Ovidio |
Ovidio e gli autori pagani
e cristiani contrari al teatro
Platone, Seneca, Tacito, Tertulliano, Agostino, Leopardi,
Tito Livio, Flaubert, Cromwell, Nathaniel Hawthorne, Vittorio Alfieri
Ovidio nell’Ars
amatoria suggerisce al donnaiolo di andare a caccia di donne soprattutto
nei teatri ricurvi: “Sed tu praecipue curvis venare theatris”
(I, 89) poiché sono luoghi particolarmente fruttiferi per i tuoi desideri: “haec loca sunt voto fertiliora tuo” (90)
Lì si trova un’ampia selvaggina erotica
per entrambi i sessi: le donne più raffinate vanno agli spettacoli molto
frequentati, e ci vanno non solo per guardare ma anche per essere guardate: “(Spectatum veniunt, veniunt spectentur ut
ipsae", I, 99). Quel
luogo è nocivo per il casto pudore.
Ovidio non biasima certo tali approcci,
anzi li incoraggia, senza prevedere che la sua polemica libertina con la
celebrazione fatta dagli augustei ortodossi Virgilio e Orazio della pietas[1]
di Enea castus[2]
come i suoi discendenti, gli costerà cara.
Vediamo ora le critiche moralistiche contro il teatro
Platone[3], attraverso il personaggio dell’Ateniese,
nelle Leggi critica gli agoni
drammatici frequentati troppo spesso, e male, da un pubblico becero,
incompetente, trascinato dalla musica caotica diffusa da poeti ignoranti,
maestri di disordinate trasgressioni, i quali mescolano peani con ditirambi,
mettendo insieme tutto con tutto (pavnta
eij~ pavnta sunavgonte~, Leggi,
700d); di conseguenza le càvee dei teatri
sono diventate, da silenziose, vocianti, e al posto dell’aristocrazia
del gusto subentrò una sfacciata teatrocrazia per quanto riguarda quest’arte
(701). Come se fossero tutti sapienti, diventarono impavidi e l'audacia generò
l'impudenza (701b). La causa prima di tale disastro culturale è stata una libertà
troppo sfrenata.
Seneca a sua volta condanna l'efferatezza dei giochi circensi
quali mera omicidia ( Ep. 7, 3), omicidi veri e propri. Il
filosofo è capitato nel Circo durante uno spettacolo meridiano lusus expectans et sales, aspettandosi
giochi e facezie, invece c’erano gladiatori che combattevano fino alla morte di
entrambi exitus pugnantium mors est:
chi ha ucciso poi si scontra col prossimo che lo ucciderà. Dunque : “nihil vero tam damnosum bonis moribus quam
in aliquo spectaculo desidēre”
Nel Dialogus de oratoribus[4] di Tacito[5],
Messalla biasima propria et peculiaria huius urbis vitia, i vizi
particolari di Roma, quelli che sono quasi insiti nel DNA dei Romani si direbbe
ora:"paene in utero matris concipi mihi videntur, histrionalis favor et
gladiatorum equorumque studia" ( 29), sembrano quasi concepiti nello
stesso grembo materno, la simpatia per gli istrioni, la passione per i
gladiatori e i cavalli. Nell'animo dei ragazzi
occupatus et obsessus, occupato e bloccato da tali studia, non
rimane spazio per l'interesse nei
confronti delle arti liberali.
Questo avvertimento può essere attualizzato con la passione
per il calcio o per la musicaccia fatta di rumore.
L'histrionale studium del gaglioffo Percennio, per
esempio, la sua esperienza di attore, e il suo essere stato dux olim
theatralium operarum (Annales, I, 16) un capo della claque teatrale,
ne fa un acclamato duce durante la rivolta delle legioni della Pannonia
successiva alla morte di Augusto.
Queste parole di Tacito, secondo Auerbach, denigrano la
ribellione dei legionari:"A suo modo di vedere, si tratta soltanto
d'arroganza plebea e di mancanza di disciplina. (…) Egli batte e ribatte che è
soltanto la schiuma sempre pronta alla ribellione; per il caporione Percennio,
ex capo di claques teatrali col suo "histrionale studium",
che si atteggia a generale (velut contionabundus"), egli ha il più
profondo disprezzo"[6].
Nella Germania, Tacito nota che le donne di quella
terra vivono con la castità ben
custodita, senza essere guastate dalla seduzione degli spettacoli né dagli
stimoli dei banchetti: "saepta pudicitia agunt, nullis spectaculorum
inlecebris, nullis conviviorum inritationibus corruptae" (19, 1).
