L’ancestrale
curiosità di Eva
Dio plasmò l’uomo
con la polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita (Genesi,
2, 7)
Antifemminismo: creazione dell’uomo senza il contributo della donna
Vediamo alcune
espressioni della fantasia contraria alla natura di generare senza l'unione tra
l'uomo e la donna, creature che sarebbero naturalmente quant'altre mai
congeniali tra loro.
Sentiamo
innanzitutto Giasone nella Medea [1]
:"Crh'n ga;r a[lloqevn poqen brotou;"-pai'da"
teknou'sqai, qh'lu d j oujk ei\nai geno" - cou{tw" a]n oujk h\n oujde;n
ajnqrwvpoi" kakovn" (vv. 572-575), bisognerebbe infatti che in altro
modo, donde che sia, gli uomini generassero i figli, e che la razza delle donne
non esistesse, così non ci sarebbe nessun male per gli uomini.
Insomma il male
è la femmina. qh̃lh=kakovn
Nell'Ippolito
il protagonista, sdegnato con la matrigna, è talmente disgustato e
terrorizzato dalle donne- ingannevole male per gli uomini ("
kivbdhlon ajnqrwvpoi" kakovn ", v.
616), male grande ("kako;n mevga",
v. 627), creatura perniciosa, o, più letteralmente, frutto dell'ate[2]
("ajthrovn[3]...futovn",
v. 630)- che auspica la loro collocazione presso muti morsi di fiere (vv.
646-647) e la propagazione della razza umana senza la partecipazione delle
femmine umane.
Sentiamo alcune
frasi del "puro" folle che dà in escandescenze:
"O Zeus perché
ponesti nella luce del sole le donne, ingannevole male per gli uomini? Se
infatti volevi seminare la stirpe umana, non era necessario ottenere questo
dalle donne, ma bastava che i mortali mettendo in cambio nei tuoi templi oro e
ferro o un peso di bronzo, comprassero discendenza di figli, ciascuno del valore
del dono offerto, e vivessero in case libere, senza le femmine. Ora invece
quando dapprima stiamo per portare in casa quel malanno, sperperiamo[4]
la prosperità della casa" (vv. 616-626).
Nel II Stasimo
delle Baccanti di Euripide, il Coro ricorda le parole di Zeus che
“partorirà” Dioniso: “Vieni, Ditirambo, entra in questo mio maschio ventre”
i[qi, Diquvramb j , ejma;n a[rsena- tavnde
bãqi nhduvn, 526-527).
Nelle
Eumenidi, Apollo, difendendo Oreste, dice che ci può essere un padre senza
la madre: path;r me;n a]n gevnait j a[neu
mhtrovς (664); ne è testimone la figlia di Zeus la quale non fu nutrita
nell’oscurità di un ventre materno (oujk
ejn skovtoisi nhduvoς teqrammevnh,
665) . Atena, come si sa, nacque dalla testa di Zeus.
Del resto, quando la
madre c’è, la sua parte nella generazionr è secondaria, sempre a detta del
Lossia, il dio tortuoso:"La cosiddetta madre
non è la generatrice del figlio (tevknou
tokeuv~ ), ma la nutrice (trofov~)
del feto appena seminato: genera (tivktei)
il maschio che la monta; colei come un ospite con un ospite salva il germe (e[rno~),
per quelli ai quali gli dèi non l’abbia distrutto"(vv. 658-661).
Nell'Orlando
furioso (1532) troviamo echi di questo risentimento contro le donne,
messi in bocca al personaggio di Rodomonte, scartato da Doralice.
Prima il"Saracin"
biasima, "catullianamente", l'instabilità e la perfidia delle donne:" Oh
feminile ingegno,-egli dicea-/come ti volgi e muti facilmente[5],/contrario
oggetto a quello della fede!/Oh infelice, oh miser
[6] chi ti crede!" (27,
117).
