NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

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giovedì 13 febbraio 2014

Verità e menzogna nei miti e nelle opere delle letterature greca e latina

Conferenza che terrò al liceo Copernico di Bologna giovedì 20 febbraio 2014.
Alcune parti di questo percorso entreranno anche nelle lezioni che terrò nell’Università Primo Levi di Bologna dal primo marzo 2014.
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Partiamo dall’etimologia della parola greca ajlhvqeia, “verità”.
ajlhvqeia: è una parola chiave in tanti testi, ed è formata da aj- privativo e dalla radice laq- lhq- presente in lanqavnw, “rimango nascosto, ignorato, latente” (cfr. latino lateo).
 Quindi significa “non latenza”.  
 E pure “non dimenticanza”, siccome lanqavnomai significa “dimentico”.

Sentiamo una riflessione di Heidegger su questa non-latenza dei Greci
I Greci “dovettero sempre strappare l’essere all’apparenza e proteggerlo contro di essa. (L’essere è, infatti, come non-latenza).
Solamente nel perdurare della lotta tra essere e apparenza essi sono giunti a conquistare l’essere all’essente e a condurre l’essente alla stabilità e alla non latenza: gli dèi e la città, i templi e la tragedia, gli agoni ginnici e la filosofia; ma tutto ciò nel bel mezzo dell’apparenza dovunque in agguato, assumendola seriamente, coscienti della sua potenza.
E’ solo con la sofistica e con Platone che l’apparenza viene intesa come mera apparenza e così declassata.
Contemporaneamente l’essere viene, come ijdeva, innalzato in luogo ultrasensibile.
Viene a delinearsi così la separazione, cwrismov~, tra l’essente meramente apparente, quaggiù, e l’essere reale situato, in qualche luogo, lassù.
In tale frattura si stabilirà in seguito la dottrina del cristianesimo la quale reinterpreterà nel contempo il termine inferiore come creato e il superiore come creatore; con le quali armi, così rifuse, si rivolterà contro l’antichità (intesa come paganesimo) fino a snaturarla.
Nietzsche ha dunque ragione di dire: il cristianesimo è un platonismo per il popolo…Nella concezione dei primi pensatori greci l’unità e l’antagonismo dell’essere e dell’apparenza possedevano una potenza originaria. Ma è nella poesia tragica greca che tutto questo è stato presentato nella forma più alta e più pura.
 Pensiamo all’Edipo re di Sofocle.
 Edipo, che all’inizio è il salvatore e il capo dello Stato, nel pieno splendore della sua gloria e della benevolenza accordatagli dagli dei, viene in seguito discacciato da questa apparenza-la quale non è una semplice veduta soggettiva che Edipo ha di se stesso, ma ciò in cui si verifica l’apparire del suo esserci-fino a che si verifica la non-latenza del suo essere come uccisore del padre e profanatore della madre.
La via intercorrente da quell’inizio glorioso a questa fine orribile è tutta una lotta fra l’apparenza (latenza e contraffazione) e la non latenza (l’essere). La latenza dell’uccisore dell’ex re Laio si accampa, per così dire, tutt’intorno alla città. Con la passione di chi si trova nel pieno splendore della sua gloria, con la passione di un greco, Edipo s’inoltra verso la rivelazione di questo suo segreto.
Egli deve così, passo passo, porsi da se medesimo nella non-latenza che non riesce, alla fine, più a sopportare che a patto di cavarsi gli occhi da se stesso, sottraendosi così a ogni luce e lasciando cadere intorno a sé la tenebra che tutto nasconde, e come uomo abbacinato gridando di spalancare tutte le porte per rivelarsi al popolo per quello che è.
Non dobbiamo tuttavia scorgere in Edipo soltanto la caduta di un uomo, ma riconoscere in lui quel tipo di uomo greco in cui quella che è la sua passione fondamentale, la passione per la rivelazione dell’essere, ossia la passione della lotta per l’essere stesso, risulta spinta al massimo e nel modo più selvaggio.
Hölderlin nella poesia In lieblicher Bläuer blühet…, ha questa espressione profetica: “Il re Edipo ha forse un occhio di troppo…” Quest’occhio di troppo costituisce la condizione fondamentale di ogni grande domandare e di ogni grande sapere, ed è altresì il loro unico fondamento metafisico. Il sapere e la scienza dei Greci sono questa passione”[1].
La ricerca della verità è dunque nella tragedia ricerca della non latenza dell’essere. E non solo nell’Edipo re. I personaggi di Sofocle lottano e spesso muoiono per scoprire e salvare la propria identità.
Antigone si oppone alla latenza del suo carattere che Creonte vorrebbe imporle e dice: “non sono nata per condividere l’odio ma l’amore”, quindi viene imprigionata e si uccide.
Aiace non può sopravvivere all’oscuramento alla latenza della sua identità eroica e si uccide dopo avere detto: “l’uomo nobile deve vivere nella bellezza o nella bellezza morire”.
Neottolemo del Filottete non accetta di lasciarsi pervertire da Odisseo, la consumata volpe.
Teseo aiuta Edipo, nell’Edipo a Colono, poiché “sa di essere uomo” e questa è la sua quidditas, la sua essenza, la sua non latenza.