Negli Annales lo storiografo denuncia, tra le
altre passioni basse (foeda studia) di Nerone quella di
cantare accompagnandosi con la cetra, come
si fa negli spettacoli: “ nec minus
foedum studium cithărā ludĭcrum in
modum canere” (14, 14).
Poco più avanti
Tacito ricorda che dopo la conquista dell’Asia e della Grecia, a Roma i giochi
si erano organizzati con maggiore cura, “nec
quemquam Romae honesto loco hortum ad theatralis artes degeneravisse, ducentis
iam annis a L. Mummii triumpho qui primus id genus spectaculi in urbe
praebuerit” (14, 21), anche se nessun romano nato in una buona famiglia si
era abbassato a fare l’attore per duecento anni dal trionfo di Mummio[7]
che per primo aveva fatto vedere a Roma quel genere di spettacolo.
Tertulliano[8]
nell’Apologeticum[9]
dichiara che agli spettacoli dei pagani (spectacula
vestra) i cristiani rinunciano in quanto i vari scaenici e circenses traggono origine dalla superstizione
Infatti, aggiunge, la nostra lingua, i nostri occhi, i
nostri sensi non hanno nulla in comune con la follia del circo né con
l'impudicizia del teatro (cum impudicitia theatri ) né con la
crudeltà dell'arena (cum atrocitate arenae) né con la vanità del portico
( cum xysti vanitate, 38).
Quindi nel De spectaculis [10]
l’apologista predica contro teatri e circhi in quanto tutta la messinscena
degli spettacoli trae la sua essenza ex idolatrīa (IV, 3)
dall'idolatria.
Sant'Agostino nelle Confessiones[11]
considera la passione per il teatro una follia da lui stesso provata quando lo
rapivano “spectacula theatrica plena imaginibus miseriarum mearum et
fomitibus ignis mei" (III, 2), pieni di immagini delle mie miserie e
di esche del mio fuoco. Lo spettatore cerca nelle tragedie il dolore che gli dà
piacere: quid est nisi miserabilis
insania?
Lo spettatore si annoia ed esce deluso se non prova emozioni
negative: “Lacrimae ergo amantur et dolores”.
Quindi Agostino dice alla propria anima: “cave
immunditiam”. Allora io miser,
continua, dolere amabam e cercavo
sensazioni dolorose. Ero un infelix pecus
aberrans a grege tuo e mi infettavo di una brutta scabbia. Cercavo emozioni
cattive e superficiali.
Sembra che il teatro servisse a questa pecorella sviata dal
gregge del Signore, per dare
brividi una vita oziosa e vuota.
E’ un poco l’idea che ha del teatro e della letteratura drammatica
Giacomo Leopardi il quale sostiene che il genere drammatico, rispetto alla
poesia lirica e a quella epica, “è
ultimo dei tre generi, di tempo e di nobiltà. Esso non è un'ispirazione, ma
un'invenzione; figlio della civiltà, non della natura; poesia per convenzione e
per volontà degli autori suoi, più che per la essenza sua (…) Il dramma non è
proprio delle nazioni incolte. Esso è uno spettacolo, un figlio della civiltà e
dell'ozio, un trovato di persone oziose, che vogliono passare il tempo, in
somma un trattenimento dell’ozio, inventato, come tanti e tanti altri, nel seno
della civiltà, dall’ingegno dell’uomo, non ispirato dalla natura, ma diretto a
procacciare sollazzo a se e agli altri, e onor sociale e utilità a se medesimo.
Trattenimento liberale bensì e degno; ma non prodotto della natura vergine e
pura, come è la lirica, che è sua legittima figlia, e l'epica, che è sua vera
nepote"(Zibaldone, 4235-4236).
Mi sembra un grave difetto di incomprensione del pur grande
e caro Recanatese.
Ancora: “Essa[12]
è cosa prosaica: i versi vi sono di forma, non di essenza, né le danno natura
poetica. Il poeta è spinto a poetare dall’intimo sentim. Suo proprio, non dagli
altrui. Il fingere di avere una passione, un caratt. Ch’ei non ha (cosa necess.
al drammat.) è cosa alienis. dal poeta (…) Quanto più un uomo è di genio, quanto
più è poeta, tanto più avrà de’ sentimenti suoi propri da esporre, tanto più
sdegnerà di vestire un altro personaggio, di parlare in persona d’altrui,
d’imitare, tanto più dipingerà se stesso e ne avrà il bisogno, tanto più sarà
lirico, tanto meno drammatico” (4357).
Così si limita il
valore anche dell’epica e del romanzo e pure l’elegia e insomma tutte le opere
letterarie che hanno parti mimetiche (dialoghi) e diegetiche (narrative).
