NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

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giovedì 27 febbraio 2014

La scuola corrotta nel paese guasto Quattordicesimo capitolo



Monte Donato

La degnazione della diva. I pensieri del 30 maggio trascritti in forma incondita. Ifigenia  quale simbolo di un'età egoista e nichilista, senza alcun principio né scopo se non il conseguimento dell'utile personale e immediato. Il farfugliare truffaldino dei politici obesi. Progetto e schemi di una nuova tragedia. La  prova a cronometro su per la salitaccia del monte Donato

Dopo l'esibizione, Ifigenia si sentiva una stella: venne a casa mia e acconsentì a fare l'amore, ma con degnazione nemmeno tanto celata. Nuda e distesa sul letto, non aveva smesso di recitare; anzi si dava insopportabili arie da attrice famosa. L'accompagnai a casa sua, provando rancore per lei e per me stesso che continuavo ad amare una donna del genere.
Il giorno seguente, sabato trenta maggio , la ragazza passò la giornata a concentrarsi sull'esame di recitazione, io a riflettere sulla decadenza e rovina del nostro rapporto. Mancavano meno di due settimane alla caduta finale.
Trascrivo i pensieri di quel giorno lontano, inconditi come li trovo nel diario:
"Ecco perché il secondo anno ho smesso di amarla: vedevo già i segni dell'egoismo volgare che ora sta dispiegando in tutta la sua piatta, ottusa e immensa grandezza. Adesso mi sfrutta apertamente, non dissimula nemmeno i sentimenti cattivi, non nasconde l'illusione ridicola di valere molto più di me, e di avere migliori possibilità che stare con me. Prende tutto come se le fosse dovuto, senza apprezzare il  tempo che impiego per il suo esame, anche a discapito del lavoro mio. E' un prodotto tipico di quest'età superba e vuota. Maggior mi sento[1]. Già è ingrata e superficiale di sua natura, poi il mondo istrionico ha esercitato un'influenza funesta sul suo carattere. Una seduzione cattiva che non riesco a controbattere. Ho usato tutte le forze di cui disponevo. Non le ho sprecate però. Quello che non ho insegnato a lei (onestà, giustizia e così via), l'ho imparato per me e per la prossima femmina umana, chiunque ella sia.
Ora prova fastidio della mia serietà, del rigore che lei stessa mi consigliava quando ci teneva, e come, a stare con me, poiché voleva essere aiutata; allora aspirava a essere la mia unica donna, non sopportava di condividermi con altre, mentre io facevo l'esteta, il seduttore insofferente di impegni morali, incapace di scelte radicali e definitive.