La  latenza  non verità accettata da alcuni personaggi e autori
Viceversa nelle Baccanti di Euripide, Cadmo suggerisce al nipote Penteo di ammettere che Dioniso, altro nipote, è figlio di Zeus, anche se non è vero:
“ O figlio, Tiresia ti ha consigliato bene.                                                       
Stai con noi, non fuori dalle norme.
Ora infatti vaneggi e, pur avendo facoltà mentali, non sai farne uso.
Anche se questi non è un dio, come dici tu,
tiello per te: e afferma con una menzogna bella
che lo è, perché sembri che Semele abbia generato un dio,
e a noi e a tutta la stirpe si aggiunga onore (vv. 330-336).


Non mancano autori che si sottraggono alla verifica e accolgono nei loro scritti anche la latenza che cela la verità.
 Arriano[2] 
a proposito della morte di Alessandro, Arriano riporta una notizia alla quale non crede, della quale anzi afferma che dovrebbero vergognarsi quanti l’hanno scritta: che il macedone, sentendosi morire, voleva gettarsi nell’Eufrate per sparire accreditando la fama di una sua assunzione in cielo, in quanto nato da un dio.
 Glielo impedì Rossane ed egli le disse che lo privava della gloria di essere nato dio.
Ebbene lo storiografo di Nicomedia precisa che ha riportato queste notizie wJ" mh; ajgnoei'n dovxaimi perché non sembri che io le ignori, più che per il fatto che esse sembrino pista; ej" ajfhvghsin, (7, 27, 3) credibili a raccontarle.  

In modo simile  Curzio[3]:“Equidem plura transcribo quam credo: nam nec adfirmare sustineo, de quibus dubito, nec subducere, quae accepi” (9, 1, 34), per conto mio riporto più notizie di quelle cui presto fede: infatti non me la sento di confermare notizie delle quali non sono sicuro, né di sottrarre quelle che ho ricevuto.
Quindi, a proposito  del cadavere di Alessandro che giaceva nel sarcofago da sei giorni, trascurato, e, nonostante il caldo estivo, il corpo non era degenerato: “ Traditum magis quam creditum refero (10, 10, 12).

In Curzio Rufo lo stesso Alessandro Magno afferma che  la menzogna, la latenza, può essere funzionale   al potere e al successo bellico
 
La guerra, allora come ora, era fatta pure di propaganda e i duci ne erano consapevoli. Alessandro Magno, dopo la scoperta della seconda congiura: quella “dei paggi”[4] affermò che ricevere il nome di figlio di Giove aiuta a vincere le guerre: “Famā[5] enim bella constant, et saepe etiam, quod falso creditum est, veri vicem obtinuit” ( Historiae Alexandri Magni,  8, 8, 15), le guerre sono fatte di quello che si fa sapere (attraverso la propaganda), e spesso anche quanto si è creduto per sbaglio, ha fatto le veci della verità[6].