Quindi
Rodomonte aggiunge il motivo esiodeo della femmina umana imposta come punizione
all'umanità maschile:"Credo che t'abbia la Natura e Dio/produtto, o scelerato
sesso, al mondo/per una soma, per un grave fio/de l'uom, che senza te saria
giocondo:/come ha prodotto anco il serpente rio/e il lupo e l'orso, e fa l'aer
fecondo/e di mosche e di vespe e di tafani,/e loglio e avena fa nascer tra i
grani" (27, 119). Infine l'amante infelice rimprovera la Natura, come Ippolito e
Giasone, poiché costringe gli uomini a mescolarsi con le donne per la
riproduzione:"Perché fatto non ha l'alma Natura,/che senza te potesse nascer
l'uomo,/ come s'inesta per umana cura/l'un sopra l'altro il pero, il sorbo e 'l
pomo?/Ma quella non può far sempre a misura:/anzi, s'io vo' guardar come io la
nomo,/veggo che non può far cosa perfetta,/poi che Natura femina vien
detta"(120).
Un motivo questo
presente anche nel Paradise Lost (1658-1665) del "puritano
d'incrollabile fede"[7]
John Milton (1608-1674). In questo poema Adamo si chiede perché
il Creatore, che ha popolato il cielo di alti spiriti maschili, ha creato alla
fine sulla terra questa novità, questo grazioso difetto di natura ( this fair
defect
[8] of Nature ) e non ha riempito subito il mondo con
uomini simili ad angeli senza il femminino, o non ha trovato un altro modo per
generare l'umanità ("or find some other way to generate Mankind? ", X,
888 e sgg.).
Questo
desiderio del maschio deluso è stato realizzato per sé dal Dio biblico che crea
il mondo senza alcuna presenza femminile, come fa notare Fromm:"Il
racconto non ha inizio con le parole:" In principio era il caos, in principio
era l'oscurità", bensì, "In principio Dio creò...."-dunque lui solo, il dio
maschile, senza intervento né partecipazione da parte della donna-cielo e terra.
Dopo l'interruzione di una frase in cui risuonano ancora le antiche concezioni,
il racconto prosegue:"E dio disse:"sia la luce", e la luce fu (Gn. 1,
3). Qui in tutta chiarezza compare l'estremo della creazione solamente maschile,
la creazione per mezzo esclusivo della parola, la creazione attraverso il
pensiero, la creazione attraverso lo spirito. Non si ha più bisogno del grembo
materno per generare, non più della materia: la bocca dell'uomo che pronuncia
una parola ha la capacità di creare la vita direttamente e senza bisogno d'altro
(...) Il pensiero che l'uomo sia in grado di creare esseri viventi soltanto con
la sua bocca, con la sua parola, dal suo spirito, è la fantasia più
contronatura che sia immaginabile; essa nega ogni esperienza, ogni realtà,
ogni condizione naturale, spazza via ogni vincolo posto dalla natura per
raggiungere quell'unico scopo: rappresentare l'uomo come assolutamente
perfetto, come colui che possiede anche la capacità che la vita sembra avergli
negato: la capacità di generare"[9].
E meno male che
poi "il Signore Dio disse:"Non è bene che l'uomo sia solo: gli voglio fare un
aiuto che gli sia simile" (Genesi, 2, 18).
Nella Teogonia
di Esiodo c’è prima ti tutto il Cavoς
(116). Poi c’è la Terra dal largo petto (Gaĩa
eujruvsternoς, 117) e il Tartaro tenebroso, poi Eros , il più bello tra
gli dèi immortali (120) lusimelhvς
(121) che sciglie le membra.
Dal Caos nacquero
l’Erebo e la nera Notte che si unirono e generarono l’Etere e il Giorno; poi la
Terra per prima generò uguale a se stessa il Cielo stellato (126-127), le
montagne, e il Mare senza l’aiuto del tenero amore.
Quindi il Cielo e
la Terra generarono l’Oceano, Iperone, Giapeto e Rea e Temi e Mnemosyne, e il
più giovane Crono il deinovtatoς
paivdwn (138) che odiava il padre.
Quindi i Ciclopi,
Giganti con i Titani gli eterni nemici della cultura
I figli
rimanevano dentro la Terra che si sentiva oppressa e meditò un disegno astuto e
malvagio (160). Con il diamante fece una grande falce (
mevga drevpanon, 162) e propose ai
figli di vendicarsi del padre scellerato. Gli altri ebbero paura ma Crono disse:
“io non mi curo del padre nostro infame” (171) e quando Urano entrò nella Terra,
gli falciò impetuosamente i genitali (180-181).
