venerdì 17 gennaio 2025

Ifigenia 251. La visione dei due tramonti: prima da Someda poi da casa.


 

Tornai dal gommista: l'automobile non era pronta.

Per impiegare attivamente il tempo necessario, andai a camminare verso

Someda situata  sopra il rio San Pellegrino. Dall'altra parte del torrente

che scorre nel fondo della convalle stretta come una gola, c'è La

Campagnola e la strada del passo che porta a Belluno.

 Da bambino, appena potevo sfuggire alla zia Mina, camminavo per di

là, in direzione del valico. Prima passavo davanti a una cisterna

d'acqua che rumoreggiava. Fantasticavo che fosse un deposito di

armi degli austriaci, i nemici della mia patria, come mi

insegnava il maestro fascista di quinta elementare, invece di parlarmi di Mozart, di Musil, di Freud, o almeno dell'ottima amministrazione asburgica

nel Lombardo-Veneto. Giravo con un ramo in mano,

impugnandolo come un fucile, che tuttavia non bastava per

conquistare l'armeria sorvegliata da una decina di quegli odiosi

soldati in divisa bianca, nitidi ma feroci oppressori; allora pensavo di farla saltare con delle mine. Ma poi ci ripensavo, poiché ammazzare in maniera così vile, sebbene coloro fossero tanto perfidi e crudeli, mi ripugnava.

Allora proseguivo finché vedevo la fortezza nemica sorgere sulla

strada che percorreva l’altro lato della covalle. Decidevo di minarla mentre era sguarnita del presidio, uscito per vessare il paese italiano.

Però dovevo superare il vuoto compreso tra le due pareti della

stretta convalle. Scendevo a precipizio per un burrone ripido e

tetro, tutto ombreggiato da fitti rami di abeti. Arrivato in fondo,

guadavo il torrente saltando sui sassi emergenti dall'acqua gelida e

cupa nel pomeriggio inoltrato di fine agosto, quindi risalivo su per

l'altro pendio, altrettanto scosceso ma soleggiato poiché volto a

occidente e privo di alberi. Però c'era l'erba alta, dove potevano

stare nascosti in agguato serpenti e scorpioni. Tutto questo mi

faceva paura, mi emozionava, salvandomi dalla noia della  continua

solitudine, mi spronava a ribellarmi alle zie che mi volevano

debole, terrorizzato, sottomesso a qualsiasi forma di autorità.

Quando arrivavo in alto, osservavo la valle di Fassa. Facevo

attenzione all'ombra del Sas da Ciamp che sovrasta la malga

Panna: appena aveva oscurato il prato di Sorte e la chiesa con il

cimitero, dovevo tornare di corsa, poiché la zia voleva vedermi

prima del tramonto, sennò telefonava al soccorso alpino che

rintracciava i bambini dispersi, e li salvava dalla morte per freddo

o per lupi, ma li picchiava anche, e con mano pesante. Ero stato

avvertito. Andavo comunque di fretta fino al fortino austriaco per

farlo saltare in aria e liberare intanto i Moenesi.

Quando lo vidi da vicino la prima volta, rimasi deluso: invece di

mitragliatrici e cannoni, nel prato antistante c'erano pacifici arnesi

da contadino, tanto sterco di mucca, e un cartello con la scritta

"Proprietà privata ". Ad ogni buon conto io lo minavo e fuggivo a

gambe levate finché la strada era piana. Poi ripercorrevo le due

pareti della convalle: una scivolando sull'erba, l'altra

inerpicandomi tra le ombre del bosco e della sera, semiterrorizzato.

Quando arrivavo alla Campagnola, la zia diceva:

"Dove sei stato per conciarti in quella maniera? Quando ti metterai

tranquillo come i bambini normali? Oramai le vacanze sono finite!

Non sei ancora sazio di correre, scalmanarti, azzardare? Non sei

mai stato prudente!".

Per fortuna non aspettava che rispondessi, ma continuava a

rimproverarmi per un pezzo; sicché non dovevo dirle la verità, né

una bugia. Quando si era placata, tornavamo a casa, in via

Damiano Chiesa. In agosto, alle sette di sera, dalle finestre del

tinello, se non c'erano nuvole, si vedeva ancora un poco di luce

solare sulle rocce più alte. Era fredda e leggera, come se vi  fosse

stata dipinta, o cosparsa, quale polvere rosa. Più a lungo che

altrove resisteva sulla cima del Sassolungo, all’estremo nord del Catinaccio.

Osservare gli ultimi raggi raccolti dalle vette infreddolite, era

come fruire di un secondo tramonto.

La luce trascolorante tardava a scomparire tutta, e, mentre

assumeva le tonalità più delicate, sembrava intenerire le aspre

pietraie dove i palpiti estremi del dì indugiavano come bambini

che non vogliono andare a dormire quale ero io, o come vecchi renitenti a

morire quale sono diventato oggi.

 

Tali ricordi rimuginavo il 16 marzo del 1981 mentre camminavo

sopra il rio San Pellegrino, dalla parte illuminata.

 

Bologna  17 gennaio 2025 ore 11, 56 giovanni ghiselli

p. s.

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