 Dopo la conquista della rupe di Aorno (326 a. C.) Alessandro magnae victoriae speciem fecit [7], creò l’apparenza di una grande vittoria con sacrifici e cerimonie in onore degli dèi.

Simile affermazione si trova nelle Storie di Livio, dove il console Claudio Nerone, in rapida marcia contro Asdrubale, che verrà sconfitto poco dopo, sul fiume Metauro (tra Fano e Senigallia, 207 a. C.) arringa brevemente i soldati dicendo: “Famam bella conficere, et parva momenta in spem metumque impellere animos” (27, 45), quanto si dice decide le guerre, e circostanze anche piccole spingono gli animi alla speranza e alla paura.


La dichiarazione metodologica di Curzio Rufo e di Arriano risale a Erodoto[8]: lo storiografo di Alicarnasso ha scritto a proposito della diceria secondo la quale le ragazze indigene con penne di uccello spalmate di pece traevano pagliuzze d’oro da un lago situato in un’isola posta davanti alla costa africana : “tau'ta  eij mh; e[sti ajlhqevw~ oujk oi\da, ta; de; levgetai gravfw” (4, 195, 2), queste cose non so se sono vere, ma quello che si dice lo scrivo. E più avanti a proposito di un’intesa tra i Persiani e gli Argivi: “ejgw; de; ojfeivlw levgein tav legovmena, peivqesqaiv ge me;n ouj pantavpasin ojfeivlw” (7, 152, 3), io sono tenuto a dire le parole dette, a credere a tutte invece non sono tenuto.

Tucidide invece nei capitoli metodologici si propone di eliminare le favole dei miti intarsiate di iridescenti bugie[9] che vanno oltre la verità  e traggono in inganno.
Leggiamo dunque quanto scrive il padre della storiografia politica:" e la  mancanza del favoloso to; mh; muqw'de"  di questi fatti , verosimilmente, apparirà meno piacevole all'ascolto ej" me;n ajkrovasin " Storie, I, 22, 4.

Il favoloso già secondo Cicerone[10] caratterizzava il racconto di Erodoto e caratterizzerà quelle di Teopompo, un rappresentante della tendenza retorica, di scuola isocratea, che scriverà le Storie Filippiche e le Elleniche che continuavano la Storia di Tucidide fino al 394, cioè fino alla battaglia di Cnido.
“Qualche volta mi è venuto il sospetto che Tucidide vedesse Erodoto come un Cleone tra gli storici. Sia Cleone sia Erodoto cercavano di piacere ai loro lettori: agli occhi di Tucidide entrambi erano demagoghi”[11].
Cleone è uno degli obiettivi polemici di Tucidide e di Aristofane. Il commediografo mette in risalto e in ridicolo la volontà del demagogo beniamino del popolo di confondere tutto
Nei Cavalieri  (424 a. C), Cleone è chiamato “borborotavraxi” (v. 307), il mescola-fango: egli si comporta come i pescatori di anguille i quali, se mettono sottosopra il fango, le acchiappano: “kai; su; lambavnei", h]n th;n povlin taravtth/" (v. 867), anche tu arraffi, se scompigli la città,  gli fa il salsicciaio.
La confusione è la negazione della verità. 
La mescolanza di genti diverse nella Firenze del Trecento suscita lo sdegno di Dante: “Sempre la confusion delle persone/principio fu del mal della cittade” ( Paradiso , XVI, 67-68).
 Nelle Anime morte di Gogol’ (1842) un farabutto suggerisce di confondere le idee per rendere impossibile il compito di fare giustizia: “Confondere, confondere: e nient’altro…introdurre nel caso nuovi elementi estranei, che coinvolgano altri, complicare e nient’altro. E che si raccapezzi pure il funzionario pietroburghese incaricato. Che si raccapezzi…Mi creda, appena la situazione diventa critica, la prima cosa è confondere. Si può confondere, aggrovigliare tutto così bene che nessuno ci capirà nulla” (p. 375).
 Ancora a proposito di confusione, C. Marx, commenta Shakespeare [12] scrivendo che nel denaro il grande drammaturgo inglese rileva:"la divinità visibile, la trasformazione di tutte le caratteristiche umane e naturali nel loro contrario, la confusione universale e l'universale rovesciamento delle cose" [13].