Gli schizzi di
sangue fecondarono la terra e nacquero le Erinni, altri Giganti, le Ninfe e
dalla schiuma dei genitali gettati nel mare, nacque Afrodite, nata dalla schiuma
(ajfrovς).
Il Cielo da solo
invece generò i Titani così chiamati perché tendevano troppo (209).
Poi Crono e Rea
generarono gli dèi dell’Olimpo. Ma anche Crono era un pessimo padre e ingoiava i
suoi figli (paĩdaς
eJou;ς katevpine, 467) e Rea
ne aveva angoscia. Allora chiese aiuto ai suoi genitori che le consigliarono di
andare a Creta. Lì Rea nascose il piccolo Zeus in una spelonca inaccessibile,
poi diede a Crono un fagotto con dentro una pietra che venne inghiottita dal
padre degenerato. Quindi Crono rigettò tutta la prole con la pietra che poi Zeus
collocò a Pito sulle pendici del Parnaso.
Il dio biblico
proibì all’uomo di mangiare i frutti dell’albero della conoscenza del bene e del
male “perché nel giorno in cui ne mangerai, dovrai certo morire” (Genesi,
2, 16-17 ).
Leopardi
fa notare che nella Genesi il sapere viene probito all'uomo:"qualunque
cosa si voglia intendere per l'albero della scienza del bene e del male, è certo
che il solo comando che Dio diede all'uomo dopo averlo posto in paradiso
voluptatis (Gen. c. 2. v. 8. 15. 23. 24.)...fu De ligno autem
scientiae boni et mali ne comĕdas,
in quocumque enim die comederis ex eo, morte moriēris
[10]
(Gen. 2. 17.). Non è questo un interdir chiaramente all'uomo il sapere? un voler
porre soprattutte le altre cose (giacché questo fu il solo comando o divieto) un
ostacolo agl'incrementi della ragione, come quella che Dio conosceva essere per
sua natura e dover essere la distruttrice della felicità, e vera perfezione di
quella tal creatura, tal quale egli l'aveva fatta, e in quanto era così fatta?"[11].
Poi Dio disse:
“Non è bene che l’uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto che sia simile a lui”
(Genesi, 2, 18). Quindi plasmò dal suolo tutte le bestie selvatiche e
tutti i volatili cui l’uomo impose i nomi (2, 20).
Successivamente
Dio volle fare per l’uomo un aiuto che fosse simile a lui (2, 20)
Sicché addormentò
l’uomo, poi gli tolse una costola e con questa costruì la donna. Quindi la
condusse all’uomo (Genesi, 2, 22)
Allora l’uomo la
riconobbe come osso delle sue ossa e carne della sua carne e disse: “costei si
chiamerà donna (‘ishsha) perchè dall’uomo (‘ish) è stata tolta” (Genesi,
2, 23).
L’uomo dunque è
fatto per comandare sulla natura e sulla donna, fatta da lui e per lui.
In Esiodo, il
mito della prima donna si collega a quello dell'età dell'oro.
Con Esiodo inizia
la considerazione malevola della donna che non si trova in Omero.
Durante la prima
età dell’oro la donna non c’era.
La storia del
decadimento dall'aurea stirpe primigenia (cruvseon
me;n prwvtista gevno", Opere e giorni, v. 109) a quella
finale, e attuale, ferrigna ( nu'n ga;r dh;
gevno" ejsti; sidhvreon, v. 176), prende l'avvio dal racconto dei mali
conseguiti alla mossa malaccorta o malvagia di Pandora, l'Eva dei Greci.
Il mito
delle cinque età afferma che dalla stirpe d'oro si passa a quella d'argento, a
quella di bronzo, a quella degli eroi, a quella del ferro, con una crescita
progressiva di violenza, empietà e stupidità, a parte una controtendenza
nell'età degli eroi.