Platone nel III libro della Repubblica fa dire a Socrate che c’è una poesia la quale si svolge dia; mimhvsewς, per via mimetica. Questa è
la poesia drammatica, ossia la tragedia e la commedia; poi c’è la semplice
narrazione senza mimesi (a[neu mimhvsewς ajplh̃
dihvghsiς) attraverso il racconto
del poeta stesso, e si tratta dei ditirambi; quindi l’epica che ha entrambi gli
aspetti (di j ajmfotevrwn) (394b-c).
Ma torniamo a Leopardi.
Romanzo e novella sono meno biasimati del dramma : “Il romanzo, la
novella ec. sono all’uomo di genio assai meno alieni che il dramma, il quale
gli è più alieno di tutti i generi di letteratura, perché è quello che esige la
maggior prossimità d’imitazione, la maggior trasformazione dell’autore in altri
individui, la più intera rinunzia e il più intero spoglio della propria
individualità, alla quale l’uomo di genio tiene più fortemente che alcun altro”
(4367).
La stessa cultura ateniese viene considerata manchevole dal
Recanatese poiché non ci furono poeti lirici ateniesi.
Io dico che non ci furono perché la letteratura ateniese fu
politica, mentre la lirica è impolitica e tendenzialmente soggettiva, anche nel
senso peggiore.
Ma sentiamo Leopardi: “Si dice con ragione che quasi tutta
la letteratura greca fu Ateniese. Ma non so se alcuno abbia osservato che
questo non si può già dire della poesia; anzi, che io mi ricordi, nessun poeta
greco di nome (eccetto i drammatici, che io non considero come propriam. poeti,
ma come, al più, intermedii fra’ poeti e’ prosatori) fu Ateniese. Tanto la
civiltà squisita è impoetica (22. sett. 1828). Però, chi dice che la lett. Gr.
fiorì principalm. in Atene, dee distinguere, se vuol parlar vero, ed aggiungere
che la poesia al contrario. Ec. (22. Sett. 1828)”[13].
Quindi torniamo ad Agostino. Nel De civitate Dei [14]
il santo sostiene che i ludi scenici,
introdotti a Roma[15]
per placare la pestilenza dei corpi, importarono dall'Etruria la pestilenza nei
costumi. Infatti il pontefice, per sedare la pestilenza delle anime, proibiva
addirittura la costruzione del teatro (I, 32).
Vediamo il racconto di Livio (VII, 2).
Nell’anno dei consoli
Petico e Stolone (364) pestilentia fuit.
Per implorare il favore degli dèi si fece un lectisternium (si portavano fuori dai templi dei divani con le
immagini degli dèi e davanti si poneva una tavola imbandita), ma il morbo non
cessava, allora, victis superstitione
animis, ludi quoque scenici, nova res
bellicoso populo, nam circi modo spectaculum fuerat, inter alia caelestis irae
placamina istituti dicuntur, ceterum parva quoque, ut ferme principia omnia, et
ea ipsa peregrina res fuit. Sine carmine ullo, sine imitandorum carminum actu,
ludiones ex Etruria accīti, ad tibicĭnis modos saltantes, haud indecōros modos
more Tusco dabant.
Quindi era una danza senza parole né mimesi di parole. Poi
però dei giovani cominciarono a imitare quei ludiones, ballerini pantomimi, scambiandosi in aggiunta battute in
rozzi versi simul inconditis inter se
iocularia fundentes versibus. E i movimenti si accordavano con la voce.
Insomma il teatro, che tratta spesso della peste[16],
è esso stesso latore di peste secondo il vescovo di Ippona.
Sentiamo un altro
prete. In Madame Bovary di Flaubert, il curato di Yonville sembra
condividere l'opinione di Ovidio sul lenocinio dei teatri, i quali però, dato
il punto di vista critico autorizzato da "tutti i Santi Padri",
vengono sconsigliati:"So anch'io" obiettò il curato, "che
esistono buone opere, buoni autori, tuttavia, non fosse altro, tante persone di
sesso diverso riunite[17]
in un locale seducente, ornato di pompe mondane, e poi tutti quei travestimenti
pagani, tutto quel belletto, tutti quei candelabri, tutte quelle voci
effemminate, tutto insomma deve ingenerare alla fin fine un certo libertinaggio
dello spirito e suggerirti pensieri disdicevoli, tentazioni impure. Almeno
questa è l'opinione di tutti i Santi Padri. Infine…se la chiesa ha condannato
gli spettacoli, significa che aveva la sua ragione di farlo: occorre
sottometterci ai suoi decreti"[18].
Questa linea platonico-cristiana di avversione per gli
spettacoli teatrali si riscontra fra i Puritani del Seicento: il Lord
Protector Cromwell[19]
fece chiudere i teatri durante la sua tirannide in Inghilterra.