Tucidide dunque rifiuta l’incantamento delle favole per perseguire la verità effettuale.
Ammiratore incondizionato di Tucidide, come di Machiavelli, di Tacito, e del realismo il quale fa apparire"più conveniente andare drieto alla verità effettuale della cosa, che alla immaginazione di essa"[14] è Nietzsche.
Nel Crepuscolo degli idoli [15] lo storiografo greco è indicato addirittura come terapia contro “ogni platonismo”:" Il mio ristoro, la mia predilezione, la mia terapia  contro ogni platonismo è sempre stato Tucidide . Tucidide e, forse,Il Principe  di Machiavelli mi sono particolarmente affini  per l'assoluta volontà di non crearsi delle mistificazioni e di vedere la ragione nella realtà -non nella "ragione", e tanto meno nella "morale"...In lui la cultura dei sofisti , voglio dire la cultura dei realisti  giunge alla sua compiuta espressione : questo movimento inestimabile, in mezzo alla truffa morale e ideale delle scuole socratiche prorompenti allora da ogni parte. La filosofia greca come décadence  dell'istinto greco: Tucidide come il grande compendio, l'ultima rivelazione di quella forte, severa, dura oggettività che era nell'istinto dei Greci più antichi. Il coraggio di fronte alla realtà distingue infine nature come Tucidide e Platone: Platone è un codardo di fronte alla realtà-conseguentemente si rifugia nell'ideale; Tucidide ha il dominio di -tiene quindi sotto il suo dominio anche cose".

“ Tucidide esprime nella maniera più esplicita la consapevolezza di rappresentare qualcosa di assolutamene nuovo e di assai importante: in effetti, rinunciare al fine edonistico della narrazione, alla ricerca del gradimento degli ascoltatori e alle pubbliche letture (almeno come destinazione primaria dell’opera), per puntare sul fine utilitaristico e su una fruizione più meditata e attenta, quale si poteva avere solo con la lettura, significava operare una svolta profonda e radicale sul piano del metodo, dei contenuti e dei moduli espressivi rispetto alla storiografia tradizionale”[16].
Tucidide rifiuta le fabulae  imprimendo sulla storiografia quella svolta pragmatica che "è valsa ad affermare l'identificazione tra storia e politica"[17].

Luciano in Come si deve scrivere la storia  riconosce la validità della legislazione storiografica di Tucidide e, pertanto, sostiene che neppure è dilettevole ciò che nel racconto storico è totalmente favoloso ("oujde; terpno;n ejn aujth'/ to; komidh'/ muqw'de"", 10).
Quindi l'opuscolo lucianeo  confuta gli autori i quali, per ottenere applausi anche dalla turba e dalla feccia, trascurano i critici severi e addolciscono la storia oltre misura con favole, encomi ed altre lusinghe ( "h]n de; ajmelhvsa" ejkeivnwn, hJduvnh/" pevra tou' metrivou th;n iJstorivan muvqoi" kai; ejpaivnoi" kai; th'/ a[llh/ qwpeiva/", se tu trascurando quelli, addolcisci..) facendone qualcosa di simile ad Eracle in Lidia, il quale, asservito ad Onfale, cardava la lana avvolto in vesti color zafferano e sopravvesti di porpora e ogni tanto veniva colpito dal sandalo della donna (paiovmenon uJpo; th'"  jOmfavlh" tw'/ sandalivw/, 10).
 Lo storico (suggrafeuv", 41) dunque secondo Luciano deve essere impavido, incorruttibile, libero ( a[fobo", ajdevkasto", ejleuvqero")  amico della parola schietta e della verità e (parrhsiva" kai; ajlhqeiva" fivlo"), giudice imparziale (i[so" dikasthv",), indipendente (aujtovnomo"), non soggetto ad alcun potere (ajbasivleuto"), obiettivo espositore dei fatti accaduti (tiv pevpraktai levgwn,) come Tucidide che diede queste norme senza sbagliare:"  JO d j ou\n  Qoukudivdh" eu\  mavla tou't j ejnomoqevthse", 42).
“All’ideale storiografico della seconda sofistica Luciano oppone un ideale che ad un’ epoca malata non dice alcunché, l’ideale dell’obiettività pura; questa poteva avere un senso all’epoca di Tucidide, ma non aveva senso in un periodo che nella imitazione paludata cercava di nascondere la minaccia di una dissoluzione delle forme antiche”[18].