Nella Teogonia Esiodo racconta
che Zeus si era sdegnato poiché Prometeo[12]
aveva cercato di ingannarlo due volte: la
prima dividendo tra gli uomini e gli dèi un bue di notevole mole in maniera
iniqua; la seconda restituendo agli uomini il fuoco che il dio supremo aveva
tolto agli uomini, per rappresaglia nei confronti della benevolenza di
Prometeo. Allora Zeus, in cambio del fuoco preparò per loro un malanno ( "
aujti;ka d j ajnti; puro;" teu'xen
kako;n ajnqrwvpoisi ", v. 570). Questo
male fu plasmato da Efesto con la terra: era simile ad una vereconda fanciulla
che Atena adornò con un cinto, una veste, un velo, serti di fiori e una corona
d'oro dove lo stesso Ambidestro aveva cesellato figure di fiere terribili,
quanti ne nutre la terra ed il mare (v. 582). Una prefigurazione delle leonesse,
le tigri e le scille in cui vengono trasfigurate Clitennestre e Medee. Comunque
questa creatura divenne uno splendido malanno ("kalo;n
kakovn", v. 585) per gli uomini, un
inganno scosceso (" dovlon aijpuvn",
v. 589) e senza rimedio. Ecco già delineato il "popolo nemico"[13]
da cui derivano a quello dei maschi malanno e sciagura ("ph'ma",
v.592).
Leggiamo alcuni versi della Teogonia.
Efesto porta la donna davanti a un pubblico misto di uomini e di dèi.
Quando poi ebbe plasmato un bel malanno in
cambio di un bene
la condusse subito là dove c’erano gli altri
dei e gli uomini
fiera dell’ornamento della dea dagli occhi
lucenti, figlia di padre potente.
Meraviglia prese gli dèi immortali e gli
uomini mortali,
come videro l’inganno scosceso, senza rimedio
per gli uomini.
Da lei infatti deriva la stirpe delle donne
morbide assai,
da lei infatti la stirpe deleteria e la razza
delle donne
sciagura grande per i mortali, quando abitano
con i maschi,
e non sono compagne della funesta Povertà ma
della sazietà. (Teogonia, vv.
585-593).
Nelle Opere e giorni Esiodo
torna sul mito di Prometeo e di Pandora: Zeus, sdegnato per l’inganno di
Prometeo, dai tortuosi pensieri, versò sugli uomini lacrimevoli affanni e
nascose il fuoco (kruvye de; pu'r[14],
v. 50), poi, siccome il figlio di Giapeto lo rubò di nuovo celandolo
ejn koivlw/ navrqhki (v. 52), in una
verga cava, l’adunatore di nembi, adirato, aggiunse un’altra sciagura e disse:
“Figlio di Giapeto, che
più di tutti conosci pensieri maliziosi,
tu gioisci di avere rubato
il fuoco e di avere ingannato il mio volere,
grande sciagura per te e
per gli uomini futuri.
io a quelli in cambio del fuoco darò un
malanno, del quale tutti
godano nella foga della
passione, circondando di affetto il proprio malanno”.
Così disse; poi scoppiò a
ridere il padre degli uomini e degli dèi.
E comandò all’inclito
Efesto di mescolare al più presto
terra con acqua, e di
metterci voce e vigore
di essere umano, e di
renderla simile alle dèe immortali nell’aspetto:
un bella, amabile, forma
di ragazza; poi ad Atena
ordinò di insegnarle le
opere: a tessere la tela lavorata con arte;
e all’aurea Afrodite di
versare la grazia attorno al suo capo
e il desiderio doloroso e
gli affanni che divorano le membra;
e inoltre ordinava a Ermes
il messaggero Argifonte
di metterci
dentro una mente di cagna e un carattere scaltro
(Opere, vv.
54-68).
Torniamo alla
Genesi.
Perciò l’uomo
abbandona il padre e la madre e si unisce alla sua donna e i due diventano una
sola carne. I due erano nudi e non sentivano vergogna.
(Genesi,
2, 24)
Fromm e la
necessaria presa di distanza dei genitori
"Rimanendo legato alla
natura, alla madre o al padre, l'uomo riesce quindi a sentirsi a suo agio nel
mondo, ma, per la sua sicurezza, paga un prezzo altissimo, quello della
sottomissione e della dipendenza, nonché il blocco del pieno sviluppo della sua
ragione e della sua capacità di amare. Egli resta un fanciullo mentre vorrebbe
diventare un adulto"[15]
Per diventare se stessi
è necessario prendere le distanze anche dai genitori: lo insegna il Vangelo
di Giovanni nel quale Cristo dice alla madre: "
tiv ejmoi; kai; soiv, guvnai; -Quid
mihi et tibi mulier? " (2, 4), che cosa ho da fare con te, donna?
