Bologna, giorno
dei morti 2014
Ancora
sul caso Cucchi e su tutte le vittime della prepotenza.
Il
potere è cosa buona solo se si pone al servizio dei sudditi.
Il
cristiano Alessandro Manzoni vede nel potere un nucleo di male che può essere
annullato solo se l’uomo che ha potere lo impiega in favore e al servizio dei
suoi concittadini, capovolgendosi di fatto da padrone a servitore.
Nella tragedia Adelchi il protagonista eponimo ferito a morte dice al padre
Desiderio, il re dei Longobardi sconfitto dai Franchi di Carlo Magno: "Godi
che re non sei; godi che chiusa/all'oprar t'è ogni via: loco a gentile/ad
innocente opra non v'è: non resta/che far torto, o patirlo. Una feroce/ forza
il mondo possiede, e fa nomarsi/Dritto (V, 8)".
Questa
“feroce forza” è il diritto del più forte. Quello per cui gli Ateniesi
massacrarono gli abitanti della piccola isola di Melo, come ci racconta
Tucidide nel V libro delle sue Storie.
Quello per cui sono stati assolti gli aguzzini di Giuseppe Uva, Federico
Aldrovandi, Stefano Cucchi e chissà quanti altri.
La
stessa feroce forza per cui il ministro degli esteri Gentiloni, appena
nominato, ha detto che farà di tutto perché restino impuniti i marò italiani
che hanno ucciso due pescatori indiani. Pescatori la cui vita evidentemente
agli occhi di tale potere vale ancora meno di quella dei poveri ragazzi ammazzati
di botte dalla polizia. Questi almeno hanno ricevuto una certa solidarietà
postuma da una parte dell’opinione pubblica.
La
sventura del re e del principe longobardo dunque è la stessa ossimorica
“provvida sventura” che ha collocato la loro figlia e sorella Ermengarda “in
fra gli oppressi” cioè tra le “orbate spose dal brando”, le “vergini indarno
fidanzate”, le “madri che i nati videro/trafitti impallidir” (Adelchi, II Coro)
Perdere
il potere dunque non è un fatto positivo poiché il potere è un’occasione per
esercitare la prepotenza.
A
questo proposito, Platone chiama in causa Omero che ha rappresentato Tantalo,
Sisifo e Tizio "ejn jAidou to;n
ajei; crovnon timwroumevnou""(525e),
puniti nell'Ade per sempre: questi erano appunto re e dinasti; mentre Tersite,
e chiunque altro sia stato malvagio da privato cittadino ("ijdiwvth"") non ha avuto occasione di fare tanto male, e
per questo si può considerare più fortunato dei potenti dai quali provengono
"oiJ sfovdra ponhroiv" (Repubblica, 526a) quelli malvagi assai.
A
meno che, ho premesso, il potere sia un servizio.
Sentiamo
come lo dice Manzoni in I Promessi sposi
presentando il Cardinale Federigo Borromeo: "Egli, persuaso in cuore di
ciò che nessuno il quale professi cristianesimo può negar con la bocca, non ci
esser giusta superiorità d'uomo sopra gli uomini, se non in loro servizio,
temeva le dignità, e cercava di scansarle; non certamente perché sfuggisse di
servire altrui; ché poche vite furono spese in questo come la sua; ma perché
non si stimava abbastanza degno né capace di così alto e pericoloso servizio.
Perciò, venendogli, nel 1595, proposto da Clemente VIII l’arcivescovado di
Milano, apparve fortemente turbato, e ricusò senza esitare. Cedette poi al
comando espresso del papa " (cap. XXII).
Edipo
nella più famosa tragedia di Sofocle lamenta gli intrighi che circondano il
potere “O ricchezza e potere e arte[1] che
prevale/ sull'arte[2] nella vita piena di
competizione/quanta invidia si serba accanto a voi (o{soς par
j uJmĩn oJ fqovnoς fulavssetai),/ se per questo regno che,
regalato,/non richiesto, la città mise nelle mani mie/ da questo, Creonte, il
fedele, l'amico della prima ora/fattomisi sotto di nascosto, desidera
cacciarmi/dopo avere subornato un tale astrologo[3], tessitore di frodi/ imbroglione,
accattone, che nei lucri/ soltanto ha imparato a vedere, ma quanto all'arte è
cieco di natura. (Edipo re, vv. 380-389).