 Tacito segue la lezione di Tucidide, quando scrive:"conquirere fabulosa et fictis oblectare legentium animos procul gravitate coepti operis crediderim "(Historiae , II, 50), crederei lontano dalla serietà dell'opera intrapresa cercare il favoloso e divertire gli animi dei lettori con delle invenzioni. Tucidide ha dato dunque una lezione di realismo che Tacito seguirà, e pure Marziale[19], e anche Machiavelli, come rileva Nietzsche, il quale vede il movimento contrario, retrogrado dalla realtà, nel Platonismo e ancor più nel cristianesimo: “ forma fino ad oggi insuperata di mortale avversione contro la realtà”[20].

La conclusione del capitolo programmatico di Tucidide:    
"ma sarà sufficiente che li giudichino utili quanti vorranno esaminare la chiarezza degli avvenimenti accaduti e di quelli che potranno verificarsi ancora una volta, siffatti o molto simili, secondo la natura umana" Storie  I, 22, 4.-

Euripide polemizza con i miti dei poeti, opponendosi alle tradizioni per appellarsi ad una legge superiore, in particolare quando critica le divinità olimpiche e fa dire, per esempio, al protagonista eponimo dell’ Eracle  (vv.1345-1346) : il dio, se è veramente dio, non ha bisogno/ di nulla e queste sono miserabili favole di aedi" ajoidw'n oi[de duvsthnoi lovgoi".



Nelle Fenicie [21] di Euripide, Polinice afferma la parentela della semplicità con la giustizia e con la verità:"aJplou'" oJ mu'qo" th'" ajlhqeiva" e[fu,-kouj poikivlwn[22] dei' ta[ndic' eJrmhneuavtwn" (vv. 469-470), il discorso della verità è semplice, e quanto è conforme a giustizia non ha bisogno di interpretazioni ricamate.

Seneca cita questo verso traducendolo così: “ut ait ille tragicus ‘veritatis simplex oratio est’, ideoque illam implicari non oportet” (Ep. 49, 12), come dice quel famoso poeta tragico “il linguaggio della verità è semplice”, e perciò non deve essere complicata.

Notare che mu`qo~ e ajlhvqeia non sono in contrasto: l’ossimoro è nei termini, non nei dati di fatto.
Invece l' a[diko" lovgo" , il discorso ingiusto, siccome è malato dentro, ha bisogno di artifici scaltri:"nosw'n ejn auJtw'/ farmavkwn dei'tai sofw'n" (Fenicie, v. 472).