“Laudata sii, Diversità/delle creature, sirena/del mondo! Talor non elessi/perché parvemi che eleggendo/io t’escludessi,/o Diversità, meraviglia/sempiterna”[2], mi dicevo in quel tempo. Ora però le nostre situazioni si sono capovolte: Ifigenia sguazza nella corruzione, nell'ingiustizia e nell'estetismo mediocre; io tendo a diventare morale: a scegliere il bene e la vita. In questo tempo doloroso ho reso migliore me stesso, non lei. Oramai è meglio perderla: il suo comportamento rozzo e cattivo versa nell'anima mia un veleno composto di noia e dolore. Ho ancora meno in comune con quella che con una borghese soddisfatta e convinta che almeno ha viaggiato, ha visto qualcosa e ne può parlare. Ifigenia per l'arte non ha una passione autentica, altrimenti studierebbe; per il teatro non possiede un vero talento, né un interesse profondo; se non fosse così, non punterebbe tutto sull'offerta del corpo a maestri famosi; esperienze di vita con me non ha voluto farne, tranne la bicicletta e quel paio di viaggi dove del resto si è comportata da parassita : insomma ha soltanto la smania del successo comunque, e lo strumento della sua potenza fisica disposta a correre rischi di ogni natura: un mezzo valutato troppo, per il fatto che con me ha funzionato, ma inadeguato al nuovo fine: a ottenere un lasciapassare dai maschi più cattivi che buoni, posto che abbiano la volontà di darglielo, o ne siano in grado. Io sono riuscito a trovare anche mito e poesia in una poveretta del genere; quelli sui quali ora la disgraziata punta tutto, probabilmente la useranno senza ascoltarla, senza scoprire niente in lei, a parte la carne di cui si pasceranno come fanno i lupi con le pecore: materia scambiata con una speranza di applausi e lustrini.
Da quando ha fatto questa puntata folle su un destino di gran rinomanza, mi ha escluso dal suo amore e dalla sua intimità spirituale. Del resto ha ancora  bisogno di me, perciò continuerà a strumentalizzarmi e a lasciarmi usare la sua bellezza finché le sarà utile. Veramente Ifigenia è un simbolo dell'epoca nostra: egoista e nichilista, senza alcun principio oltre l'utile. Fa come Poppea: “Unde utilitas ostenderetur, illuc libidinem transferebat”[3]. Che se ne vada è cosa soltanto buona. Io devo restare solo, indagare me stesso, tentare la rivoluzione morale. Da questo dolore devo ricavare un messaggio di eticità autentica, del tutto diverso dal farfugliare truffaldino dei politici obesi che quando aprono le bocche voraci, i denti da pescecane, simulano competenze inesistenti mentre dissimulano tutta la vergognosa avidità che li anima. E corrompono il popolo, soprattutto i giovani. Quella ragazza, come tanti coetanei suoi, è peggiorata con il clima politico e con i costumi generali. La scelleratezza massima di questo regime di ladri è il cattivo esempio che dà alla gente. Dalla nostra miserabile storia, rappresentativa del triennio nel quale si è svolta, devo trarre la luce e i semi di una nascita nuova. Potrebbe essere una tragedia neoclassica: eschilea per la presenza della Giustizia, sofoclea per lo scavo psicologico dei personaggi, euripidea per la descrizione della decadenza di una civiltà.
Un'opera che ponga la questione morale in termini inquietanti per tutti. Partendo dal nostro rapporto infelice, siccome immorale, devo comunicare il messaggio che non può darsi felicità senza moralità. Potrebbe esserci un coro di giovani desiderosi del Bene. Ragazzi che rifiutano non solo i professori incolti, ma tutti i cattivi maestri di questa era guasta che ci rende disperati.
Lo schema potrebbe essere questo:
I Atto. Ci conosciamo a scuola. Parliamo delle nostre vite di edonisti-esteti, dediti al piacere e al culto della bellezza.
II Atto a Debrecen. Miei sospetti e angosce. Un'occhiata all'Europa, con una retrospettiva fino al 1966. L' infelicità sessuale di quel periodo. Dialoghi con le finniche degli anni '70 per mostrare la cultura di quel decennio felice. Peggioramento dei rapporti umani già dal 1979.
III Atto. A Pesaro. Colloqui con le zie pretificate. Arriva Ifigenia. Serie difficoltà.
IV Atto. Mia emozione per Lucia, altra supplente bellocciua. Dialoghi a scuola.
V Atto. Emozione di Ifigenia per il ballerino. Loro colloqui. Lui le parla del mondo dello spettacolo e la affascina. Epilogo e soluzione ancora da trovare".

Appena ebbi finito questo programma, sentii suonare le campane di una chiesa vicina. Poteva essere l'assenso divino al mio piano.
Anche quando Ifigenia arrivò stremata sul monte delle formiche, i rintocchi del santuario diedero un segno.  Forse dovevo fare un altro tentativo per  indurla a considerarsi una persona morale e razionale. Potevo  spiegarle quanto avevo pensato e progettato. Se l'idea del secondo dramma le fosse piaciuta, se ne avesse provato interesse, magari saremmo risaliti dalla buca fangosa dove eravamo caduti anche perché da tanto tempo oramai non avevamo più progetti ma solo ricordi comuni. Se avesse collaborato, ce l'avrei fatta. Mi aveva detto che dovevo continuare a scrivere, che ne ero capace. Finalmente avevo qualcosa di propositivo da dirle. Poteva darmi un'altra volta un compito impegnativo, difficile: ci avrei messo il meglio delle mie forze, non avrei più avuto l'angoscia. Il fine nobile e universale, era educare il popolo, massime i giovani; quello più personale e pratico, competere con i registi, gli attori e tutti i maschi di prestigio che Ifigenia avrebbe incontrato facendo l'attrice. Per emularli e batterli, dovevo creare una grande opera d'arte, costruirmi una fama più vasta e duratura di quella che loro, i già famosi, avrebbero potuto sbattere in faccia alla donna mia per portarsela a letto.

