Ludwig II |
Il cozzo
mentale a Moena. La cena da Lamma, a Bologna. Mario Bemporad. Ifigenia e Luciana.
Alle dieci di sera
eravamo al Brennero. Il cielo era tutto stellato: pensammo che il giorno dopo
avremmo potuto abbronzarci sulle nevi del Lusia; perciò ci dirigemmo a Moena.
Arrivammo verso la mezzanotte. Prendemmo la stanza dove avevamo litigato e
fatto l'amore in giugno. Anche questa volta ci fu uno scontro duro, sebbene
non dichiarato. Un cozzo mentale. Ci spogliammo ed entrammo nel letto. Dopo
un poco dissi: "Sei sempre bellissima. Mi piaci ancora parecchio".
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Speravo che rispondesse per lo meno: "Anche
tu non sei male". Osservandomi nei
folti specchi di Linderhof non mi ero convinto del tutto di non essere
ingrassato e ingoffito. Ifigenia
non replicò. Allora ripetei le medesime parole con voce più alta. E lei: "Buonanotte.
Adesso voglio dormire. Ho tanto sonno, tesoro".
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"Maledetta –
pensai - Dormi e vai in malora. Presto ne troverò una non peggiore[1]
di te .
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Alcuni mesi più
tardi Ifigenia disse che aveva odiato e sofferto anche lei durante quello
scontro assurdo, causato dalla miseria mentale e morale di entrambi. La
ragazza aveva creduto che avessi
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voluto
significarle: "tu mi piaci ancora, nonostante la tua età non sia più
tanto tenera e verde".
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La mattina
seguente il sole c'era, ma l'aria non ne veniva scaldata a sufficienza perché
Ifigenia male attrezzata potesse salire sui monti dove comunque
l'abbronzatura è incrementata dall'altitudine. Restammo nel fondovalle con
mio disappunto e malumore: mi dava fastidio fare una rinunciare qualsiasi per
quella megera. Mi appariva una figura buoi, oscurata dalla stupidità. Forse
non solo sua. Alle tre del pomeriggio partimmo. Arrivammo a Bologna all'ora
di cena e andammo a mangiare da Lamma. Quando ci fummo seduti entrò Mario
Bemporad, una strana, nota figura di professore anziano e malato, soprattutto
di mente. Un uomo sofferente in quanto convinto
di avere sciupato le proprie capacità di scrivere. Io al genio inespresso non
credo, altrimenti dovrei dolermi di essere un Coppi o uno Zatopek mancato.
Sono sicuro che un grande talento, se c'è, trova il modo di manifestarsi.
Bemporad era comunque e persona sensibile, intelligente a suo modo, e colta,
sebbene una malattia, dice lui, lo avesse inceppato a vent'anni, impedendogli
di fare le letture che avrebbe dovuto per coltivare il suo talento. Da Omero
a Eliot, tutti gli scrittori classici e neoclassici avrebbe voluto studiare.
Quando ebbi preso una certa domestichezza con i Greci e i Latini insegnati al
liceo, una volta gli offrii un aiuto per riprenderne la lettura diretta, ma
egli rifiutò con voce alta e
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sdegnata:"Che
cosa vuoi che me ne faccia di Omero, Eschilo, Sofocle, Euripide, Platone,
Catullo, Orazio, Virgilio, Sallustio e Tacito soltanto? Io voglio leggere
tutto, tutto, assolutamente tutto, oppure, piuttosto che questa miseria,
assolutamente nulla!". Così non se ne fece niente.
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Tale era il tipo.
La gente comune, usuale, quella che può ritenersi normale data l'immensa
volgarità dell'epoca, lo disprezzava e canzonava; alcuni lo maltrattavano
anche. Io, oltre rispettarlo siccome infelice, lo trovavo interessante,
talora perfino educativo, quasi sempre quale contromodello del resto, e per
tempi assai limitati, in quanto temevo il contagio della debolezza sua. Comunque,
finché lo frequentavo, ero gentile e disponibile ad ascoltarlo con
attenzione: il vecchio sentiva la necessità di raccontare la pena del suo
fallimento.