Il dominio
sulla terra e sugli animali nella Genesi e nell’Antigone di Sofocle.
L’uomo e la donna
erano a immagine e somiglianza di Dio che aveva detto loro: siate fecondi e
moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela e abbiate dominio sui pesci del
mare e sui volatili del cielo e sul bestiame, su tutte le fiere e i rettili” (Genesi,
1, 28)
Leggiamo la prima antistrofe ( vv. 342-352)
del primo stasimo dell’Antigone di Sofocle
E la razza degli
uccelli dalla mente/alata, circondando con maglie/di reti intrecciate/cattura, e
le stirpi delle fiere selvatiche/e la progenie sprofondata nel mare,/l'uomo che
sa pensare –perifradh;ς
ajnhvr-, e si impossessa/con i suoi mezzi possenti della bestia/che
dimora nei campi, che vaga sui monti, e il cavallo/dalla cervice crinita
trascina sotto il giogo che cinge il collo/e il montano, infaticabile toro".
Quindi la seconda strofe. Antigone, vv. 353-364.
E la parola-fqevgma-,
e pari al vento il/pensiero –ajnevmoen
frovnhma-, e a regolare gli istinti con le leggi/della città ha imparato,
e a fuggire/degli inabitabili geli gli strali a cielo scoperto/e gli scrosci
delle piogge terribili/con ogni risorsa-pantovporoς-;
senza risorse-a[poroς- per niente
va/verso il futuro; da Ade soltanto/
non potrà
procurarsi lo scampo;/eppure da malattie immedicabili ha escogitato/vie di
uscita
“Solo una cosa
pone immediatamente in iscacco ogni far violenza. La morte”[16].
III La
curiosità di Eva.
Il serpente era
la più astuta di tutte le bestie selvatiche (3, 1)
Disse a Eva che
se avessero mangiato il frutto proibito sarebbero diventati come Dio,
conoscitori del bene e del male (3, 5)
Eva si lasciò
convincere e mangiò il frutto che era buono e ne diede anche al marito (3, 6).
Eva è spinta
dalla curiosità. Nella cultura classica l’uomo acceso da un’ardente volontà di
conoscere, spinto dalla curiosità a rischiare la vita è Odisseo, figura positiva
in Omero, personaggio molto criticato invece da Pindaro e da Sofocle (Filottete)
e da due tragedie troiane di Euripide (Ecuba, Troiane). Anche Virgilio lo
condanna.
Cicerone
lo presenta come un uomo avido di sapere.
Nel De finibus
bonorum et malorum
[17]l’autore premette che è innato in noi l’amore della
conoscenza e del sapere, e tanto grande che la natura umana vi è trascinata
senza l’attrattiva di alcun profitto. Questo si vede dall’episodio odissiaco
delle sirene le quali attiravano i naviganti non per la dolcezza della voce o la
novità dei canti “sed quia multa se scire profitebantur” (V, 18), ma poiché
dichiaravano di sapere molte cose. Quindi l’Arpinate traduce i vv. 184-191 e
conclude: “Vidit Homerus probari fabulam non posse, si cantiunculis tantus
irretitus vir teneretur, scientiam pollicentur, quam non erat mirum sapientiae
cupǐdo patriā esse cariorem. Atque omnia quidem scire, cuiuscumque modi sint,
cupere curiosorum”, Omero si accorse che il mito non poteva essere approvato
se un uomo di quella levatura fosse stato trattenuto irretito da canzoncine, il
sapere promettono, e non era strano che a uno bramoso di sapienza fosse più caro
della patria. E certamente la brama di sapere tutto, di qualunque genere sia, è
proprio delle persone curiose.
Apuleio ne fa
l’archetipo dell’uomo curioso.
La curiosità è
motivo di conforto e fonte di salvezza per Lucio, il protagonista del romanzo,
prefigurato da Ulisse :" Nec ullum uspiam
cruciabilis vitae solacium aderat, nisi quod ingenita mihi curiositate recreabar...