Il
potere viene smontato anche dallo Ione di Euripide, dove il protagonista
sostiene la superiorità della vita ritirata su quella oberata dalle cariche:
"del potere lodato a torto/l'aspetto è dolce, ma dentro il palazzo/c'è il
dolore (tajn dovmoisi de; - luphrav): chi infatti è felice, chi
fortunato/se, temendo e guardando di traverso (dedoikw;" kai;
parablevpwn), trascina/il corso della vita? Preferirei vivere/da popolano
felice piuttosto che essendo tiranno ("dhmovth" a]n eujtuch;" - zh'n a]n qevloimi ma'llon h]
tuvranno" w[n"),/il
quale si compiace di avere amici malvagi,/mentre odia i generosi per paura di
attentati " (Ione, vv. 621-628).
Anche
una grande quanità di denaro non interessa a Ione che non vuole stare a sentire
rumori (yovfou~ kluvein, 630) né avere pene cercando di
salvare la ricchezza: preferisce un benessere moderato senza dolore (ei[h g jj ejmoiv (me;n) mevtria mh; lupoumevnw/ 632).
Giocasta
nelle Fenicie di Euripide si oppone
al figlio Eteocle il quale “incentra tutto il suo elogio della tirannide sul
"di più"[4]. La madre obietta: "tiv d j e[sti to; plevon; o[nom j e[cei
monon:/ejpei; tav g j ajrkounq j iJkana; toi'" ge swvfrosin", vv. 553-554, che cosa è il
più? ha soltanto un nome; poiché il necessario basta ai saggi.
Le
ricchezze non sono proprietà privata dei mortali, noi amministriamo quelle
ricevute dagli dèi i quali quando vogliono, a turno[5],
ce le portano via di nuovo. Infatti i mortali non possiedono le ricchezze come
cose proprie, esse sono degli dèi e noi le amministriamo (vv. 555-556).
Pure
Isocrate maledice ricchezza e potere: cfr. Areopagitico[6],
4: "ajlla; suntevtaktai kai;
sunakolouqei' toi'" me;n plou'toi" kai; dunasteivai" a[noia kai;
meta; tauvth" ajkolasiva",
ma alla ricchezza e al potere è coordinata e segue la pazzia e con questa la
licenza.
Del
resto, e torniamo alle Fenicie di
Euripide, Giocasta propugna l'uguaglianza più in generale: "kei'no kavllion, tevknon, - ijsovthta tima'n" (Fenicie, vv. 535-536), quello è più bello, figlio, onorare
l'uguaglianza; infatti essa è legge cosmica: "nukto;" t j ajfegge;" blevfaron hJlivou
te fw'" - i[son badivzei to;n ejniauvson kuvklon" ( vv. 543-544), l'oscura
palpebra della notte e la luce del sole percorrono uguale il ciclo annuo.
Ora
se il sole e la notte si assoggettano a queste misure[7],
domanda la madre, tu non tollererai di avere una parte uguale del palazzo (su; d j oujk ajnevxh/ dwmavtwn e[cwn i[son, v. 547) e di attribuire l'altra a
tuo fratello? E dov'è la giustizia? Perché tu la tirannide, un'ingiustizia
fortunata (tiv th;n turannivd j,
ajdikivan eujdaivmona,
v. 549), la onori eccessivamente e pensi che sia un gran che?
Pensi
che essere guardati sia segno di valore? E' cosa vuota (kenovn,
v. 551) di fatto. O vuoi avere molte pene con molte cose nella casa?
Nelle
Fenicie di Seneca, Giocasta aggrava
la negatività del potere dicendo a Polinice che Eteocle pagherà a caro prezzo
il fio della sua prepotenza con il fatto di essere re: "poenas, et quidem
solvet graves:/ regnabit. Est haec poena.” Questo è il fio da pagare (v.645-646).
Un
altro anatema del "bene fallace" costituito dal potere si trova nell'Oedipus di Seneca: "Quisquamne
regno gaudet? O fallax bonum/quantum malorum fronte quam blanda tegis"
(vv. 6-7), qualcuno gioisce del regno? O bene ingannevole, quanti mali copri
sotto un'apparenza così lusinghiera!
L’uomo
di potere è assediato dalla paura: il metus del tiranno è genitivo soggettivo e
oggettivo, in quanto il despota fa paura e ne ha. Un doppio ruolo sintetizzato
bene da Creonte nell'Oedipus di
Seneca: "Qui sceptra duro saevus imperio regit/timet timentes; metus in
auctorem redit" (vv. 703-704), chi tiene crudelmente lo scettro con dura
tirannide, teme quelli che lo temono; la paura ricade su chi la incute.