Una volta
d’estate lo portai a Pesaro, a casa mia.
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Appena arrivato
volle andare a nuotare. Dopo qualche bracciata, tornò a riva e svenne. Disse
che non mangiava da due giorni. Quella sera dunque, entrato da Lamma, si diede a girare tra i tavoli con aria
esplorativa e implorante. Guardava se conosceva qualcuno per sedersi vicino e
parlare. Era alto, di età non definibile, con una curvatura stranamente
deforme in cima alla spalla sinistra. Le labbra esangui e semiaperte
lasciavano intravvedere una chiostra di denti radi, sbrecciati; lo sguardo
degli occhi grandi, scuri conservava un bagliore fioco e intermittente. Con
una mano si appoggiava su un bastone nodoso, con l'altra di tanto in tanto si
toccava la schiena gemendo. Camminava in maniera maldestra: barcollava e sembrava
sempre in procinto di stramazzare sul duro pavimento con tutta la sua
affaticata lunghezza; si piegava su un lato, poi si raddrizzava di scatto,
come se un attimo prima di ogni caduta dolorosa, forse letale, con uno sforzo
titanico riuscisse a trovare energia sufficiente per rialzarsi e procedere
lungo il suo faticoso cammino. Sembrava un eroe bersagliato dai colpi di un
destino tenacemente ostile, eppure
incapace di averla vinta su una pena così antica e tanto temprata da infinite
sciagure. Temo che quella cara persona non ci sia più, siccome saranno venti
anni che non lo incontro.
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Come ci vide, si
mosse verso di noi: sapeva che non sarebbe stato respinto né trattato con
scortesia. Può sembrare ovvio: il minimo dovuto a un infelice, eppure a
Bologna in tanti gli davano la baia, come ho già detto. Alcuni lo umiliavano,
altri lo picchiavano addirittura. Fin da quando ero matricola l'avevo notato
quale ecce homo vilipeso e deriso negli ambienti accademici e
studenteschi della città. Già in quel tempo lontano provai compassione per
lui e sdegno per i suoi persecutori sadici e vili: goliardi e fannulloni vari
che bivaccavano presso l'Università più antica del mondo. Più o meno
fascisti.
Anche i camerieri
di Lamma del resto non gli risparmiavano dosi massicce di motteggi e
gomitate. Come fu giunto vicino al nostro tavolo, l'infelice mi salutò, poi,
invitato, sedette. Sebbene digiuno, non volle mangiare. Lo feci parlare, ponendogli
diverse domande, poiché sapevo che di questo aveva bisogno, e anche perché da
lui potevo imparare qualcosa. Le sue frustrazioni di fondo erano due: non
avere scritto un capolavoro e non avere mai baciato una donna. Del resto non
sapeva che cosa avrebbe dovuto scrivere e quale femmina umana avrebbe voluto baciare.
Disse che quando era studente nel Liceo classico di Ferrara, in italiano scritto
superava di gran lunga Bassani: "Altro che Giorgio ero bravo a scrivere
io!"
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"Poi che
cosa è successo?" domandai incuriosito.
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"A vent' anni
mi è caduta la mannaia sul collo". Proseguì. Accusando, oltre le
persecuzioni razziali, i parenti che non gli volevano bene e non lo hanno
aiutato. Tutto questo gli aveva spezzato il talento e la vita. Il vecchio
amico non assolse neppure se stesso: il colpo di grazia se lo era dato da
solo. "Sono io l'omicida di quest'uomo" disse indicandosi con dito
tremante. Si era ucciso moralmente quando aveva messo in mani cattive il
potere sulla propria persona. "Tu non farlo mai. Mai!" gridò con
tono ieratico, mentre mi fissava con occhi ispirati. Trasfigurato, sembrava
più grande a vedersi, e parlava come ispirato dalla potenza molto vicina di
un dio, al pari della Sibilla cumana[2]:
"Qualunque disgrazia possa capitarti, tu non tradire te stesso e non
cedere ai mali!” Aveva ragione. Lo capivo bene. Non glielo dissi, siccome non
mi avrebbe ascoltato, ché la disgrazia vera di tali infelici è la perdita dell’attenzione
per gli altri. Anche io, vent'anni prima, avevo fatto uno sbaglio quasi
mortale. Invece di potenziare le mie qualità tenendo gli occhi aperti sul
mondo, mi ero lasciato avvilire da persone di formato men che mediocre. Mi
giudicavano brutto e incapace. In
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effetti di una
vita da servo dei luoghi comuni, non ero, non sono capace. Sapevo fare di più
e di meglio, ma non ne avevo coscienza. Ero diventato brutto poiché non
credevo in me stesso.