Nec immerito priscae poeticae divinus auctor apud Graios summae prudentiae virum
monstrare cupiens multarum civitatium obitu et variorum populorum cognitu summas
adeptum virtutes cecinit " (Metamorfosi , IX, 13), né vi era da
qualche parte alcun conforto di quella vita tribolata se non il fatto che mi
sollevavo con la mia innata curiosità...e non a torto quel divino creatore
dell'antica poesia dei Greci volendo raffigurare un uomo di somma saggezza,
narrò che egli raggiunse i sommi valori visitando molte città e conoscendo
popoli diversi.
La curiosità, presa in bonam partem, è
un sentimento vicino alla meraviglia che secondo Platone e Aristotele spinge
alla filosofia.
Principio di
ogni filosofia è il meravigliarsi, afferma Platone[18]
e dal fatto che il giovane Teeteto si meraviglia, deduce la sua
attitudine alla filosofia.
Aristotele
sostiene che gli uomini hanno cominciato a fare filosofia, sia ora sia in
origine, a causa della meraviglia: "dia; ga;r
to; qaumavzein oiJ a[nqrwpoi kai; nu'n kai; to; prw'ton h[rxanto filosofei'n"[19].
Dallo qaumavzein non nasce solo la
filosofia ma anche la poesia e tutta la cultura
La curiosità
spinge alla conoscenza
“La curiosità è l’unico istinto di cui
l’educatore può debitamente usufruire...bisogna provocare la curiosità, poi
qualsiasi obiettivo è buono: la costruzione del verbo videor come il
rapporto tra i sessi, l’ a priori di Kant come le ballerine del varietà”[20].
Dante apre il Convivio con la
memorabile frase aristotelica, “tutti li uomini naturalmente desiderano di
sapere”, e Ulisse è il prototipo dell’uomo affamato di conoscenza.
Nell’Odissea egli rischia la vita molte
volte per il desiderio di imparare. Le Sirene per attirarlo gli dicono che chi
si ferma da loro riparte pieno di gioia e conoscendo più cose[21].
La riprovazione della volontà o della pretesa
di sapere e capire tutto
Ma la volontà di conoscere, o almeno la
pretesa di conoscere tutto, come Dio, è guardata con sospetto, anzi con
riprovazione da alcuni poeti religiosi.
Uno dei centri ideologici dell’Edipo re
di Sofocle è costituito dai versi 396-398:"arrivato io,/ Edipo, che non sapevo
nulla, lo feci cessare/ azzecandoci con l'intelligenza e senza avere imparato
nulla dagli uccelli". Questa presunzione intellettuale , per Sofocle, poeta
tradizionalista e pio, è u{bri",
dismisura, prepotenza, cecità
intellettuale e morale che fa crescere la mala pianta del tiranno (v.873), il
quale è perciò destinato a precipitare nella necessità scoscesa(v.877) del
castigo e della espiazione
Dante-personaggio della Commedia si
sente attratto verso Ulisse da un desiderio intensissimo (“vedi che del desio
ver’ lei mi piego”, dice a Virgilio); eppure il poeta fiorentino avverte il
pericolo estremo che Ulisse rappresenta per lui
“Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio:
quando drizzo la mente a ciò ch’io vidi,
e più lo ‘ngegno affreno ch’io non soglio,
perché non corra che virtù nol guidi;
sì che, se stella bona o miglior cosa
m’ha dato ’l ben, ch’io stesso nol m’invidi”[22]
Infine, Dante fa affondare il suo eroe da Dio;
il poeta cristiano lo condanna all’Inferno; e perfino dal Paradiso il
personaggio-autore ribadirà che il “varco” di Ulisse è stato “folle”:
“Io vedea di là da Gade il varco/folle
d’Ulisse” (Paradiso, XXVII, 82-83)
Dante è uno di quei poeti che, come Sofocle
tra i Greci, considerano limitata l’intelligenza umana e colpevole l’uomo che
non tiene imbrigliata la propria. Il che non toglie che entrambi sappiano trarre
bellezza dalle parole
Eva e Prometeo.
Allora i due si
accorgono di essere nudi e si coprono con foglie di fico: le cuciono e ne fanno
delle cinture (3, 7).
Qundi sentono
arrivare Jahvè e si nascondono in mezzo agli alberi del giardino (3, 8).
Dio li interroga.