In
forma meno sintetica Cicerone fa la stessa denuncia nel De officiis: “Qui se metui volent, a quibus metuentur, eosdem
metuant ipsi necesse est” (II, 24), quelli che vorranno essere temuti, è
inevitabile che essi stessi temano quelli dai quali saranno temuti. Cicerone fa
gli esempi di Dionigi il vecchio e di Alessandro tiranno di Fere il quale
sospettava perfino della moglie, non a torto del resto poiché questa era una
donna furente che alla fine lo uccise “propter pelicatus suspicionem (II, 25),
per sospetto di adulterio. La conclusione di Cicerone è. “Nec vero ulla vis
imperii tanta est, quae premente metu possit esse diuturna”, non c’è nessuna
forza di potere tanto grande che possa essere durare a lungo sotto la pressione
della paura.
Con
il potere che si raggiunge attraverso l'ambitio è più indulgente Sallustio:
"quod tamen vitium propius virtutem erat", l’ambizione (rispetto alla
avarizia, l’avidità di denaro) era un vizio tuttavia più vicino alla virtù (De coniuratione Catilinae, 11).
Abbiamo
visto nel Manzoni che il potere è razionale e morale solo se esercitato al
servizio dei sudditi. Vediamo alcune espressioni simili in altri autori:
Nelle
Epistole a Lucilio il maestro di
Nerone già ripudiato dal discepolo imperiale, ricorda che nell'età dell'oro
governare era compiere un dovere non esercitare un potere assoluto: "Officium
erat imperare, non regnum" (90, 5).
Seneca
aveva indirizzato il De clementia a
Nerone cercando di convincerlo che il potere deve essere gestito in favore dei
sudditi. Questo aveva insegnato un discepolo di Zenone ad Antigono Gonata re di
Macedonia[8] cui il regnare apparve un
“onorevole servizio”, e[ndoxo"
douleiva[9].
Recentemente
anche Don Luigi Ciotti ha detto: "il potere deve essere un servizio, non
un privilegio"
Concetto
analogo si trova in Psicanalisi della
società contemporanea di E. Fromm: "Il capo non è soltanto la persona
tecnicamente più qualificata, come deve essere un dirigente, ma è anche l'uomo
che è un esempio, che educa gli altri, che li ama, che è altruista, che li
serve. Obbedire a un cosidetto capo senza queste qualità sarebbe una viltà"
(p. 299).
La protagonista dell'Antigone di Brecht si propone come tale tipo paradigmatico in
antitesi a Creonte il quale le domanda: "Di' dunque perché sei così
ostinata". E la ragazza risponde: "Solo per dare un esempio".
Il
potere del resto secondo la figlia di Edipo è una specie di droga che asseta di
sé: "Perché chi beve il potere/Beve acqua salsa, non può smettere, e
seguita/Per forza a bere".
“Sono
rari i sovrani che apprendono la saggezza nella sovranità. Al contrario,
l’occupazione del potere suscita un delirio di potenza, e la sete di potere
suscita il più delle volte ambizioni smisurate. Così intorno al potere si
moltiplicano colpi di stato, assassini, fratricidi, patricidi, così ben
descritti da Eschilo, Sofocle, Euripide, Shakespeare, mentre la follia insita
nel potere è stata mirabilmente mostrata da Calderón de la Barca ne La vita è
sogno. Minacciati da rivali o da pretendenti, i despoti diventano patologicamente
diffidenti di tutto”[10].
Dopo
i tragici greci e Seneca, anche Shakesperare ha descritto in bloody lines[11] le
scelleratezze insite nella gestione immorale e scatenata del potere.
giovanni
ghiselli
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[5] Luogo
simile in Seneca che nella Consolatio
ad Marciam (10, 2) scrive:
"mutua accepimus. Usus fructusque noster est", abbiamo ricevuto delle
cose in prestito. L'usufrutto è nostro.
[7] Il
consiglio di seguire la natura, in particolare osservando l'alternarsi del dì e
della notte, per prendere decisioni equilibrate lo dà anche Seneca a Lucilio
"cum rerum natura delibera: illa dicet tibi et diem fecisse et
noctem" (Ep. 3, 6), prendi decisioni osservando la natura: quella
ti dirà che ha fatto il giorno e la notte.
e invece succede a volte (troppe volte) che chi ha più forza e più potere, invece di proteggere i deboli li violenta... che indignazione!
RispondiEliminaMaddalena
Solidarietà a Ilaria Cucchi e complimenti all'autore del blog.
RispondiEliminaAlessandro
Il potere troppo spesso è ancora utilizzato per i propri interessi personali e in forma facinorosa ,per fortuna c'è ancora la tua voce Caro Gianni....con affetto e stima,grazie Giovanna Tocco
RispondiEliminataohyZgeo_e Gina Sinclair https://wakelet.com/wake/PGsxbAGugYzIzSzFYpknw
RispondiEliminamusmanace
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