L'avevo ammirata
per la prova di forza e di volontà. Mi era sembrata una persona in gamba,
cosciente di quanto voleva, e capace di conseguirlo, soprattutto se
incoraggiata. Poteva essere una metafora della vita umana, della nostra in
particolare.
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Nei due giorni
seguenti, Ifigenia alternò un'allegria forzata e rumorosa con una muta e cupa
stanchezza. In certi momenti mi si appoggiava addosso con tutto il peso del
corpo statuario e della piccola testa; a volte appariva estranea, quasi
ostile alla mia persona, più sbigottita però che malevola. Seguivo i suoi
sbalzi mentali con pena, ma non disperavo di arrivare a capire le cause più
vere di tanto squilibrio che mi contagiava. Comunque volevo comprendere per
quale ragione non funzionasse più l'amore con quella ragazza che pure aspirava
all'arte, e aborriva la vita ostile alle Muse della gente borghese. Questo
almeno era quanto affermava lei stessa, con la sua bocca. Era bugiarda?
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Gli ultimi giorni
di maggio Ifigenia temeva l'esame di recitazione, ed era sempre più
squilibrata. Io ne soffrivo senza potere aiutarla. Infatti, come ebbe avuto
il commento scritto al dramma di Horváth
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e lo ebbe
approvato con salamelecchi infiniti, per due dì e due notti non si fece
vedere né sentire, onde impiegare tutto il tempo, le emozioni e le forze nella preparazione della prova d'esame,
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suppongo.
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Io rileggendo i
poeti greci e latini, annotavo alcuni versi belli assai e confacenti al mio
stato d'animo. Li trascrivo, sperando di indurti, lettore, a studiarne con
amore i volumi .
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Ottima è l'acqua[1].
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E bruciarono nella
solitudine[2] .
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Mi manca l'occhio
dell'esercito[3].
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I fiumi della
notte tenebrosa eruttano un'oscurità infinita[4].
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Nessuna delle
fatiche mi si presenta nuova o inattesa: io ho
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presofferto tutto[5].
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Non sapere in
anticipo, è assenza di pensiero[6]
.
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Il pomeriggio di
giovedì 28 maggio Ifigenia mi telefonò e mi diede l'angoscia. Mi fece capire
che con me si annoiava, mentre si sentiva viva e reale quando preparava
l'esame di recitazione che
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pure la
terrorizzava. Intanto si emozionava nel lavoro preparatorio che la teneva in
contatto con il regista, con i compagni e con il testo; poi, sabato sera, si
sarebbe eccitata nel rapporto con il pubblico cui oltretutto avrebbe fatto
vedere il corpo inguainato in una calzamaglia molto aderente e diafana. Nel
locale notturno, il Maxim, su un palcoscenico di cabaret, Marianne
doveva apparire
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per diversi
minuti vestita soltanto delle mutandine e di una guaina color carne,
attillatissima e trasparente. Il regista, quello panciuto, forse per
valorizzare o sfruttare la bellezza della ragazza, aveva enfatizzato e
prolungato la scena, facendo mimare uno Zeppelin dai movimenti più o meno aerei delle belle
membra di lei. Questo non mi faceva piacere, ma non era un elemento che
scatenava ire o tristezze. La sera comunque ero depresso: la notte prima non avevo
dormito per il tormento del raffreddore da fieno, e quel giorno avevo
dubitato delle mie capacità di scrivere quel
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capolavoro che da
diversi mesi oramai mi premeva molto più della pudicizia e dell'amore stesso della mia compagna sviata. Mi veniva
in mente Catullo: un consolatore per gli amori non contraccambiati e dolenti.
Alcune sue parole, se ne sostituivo una soltanto, si confacevano bene alla
mia pena amorosa: “Non iam illud
quaero, contra me ut diligat illa, / aut ( quod non potis est)
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esse pudica velit; ipse scribere
opto et taetrum hunc
deponere morbum. / O di, reddite mi hoc pro pietate mea"[7].
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Questo poeta piaceva
molto anche ai ragazzi: per il fatto che scriveva di amore e non voleva
sapere se Cesare fosse bianco o nero[8]
. I giovani infatti
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erano diventati
impolitici.
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I telegiornali
del regime parlarono a lungo dello scandalo della P2. Sperai che la questione etica diventasse attuale e urgente per molte coscienze.
Ero triste. Pertini invece scherzava con i giornalisti. L'arzillo vecchietto
diceva: "Bisogna prendere le cose con animo lieto, altrimenti è
finita".
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"Infatti da
non pochi anni – pensai - affaristi, assassini e mafiosi si sganasciano dalle
risate".
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All'una di notte
telefonò un'altra volta Ifigenia. Disse solo: "Sono io. Vieni a
prendermi davanti all'Antoniano". Stavo studiando Menandro per lei. Ci
andai rapida mente. Mi aspettava,
sola,
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sulla soglia
dell'edificio che contiene la scuola, una chiesa, un cinema, e chissà quali
altri locali. Era scura in volto, quasi adirata. La salutai, la feci entrare
nell'automobile, le domandai come fossero andate le prove.
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"Male – rispose
- Questa sera al regista non sono piaciuta".
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"Come
mai?" le chiesi, ostentando stupore. A lei infatti dicevo che la credevo
brava, e forse ne ero convinto.
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"Non voglio
parlarne; non questa sera. E' tardi. Portami a casa subito".
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Arrivata, mi
salutò appena. La odiavo. Pensavo: "Stai attento, perché quella ha preso
tanto potere su te da usarti e trattarti come il suo autista. Ma non un servo
amico di cui si fida; tu sei il lacché tenuto a distanza e spregiato, quello
cui la padrona non si degna di rivolgere lo sguardo altero né la parola superba".
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Ebbi anche il
sospetto che mi avesse tradito: le altre volte che, dopo le prove, si era fatta
accompagnare a casa, mi aveva chiamato intorno alle undici e mezzo: strano
tale spostamento
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dell'orario, e
ancora più strano il fatto che, avendo tutta la compagnia terminato le prove
all'una, lei si trovasse già sola davanti al portone all'una e cinque minuti.
Il malumore e il non guardarmi in faccia mentre le facevo un piacere, poteva
essere segno di un incontro erotico, probabilmente malriuscito, con il regista
o con un attore. Forse quello che faceva la parte di Alfred: si chiamava
Felice, e Ifigenia doveva baciarlo, per esigenza di copione, nella scena sul
bel Danubio, al suono del valzer Voci
di primavera.
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"Il Danubio è morbido come un velluto".
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"Come un velluto".
“Pensa male ché
non ti sbagli” mi venne in mente[9].
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Giovanni Ghiselli
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Ad maiora!
[1] Cfr. Pindaro, Olimpica
I , v. 1.
[2] Cfr. Pindaro, Nemea X , v. 72.
[3] Cfr. Pindaro, Olimpica
VI, v. 18.
[4] Dovrebbe essere la
traduzione di un frammento di Pindaro, ma non ne sono sicuro.
[5] Cfr. Eneide, VI, vv.
103-105
[6] Cfr. Pindaro, Olimpica
VIII , 60.
[7] Cfr. Catullo, Carmi, 76, 23-27. Non chiedo più quello, che ella
contraccambi il mio amore, o, (cosa che non può essere) che voglia essermi
fedele; io desidero scrivere (ma nel testo
catulliano c'è valere, stare bene) e mettere via questo male oscuro.
O dei, datemi questo in cambio della mia devozione.
[8] Cfr. Catullo, Carmi, 93.
[9] Probabilmente
dal Mestiere di vivere di
Pavese
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