L’uomo indica la donna come istigatrice e la donna dice: Il serpente mi ha
ingannata e io ho mangiato” (3, 13).
Del tutto diversa
è la reazione di Prometeo alla punizione subita per la sua trasgressione: il
Titano rivendica la disobbedienza a Zeus: egli è tutt'altro che pentito e
prorompe nel grido di ribellione con il quale afferma la dignità del suo
delitto:"io sapevo tutto questo:/di mia volontà, di mia volontà ho compiuto la
trasgressione, non lo negherò (eJkw;n
eJkw;n h{marton, oujk ajrnhvsomai)/ aiutando i mortali ho trovato io
stesso le pene (aujto;~
huJrovmhn povnou~
)"( Prometeo incatenato, vv. 265-267).
Nietzsche in
La nascita della tragedia distingue "la concezione ariana" dal " mito
semitico"
:" La cosa
migliore e più alta di cui l’umanità possa diventare partecipe, essa la
conquista con un crimine, e deve poi accettarne le conseguenze, cioè l’intero
flusso di dolori e di affanni, con cui i celesti offesi devono visitare il
genere umano che nobilmente si sforza di ascendere: un pensiero crudo, per la
dignità conferita al crimine, stranamente contrasta con il mito semitico del
peccato originale, in cui la curiosità, il raggiro menzognero, la seducibilità,
la lascivia, insomma una serie di affetti eminentemente femminili fu considerata
come origine del male. Ciò che distingue la concezione ariana è l’elevata idea
del peccato attivo come vera virtù prometeica"[23].
La condanna
alle pene del parto e del lavoro.
Dio maledice il
serpente (3, 14) e la donna (14), poi anche l’uomo (3, 17). Li condanna
entrambi alla sofferenza, l’una per il parto, l’altro per trarre nutrimento
dalla terra.
Il dolore del
parto viene ricordato ed enfatizzato anche in più di una tragedia greca
Le parole più
famose sono quelle che la Medea di Euripide rivolge alle donne corinzie del
Coro:
Dicono di noi che viviamo
una vita senza pericoli
in casa, mentre loro
combattono con la lancia,
pensando male: poiché io
tre volte accanto a uno scudo
preferirei stare che
partorire una volta sola-
mãllon
h] tekeĩn
a{pax-”
(Medea,
vv. 248- 251)
Le sofferenze del
parto sono ricordate anche nell' Elettra di Sofocle da Clitennestra
quando l’adultera assassina tenta di giustificarsi per il trattamento riservato
al marito il quale non era incolpevole: egli sacrificò Ifigenia dopo averla
seminata, senza avere passato il travaglio della madre quando la partorì:"oujk
i[son kamw;n ejmoi;-luvph", o{t' e[speir'
, w{sper hJ tivktous' ejgwv"
( vv. 531-532).
Nelle Fenicie
di Euripide, la Corifea commenta la pena di Giocasta per Polinice dicendo:"deino;n
gunaixi;n aiJ di' wjdivnwn gonaiv,-kai;
filovteknovn pw" pa'n gunaikei'on gevno"" (vv. 355-356), sono terribili
per le donne i parti attraverso le doglie, e tutta la razza femminile è in
qualche modo amante dei figli.
Giocasta lo è
stata anche troppo; Medea evidentemente fa eccezione.
Nell' Ifigenia
in Aulide, la Corifea comprende la pena di Clitennestra per la figliola,
ricordando quale prova terribile sia il parto:"deino;n
to; tivktein kai; fevrei fivltron mevga-pa'sivn te koino;n w{sq'
uJperkavmnein tevknwn" (vv. 917-918), tremendo è partorire e comporta una
grande magia d’amore comune a tutte, tanto da soffrire per i figli. Partorire
dunque è una delle cose tremende (ta;
deinav).
Tanto più perché
il parto può causare una perdita di bellezza: nell’Hercules Oetaeus
(di Seneca?) Deianira, vedendo la fulgida bellezza della giovanissima Iole,
lamenta l’oscurarsi della propria con queste parole: “Quidquid in nobis fuit
olim petitum, cecidit et partu labat” (vv. 388-389), tutto quello che una
volta in noi era desiderato, è caduto e con il parto vacilla.
La fatica del
lavoro.