Per quanto riguarda la presenza di tale ostilità nel Nuovo
Mondo, sentiamo La lettera scarlatta di Nathaniel Hawthorne[20],
pubblicata nel 1850 ma ambientata nella Boston puritana del XVII
secolo:"inutilmente si sarebbe immaginato di vedere quel popolo
abbandonarsi ai divertimenti popolari che erano in uso in Inghilterra sotto la
regina Elisabetta o sotto re Giacomo. Niente
spettacoli teatrali, né musiche di sonatori ambulanti, né canzoni di
menestrelli, né trucchi di giocolieri, né lazzi di saltimbanchi. Il fondo del
carattere di questa gente - s'è detto - era triste, e tutti questi
professionisti dell'allegria sarebbero stati scacciati non soltanto dalla
legge, ma dal sentimento popolare che conta assai più della legge"[21].
La protagonista del romanzo è una donna bella e fine, marchiata e messa al
bando da questa gente tetra.
Una studiosa della scuola del Dramma dell’università di
Washington rileva un nesso tra l’ostilità dei Puritani nei confronti del teatro
e il fatto che nel teatro elisabettiano le parti femminili fossero recitate da
maschi travestiti. Sicché il palcoscenico poteva essere visto come il sito
dell’omoerotismo: “Several extant Puritan sermons were built upon a quotation in
Deutoronomy (22: 5) which specifically forbade cross-dressing: ‘The woman shall
not wear that which pertaineth unto a man, neither shall a man put a woman’s
garment; for all that do so are an abomination unto the Lord thy God”[22],
diversi sermoni puritani arrivati sino a noi erano costruiti su una citazione
del Deuteronomio che proibiva
specificamente I travestimenti: ‘La donna non indosserà quello che appartiene a
un uomo, né un uomo si metterà un articolo di vestiario da donna; in quanto
tutto questo è abominio nei confronti del Signore tuo Dio’.
Nella propria autobiografia Vittorio Alfieri racconta che
cercò ingraziarsi Pio VI, papa
Braschi, offrendogli di dedicargli il Saul.
Il papa rifiutò l’omaggio e “ se
ne scusò, dicendo che egli non poteva accettar dedica di cose teatrali quali
ch’elle si fossero”. “Né io altra cosa replicai su ciò” , conclude l’autore (Vita, IV, 10).
Insomma c'è tutta una letteratura contro il teatro.
Tuttora c’è un’ostilità del potere contro il teatro che
presenta l’uomo come problema, e spinge a pensare, pone degli interrogativi,
instilla dei dubbi. La televisione non manda più in onda i drammi grandi e
meravigliosi dei grandi autori che così perdono visibilità e presenza anche
nella scuola.
giovanni ghiselli 10 novembre 2014
[1] Enea, che causò la morte di Didone è menzionato tra
gli amanti infedeli; tuttavia egli
"et famam pietatis habet, tamen hospes et ensem[1]/praebuit
et causam mortis, Elissa, tuae" (Ars, III, 39-40), ha la nomèa
di uomo pio, tuttavia da ospite ti offrì la spada e il motivo della morte tua,
Elissa.
[2]
Orazio, Carmen speculare, 42.
[3]
427-347 a .
C.
[4]
Ambientato tra il 75 e il 77 e redatto, probabilmente, un quarto di secolo più
tardi.
[5]
55 ca-120 ca.
[6]
Mimesis, p. 43.
[7]
146 a. C.
[8]
160 ca-220 ca d.C.
[9]
197 d. C.
[10]
Del 200 ca d. C.
[11]
In 13 libri composti fra il 397 e il 401
d. C.
[12]
La poesia drammatica.
[13] Zibaldone, p. 4389.
[14]
In 22 libri composti fra il 413 e il 426 d. C.
[15]
Nel 364 a .
C. secondo il racconto di Tito Livio (VII, 2-3)
[16]
Si pensi, per esempio all’ Edipo re
di Sofocle e all’Oedipus di Seneca.
[17]
Per questa ragione si dovrebbero chiudere anche le scuole.
[18] G. Flaubert, Madame Bovary (del 1857), p. 177.
[19]
Esercitò una dittatura personale dal 1653 al 1658. Suo segretario fu John Milton, l’autore di Il paradiso perduto (1667)
[20]
Scrittore statunitense: 1804-1864 .
[21]
N. Hawthorne, La lettera scarlatta, p. 180.
[22] Sue-Ellen Case, Feminism and theatre, p. 24.
Sarà per quello che il teatro mi piace tanto.....Giovanna Tocco
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