"Se voglio continuare a fare l'amore con lei, devo avere successo attraverso lo scrivere.  In fondo per arrivare a lei, nel '78, ho dovuto compiere un'impresa che tre anni prima mi sarebbe sembrata irrealizzabile. Nell'autunno del '75 infatti ero un velleitario del tutto incolto. Sciupavo il mio tempo in chiacchiere vane. La mia preparazione professionale era fatta di manuali, paradigmi e giornali. Sicché quando ho avuto l'incarico di latino e greco al Rambaldi di Imola, quasi nulla sapevo. Meno dei ragazzi più bravi sapevo. Avevo di buono che non sapevo nemmeno simulare. Né lo volevo. Per sopravvivere ho dovuto contare sulla loro pazienza, e non vergognarmi troppo della loro pietà. Bravo come ero stato da studente sui banchi del Mariani di Pesaro, quando cominciai da insegnante liceale, dovetti accettare il fatto che molti ragazzi e, quel che è peggio, ragazze, non mi ascoltassero, e che alcuni addirittura leggessero un libro o un giornale. Non mi cacciarono per compassione, credo. Fino a Natale in terza facevo lezione tremando. A casa studiavo, studiavo sempre. Giorno e notte studiavo. Per ogni venti versi di traduzione dell’Edipo re, per ogni dieci righe di Tacito, mi leggevo un libro di critica. In gennaio dai banchi sparirono tutti i giornali, e in maggio allieve e allievi prendevano appunti. Il secondo anno, al Binghetti, fin dal primo giorno, erano molti quelli che scrivevano le mie parole. Avevo studiato pure d'estate. Il terzo anno raggiunsi il successo. Poi, all'inizio del quarto, il premio: la super-ragazza ventiquattrenne. “Ce l'ho fatta - mi dissi - oh Dio, ce l'ho fatta.” Deve andare così un'altra volta.
Qualche anno, due, tre, anche dieci o più, di sacrifici inumani, se necessario, poi il capolavoro, la gloria, la fama. Se ti riesce, lei ti ama di nuovo. O magari trovi di meglio. Un amore morale. Una di stile elevato e di anima nobile. Insomma una grande donna, bella e fine".
A questo punto mi feci due obiezioni: "Che gusto c'è a fare l'amore con una che ti ama soltanto nel caso che tu abbia successo?"
Poi: "Se Ifigenia, invece di aspirare al teatro, avesse mirato a studiare con serietà, non sarebbe stato tutto più semplice e bello?"
Non mi diedi risposta: non ne potevo più di pensare; inoltre erano già le sette di sera, e se volevo fare un giro in bicicletta prima di andare a vedere  il suo esame, dovevo sbrigarmi. Anche tu lettore,
suppongo, sarai stanco di una ruminazione mentale che aveva stremato uno come me, allenatissimo all'almanaccare. Andai a cronometro su per il monte Donato. Feci un buon tempo con un rapporto più duro del solito.
"La marcia in più – pensai - che riesco a usare quando il pensiero di lei mi mette alla prova". Avevo pedalato con leggerezza e potenza; così avrei scritto il mio capolavoro; così avrei superato tutti i registi e gli attori famosi nella sua stima. Il sole tramontò vicino a S. Luca alle 20 e 34 minuti. Gli chiesi il successo per la mia compagna e per me. Quindi tornai velocemente a casa, feci la doccia e mi avviai verso il teatro. Avevo indossato un vestito di lino azzurro su una camicia bianca e mocassini rossicci. Ero teso.

giovanni ghiselli a Polina

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[1] Cfr. Leopardi, Il pensiero dominante: "Di questa età superba,/che di votesperanze si nutrica,/vaga di ciance, e di virtù nemica;/stolta, che l'util chiede,/einutile la vita/quindi più sempre divenir non vede,/maggior mi sento" vv. 59-65.
[2] D’Annunzio, Laus Vitae, vv. 46-52.   La Sirena del Mondo
[3] Tacito, Annales, XIII, 45, volgeva la libidine là dove si mostrava l’utile.

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