Il parlare, e lo scrivere, in maniera  incomprensibile nascondono la verità.
Schopenhauer polemizza con la filosofia (hegeliana) delle università, fatta di "ghirigori che non dicono nulla, e offuscano con la loro verbosità perfino le verità più comuni e più comprensibili"[23]
In latino Lucrezio condanna gli stolti che ammirano e amano quanto rimane nascosto sotto parole contorte:"omnia enim stolidi magis admirantur amantque/inversis quae sub verbis latitantia cernunt "( De rerum natura, I, 641-642), gli stolti ammirano e amano di più tutto ciò che scorgono nascosto sotto parole contorte.
Dunque l’oscurità del linguaggio è funzionale alla latitanza della verità.
Quindi Cicerone:"quae sunt recta et simplicia laudantur"[24], ricevono lode gli aspetti schietti e semplici.
L’apparenza violenta la verità
La verità è semplice in quanto è complessità risolta, eppure a molti rimane indigesta e costoro le preferiscono l’apparenza.
Nella Repubblica di Platone  Adimanto, un  fratello del filosofo, cita  Simonide: “ l'apparire violenta anche la verità:" to; dokei'n...kai; ta;n ajlavqeian bia'tai" ( Repubblica, 365c).

Nell’Oreste di Euripide, il protagonista  afferma che  il sembrare prevale, anche  sta lontano dalla verità, krei`sson de; to; dokei`n, ka]n ajlhqeiva~ ajph`/ (236).

Giovanni Ghiselli





[1] Introduzione alla metafisica, pp. 115-116..
[2] 90-170  d. C.-  Anabasi di Alessandro in sette libri.
[3] Scrisse sotto il regno di Claudio, poco dopo la morte di Caligola. Compose le Historiae Alexandri Magni in dieci libri. Non ci sono arrivati i primi due.
[4] Avvenuta in Sogdiana, l’attuale Uzbekistan, nella primavera 327 a. C
[5] Cfr. fhmiv. La gente non solo vive e mangia ma pure fa e interpreta la guerra seguendo il “si dice”. Seneca:"nulla res nos maioribus malis implicat quam quod ad rumorem componimur " (De vita beata , 1, 3), nessuna cosa ci avviluppa in mali maggiori del fatto di regolarci secondo il "si dice".
[6] Cfr. Historiae Alexandri Magni, 3, 8, 7 dove Dario, prima della battaglia di Isso (novembre 333),  dice “famā bella stare”. Come nelle Eumenidi di Eschilo, le parti in conflitto hanno un pensiero comune.
[7] Curzio Rufo, Historiae Alexandri Magni, 8, 11, 24.
[8] V secolo. Storie con le guerre persiane in nove libri
[9] Cfr. Pindaro, Olimpica I,
Certo sono molti i portenti, e in qualche modo, credo, anche le favole,
diceria dei mortali oltre la verità, 30
intarsiate di iridescenti bugie,
traggono in inganno. (vv. 29-32)
[10]"et aput Herodotum, patrem historiae, et apud Theopompum sunt innumerabiles fabulae". De legibus  I, 5.
[11] A. Momigliano, Lo sviluppo della biografia greca, p. 41.
[12] Il quale nel Timone d'Atene chiama l'oro "comune bagascia del genere umano"; l'universale mezzana che "profuma e imbalsama come un dì di Aprile quello che un ospedale di ulcerosi respingerebbe con nausea" (IV, 3)   
[13] Manoscritti economico-filosofici del 1844, p. 154.
[14]Machiavelli Il Principe , XV.
[15]Quel che debbo agli antichi , 2,  pp. 125-126.
[16] Mauro Moggi, Op. cit., p. 2300.
[17]Canfora, Teorie e tecnica della storiografia classica , p. 12.
[18] S. Mazzarino, L’impero romano, 2, p. 331.
[19]Non hic Centauros, non Gorgonas Harpyasque/invenies: hominem pagina nostra sapit "(X, 4, 9-10), non qui troverai Centauri, Gorgoni e Arpie: la nostra pagina sa di uomo.

[20] L’anticristo, p. 48.
[21] Composte intorno al 410 a. C.
[22] Si ricordi quanto si è detto a proposito della poikiliva (21. 3).
[23] Parerga e paralipomena p.210, vol.I
[24] Cicerone, De officiis, I, 130.

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