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Dopo il liceo,
avevo perso la soddisfazione, l’orgoglio di essere raro, diverso dalla gente
usuale. La sfiducia partiva da un indebolimento mio, contagiava le donne di
casa, incoraggiava la malevolenza di quanti avevano
sofferto i miei successi sportivi e scolastici. Mi massacrarono finché
lasciai fare. Mi addentarono, mi squarciarono, come una muta sbrana l'animale
ferito che sanguina e perde vigore. Ma sui ventitré anni reagii, con uno
sforzo titanico mi rialzai e cominciai a recuperare le forze. Mi aiutò il
grande movimento antiborghese del '68. Viaggiai, incontrai qualche persona
per bene: diverse donne e un amico, Fulvio. Che Dio li benedica, insieme con
tutti i miei alunni, poiché la salvezza definitiva venne dal rapporto vivo
con loro. Dopo il primo anno di insegnamento avevo recuperato il favore di me
stesso, e l'autogestione della mia vita.
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L'amico anziano
invece si accusava da solo di avere sotterrato i suoi talenti[3]
, commettendo peccato contro se stesso. Mi faceva bene incontrarlo e
ascoltarlo. Mi metteva in guardia contro le mie debolezze. Mario parlava.
Ifigenia non lo ascoltava né gli rivolgeva lo sguardo. Quanto diceva non la
interessava: lei non temeva di sciupare i talenti. Forse perché sentiva di
non averli. Guardava in giro cercando di farsi guardare. Io ne soffrivo e la disprezzavo.
Trovavo più interessante e pregevole il vecchio. Mi venne in mente una sera
del giugno del '78. Stavo cenando da Lamma con Luciana ventenne, quando entrò
Mario Bemporad con aria implorante,
ci vide e, invitato, venne a sedersi con noi. La ragazza lo ascoltò con
attenzione, lo guardò con simpatia, gli chiese di rimanere con noi quando lui
accennò ad alzarsi; poi, come fummo soli, disse che quell'uomo le aveva fatto
compassione: che bisognava aiutarlo. A casa ci pianse. E' di un'altra stoffa
spirituale l'amica veneta. Luciana ha un’anima. Sa provare pietà in quanto è
dotata di immaginazione. Finita la cena, riportai Ifigenia da suo marito e
tornai a casa mia. Scrissi qualche parola sul viaggio. Mi tormentava il
pensiero che avrei potuto fallire i miei bersagli, l'arte e l'amore, come
Ludwig secondo di Wittelsbach-Baviera e come Mario Bemporad, ebreo di
Ferrara. Due personaggi che mi piacevano molto poiché avevo non poco in
comune con loro.
Andai a letto
promettendomi l'amore, necessario a me stesso, e l'opera letteraria che
dovevo all'umanità. Però prima bisognava conoscere una donna di grande formato
spirituale e trovare qualcosa di interessante per tutti da raccontare.
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Giovanni ghiselli
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[1] C'è il ricordo del tovpo" letterario
antieroico dello scudo abbandonato. Il prototipo,
che io sappia, è Archiloco. Dopo avere confessato di averlo lasciato presso
un cespuglio, il poeta di Paro esclama: "ejrrevtw: ejxau'ti" kthvsomai ouj kakivona", vada in malora, al
posto suo me ne procurerò un altro, non peggiore.
[2] Cfr. Virgilio, Eneide,
VI, 45 sgg.
[3] Cfr. Vangelo secondo Matteo, 25, 25: "et timens abii et abscondi talentum tuum in terra", ebbi paura e andai a
nascondere il tuo talento sotto terra.
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