sull'Etna, dopo una brutta caduta in bici estate 2014 |
Debrecen 1966. VIII capitolo
Torniamo indietro, al luglio del 1966, e veniamo alle
ragazze italiane compagne di scuola e di collegio nell’Università estiva di
Debrecen.
Queste mi
sbigottivano ancora più delle straniere: quando dovevo parlare con una di loro,
coetanea o più attempata di me, tremavo e mi impappinavo in pappe emotive se
prima Danilo non mi aveva coinvolto in una bevuta.
Le donne nostrane del resto non facevano niente per
incutermi tanta paura, anzi, quando davo loro occasione di farmi qualcosa,
cercavano di farmi coraggio, poiché ingenuo e indifeso com’ero a vent’anni, se
non restavo inosservato, e non ci rimanevo poiché, volendo imparare, mi
esponevo quale ero, potevo provocare la malvagità dei sadici, oppure suscitare
l’istinto materno di cui sono provviste le femmine umane, e pure quelle
bestiali a dirla tutta.
La mia mente era confusa, e l’aspetto esterno la rifletteva.
La figura informe era il correlativo somatico di un’anima terrorizzata. Il
terrore era quello dell’assenza di identità. La faccia non era un volto
veramente umano, gli occhi erano spenti, la pancia evocava gli immondi maiale.
Non avevo preso in mano il potere di volgere i cardini della
mia vita: lo avevano fatto altri, per lo più malevoli, ferocemente contrari alla
mia resurrezione in un’esistenza davvero umana.
Ma Debrecen e le sue circostanze mi diedero diverse
occasioni di rinascita. E io le acciuffai avendo compreso che l’occasione
decisiva era quella. Cominciai a evitare le critiche umilianti dei malevoli e
ad ascoltare, a dare retta ai consigli buoni dei benevoli che non mancavano,
anche perché malmesso com’ero, all’epoca suscitavo pena invece che invidia. Comunque
non aspiravo a divenire come gli altri. Sentivo che ero differente dai più e
non volevo assimilarmi alle persone ordinarie: piuttosto sarei rimasto peggiore,
sarei addirittura peggiorato dell’altro, oppure, se ce l’avessi fatta a trovare
la mia natura migliore, sarei diventato quello che volevo essere.
Avevo mille goffaggini dentro di me, ma non quella orribile
di mascherarmi per apparire una persona usuale. Obbedendo ai luoghi comuni
delle propagande pubblicitarie, politiche, confessionali, scolastiche, avrei
disobbedito alla mia umanità. In questo caso mi sarei perduto per sempre.
Dunque mi proponevo di continuare a compiere atti irregolari rispetto al conformismo
vile e feroce dei più, ma queste trasgressioni dovevano essere “sante”, come
quelle di Antigone[1], e incrementare la mia umanità,
non deprimerla come avrebbe fatto l’imitazione della volgarità ordinaria.
Dovevo trovare la mia unicità autentica, ossia la mia identità, evitando la via
più ovvia, più ignobile, e per me rovinosa, di assumerne una gregaria.
Fin da quando ero bambino, la mamma mia, non senza
ammirazione, diceva che ero “un tipo strano”. Né a me dispiaceva. Più tardi
però i luoghi comuni incarnati, i servi del banale e dell’eterna volgarità, le
maschere inespressive o con una sola espressione fissa, gli idioti falsi e
cattivi insomma, mi avevano fatto pagare con l’ostracismo la mia estraneità ai
loro “si dice, si pensa, si fa”, o, come dicevano a Pesaro “così non fa!”.
Bastava non fumare le sigarette per essere indicato a dito
come uno indegna di confidenza e simpatia. A me il fumo faceva schifo, perché
avrei dovuto fumare? Ma se ti chiedevano di accendere una sigaretta e non
nascondevi questa tua diversità, ti guardavano male. Poi girava la voce che eri
una carogna. Anche perché ero bravo a scuola: dopo la seconda liceo avevo
addirittura vinto un premio per i migliori cinquanta studenti d’Italia.
Ed io, terminato il
Mamiani, ero quasi cascato nella trappola mortale di sentirmi peggiore di loro,
degli usuali. Quelli che fumano almeno un pacchetto al giorno, conoscono a
memoria le formazioni delle squadre di calcio, giocano a carte bevendo
superalcolici e poi vanno a puttane.
Ma, passati due anni
a Bologna, anche se molto ferito, cominciavo a capire. Non potevo piacere a
tutti, ma solo a quelli del mio stampo, della levatura che dovevo raggiungere.
Misura di tutte le cose non doveva essere la testa impagliata di chi aveva
portato cuore e cervello all’ammasso, ma la mia intelligenza e la mia moralità,
qualunque esse fossero.
Se avessi potuto potenziarle con letture di autori appunto
accrescitivi, con fatti e con atti buoni, con l’aiuto di donne belle e fini,
avrei acquisito i mezzi per uscire dallo stato in cui mi trovavo e diventare un
uomo umano. Come già sai, lettore, decisiva sarà Helena Sarjantola incontrata cinque
anni dopo questo rimuginare. Sarà lei a raddrizzare[2] del
tutto il mio destino. Mi fece coraggio e mi diede degli esempi che poi ti ho
trasmesso, lettore. Con lei seppi di piacere a chi dovevo piacere. E divenni
padrone di me stesso. Capii definitivamente di essere meno brutto degli altri. Ma
già in quella prima estate debrecina cominciai a sollevare il mio fato cadente.
Non senza aiuto da parte di alcune persone buone.
giovanni ghiselli
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Diversi anni fa ebbi successo e feci un po’ di denaro con le
traduzioni e i commenti che feci dell’Edipo
re e dell’Antigone di Sofocle.
Non comprateli, anche perché sono esauriti. Se volete, vi
mando i file gratis ovviamente
Mi diede soddisfazione. Però me ne date di più voi tanti
lettori di questo mio blog
Se vorrete anche sentirmi, terrò la prossima conferenza il
22 novembre, alle nel liceo Properzio di Assisi.
Ore 10.10-11 Giovanni
Ghiselli
Eredità della cultura classica negli autori cristiani
Il 28 novembre alle 18, 30 sarò all’Università Primo Levi di
Bologna con l’Eros nei classici; il primo dicembre con l’Antigone di Sofocle
Vi terrò informati
Ti leggo volentieri
RispondiEliminaAlessandro