27).

Dopo Euripide le parti cantate non sono più connesse al racconto, e dopo l’esempio dato da Agatone ejmbovlima a{/dousin (1456a, 29) si cantano intermezzi.

 

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[1]Odissea , VIII, vv. 75 e sgg. Leopardi nota la poeticità di questa situazione e di altre simili " chi non sente come sia poetico quello scendere di Penelope dalle sue stanze solamente perch'ha udito il canto di Femio, a pregarlo acciocché lasci quella canzone che racconta il ritorno de' Greci da Troia, dicendo com'ella incessantemente l'affanna  per la rimembranza e il desiderio del marito, famoso in Grecia ed in Argo; e le lagrime di Ulisse udendo a cantare i suoi casi, che volendole occultare, si cuopre la faccia, e così va piangendo sotto il lembo della veste finattanto ch'il cantore non fa pausa, e allora asciugandosi gli occhi, sempre che il canto ricomincia, si ricuopre e ripiange; e cento altre cose di questa fatta?" Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica , p. 71.

 

[2] Cfr. Odissea, XIX, 386 e sgg.

[3] Il versante tragico di quella che sarà la chioma di Berenice.

[4] Composta in una anno tra il 416 e il 413.

[5]  Cfr. il riconoscimento di Odisseo da parte di Euriclea il XIX canto dell’Odissea.

[6] J, Starobinski, Tre furori, p. 84. l’autore sta commentando l’episodio evangelico dell’indemoniato di Gerasa i cui abitanti non riconoscono Cristo (Marco, v, 1-20).

[7]S. Kierkegaard, Enten-Eller , Il riflesso del tragico antico nel tragico moderno,   Tomo Secondo, p. 24.

[8] S. Kierkegaard, Enten-Eller , Il riflesso del tragico antico nel tragico moderno,   Tomo Secondo, p. 30.

[9] A. W. Schlegel,  Corso di letteratura drammatica, (1808) Lezione X

[10] A. Manzoni, Il conte di Carmagnola, Prefazione (del 1820).

[11] Opera e luogo citati sopra.

[12] Di Marco, Op. cit., p. 137.

[13] G. Murray, Le origini dell’Epica Greca, p. 30.

[14] Del 408 a. C.

[15] Rappresentata postuma, nel 405 a. C.

[16] 431-404 a. C. Fa eccezione l’Elena (del 412), una tragedia anomala, a lieto fine, che evidenzia l’assurdità della guerra di Troia combattuta per un fantasma.  Tale giudizio contro la guerra si trova anche

alla fine dell’Elettra euripidea, quando Castore annuncia a Oreste che Elena sta arrivando, insieme con Menelao, dall'Egitto, dalla casa di Proteo, poiché a Troia non è mai andata, “Zeu;~ d  j,  wJ" e[ri" gevnoito kai; fovno" brotw'n,- ei[dwlon JElevnh~  ejxevpemy j ej~  [Ilion ” ( Elettra, vv. 1282-1283),  ma Zeus mandò a Ilio un'immagine (ei[dwlon) di lei, affinché ci fosse guerra e strage dei mortali.

 

 

[17] E' il ribaltamento della sapienza silenica che considera primo bene non essere nati, poi, come secondo, morire appena nati . "Per esprimere con impressionante efficacia il suo rimpianto per la vita, il morto Achille dice a Odisseo che lo incontra nell'oltretomba: vorrei lavorare come un thes ( qhteuevmen, Od. XI, 489)" F. Codino, Introduzione a Omero , p. 128.

Sentiamo una formulazione dostoevskijana di questo rovesciamento: “Dove ho mai letto”, pensò Raskolnikov proseguendo il cammino, “ dove posso mai aver letto che quel condannato a morte, un’ora prima dell’esecuzione, dice o pensa che se potesse vivere in cima a uno scoglio, su una piattaforma così stretta da poterci tenere soltanto i due piedi, con intorno l’abisso, l’oceano, la tenebra eterna e l’eterna procella, e rimanersene immobile su quello spazio di un metro quadrato per tutta la vita, per mille anni, per l’eternità, ebbene preferirebbe vivere così piuttosto che morire all’istante? Pur di vivere, vivere, vivere! Vivere in qualche modo, ma vivere!...Che verità, Signore Iddio, che verità! L’uomo è un vigliacco! Ed è un vigliacco chi, per questo, lo chiama vigliacco, “ aggiunse subito dopo” F. Dostoevskij, Delitto e castigo, p. 178.

[18] Di Marco, Op. cit., p. 139.

[19] L'uomo senza qualità,  I, 18, Moosbrugger.

[20] La nascita della tragedia , capitolo 5.

[21] K. Stanislavskij, Il lavoro dell’attore, p. 133.

[22] Op. cit, p. 176.

[23] M Di Marco, Op. cit., p. 90.

[24] Remedia amoris, 375-376.