Esiodo
nelle Opere scrive che dapprima gli uomini vivevano sulla terra senza le
malattie e il pesante lavoro, ma poi dall’orcio scoperchiato da Pandora uscirono
tutti i mali tranne la speranza (vv. 90 sgg.)
Per quanto
riguarda la fatica e la pena dell’uomo per ricavare l’estremo frutto dalla
terra,
Virgilio
nella Georgica I
[24] dà una spiegazione diversa : Giove procurò agli uomini
fatiche e angosce (curae ) in quanto non lasciò che il suo regno
restasse paralizzato in un pesante letargo"nec torpere gravi passus sua regna
veterno " (v. 124). Prima la terra produceva tutto spontaneamente, poi il
figlio di Saturno creò mille difficoltà alla sopravvivenza degli uomini: “Ante
Iovem nulli subigebant arva coloni;/ne signare quidem aut partiri limite campum/fas
erat; in medium quaerebant, ipsaque tellus/omnia liberius nullo poscente ferebat”
(vv. 125-128), prima di Giove nessun contadino dissodava i campi con l’aratro;
nemmeno segnare o dividere con i confini la campagna era lecito; raccoglievano
per la comunità, e la terra spontaneamente produceva ogni cosa del tutto
spontaneamente, senza che alcuno facesse richiesta.
In Virgilio il
mito termina con un elogio del lavoro faticoso: “Labor omnia vicit-improbus
et duris urgens in rebus egestas” (vv. 145-146), tutto ha domato la fatica
ostinata, e il bisogno che preme nelle situazioni dure.
Seneca nel
De providentia[25]
trova un significato positivo non solo nel lavoro ma pure nelle disgrazie (incommoda),
nei dolori e nelle perdite, quali prove per esercitare e temprare la virtus
:"Marcet sine adversario virtus" (2, 4), senza un avversario la virtù
marcisce; e Dio nei confronti degli uomini buoni conserva l'animo di un padre,
li ama con forza, e ha questi progetti:"Operibus, inquit, doloribus, damnis
exagitentur, ut verum colligant robur" (2, 6), con lavori, disse, dolori,
perdite, si affannino per raccogliere la vera forza. "Languent per inertiam
saginata nec labore tantum sed motu et ipso sui onere deficiunt",
infiacchiscono nell'ozio i corpi ingrassati, e non solo per la fatica, ma per il
movimento, e lo stesso peso di sé vengono meno. E' la medesima impostazione del
Giobbe biblico:"Se nella cultura occidentale inglobiamo, per l'innesto operato
dal cristianesimo, la cultura ebraica, allora la più antica occorrenza di questo
"perché"[26]
potrebbe essere il Libro di Giobbe "[27],
che dovrebbe risalire al V sec. a. C. Ne riporto una massima:"Felice l'uomo che
è corretto da Dio"[28].
C'è anche un Giobbe moderno (1930) di Joseph Roth: un pio ebreo
orientale, Mendel Singer: “la sua vita era una perpetua fatica". Aveva un figlio
piccolo, Menuchim, che cresceva male, era malato, ma il Rabbi disse alla madre
Deborah:"il dolore lo farà saggio[29],
la deformità buono, l'amarezza mite e la malattia forte. I suoi occhi saranno
grandi e profondi, le sue orecchie limpide e piene di risonanze"[30].
Leopardi
nella Storia del genere umano (1824) afferma che Giove impose mali e
fatiche alla nostre specie, la quale bramava "sempre e in qualunque stato
l'impossibile", paradossalmente perché non si estinguesse, :" deliberò valersi
di nuove arti a conservare questo misero genere: le quali furono principalmente
due. L'una mescere la loro vita di mali veri; l'altra implicarla in mille negozi
e fatiche, ad effetto d'intrattenere gli uomini, e divertirli quanto più si
potesse dal conversare col proprio animo, o almeno col desiderio di quella loro
incognita e vana felicità. Quindi primieramente diffuse tra loro una varia
moltitudine di morbi e un infinito genere di altre sventure: parte volendo, col
variare le condizioni e le fortune della vita mortale, ovviare alla sazietà e
crescere colla opposizione dei mali il pregio dei beni".
Torniamo alla
Genesi.
La maledizione
del dio biblico termina con la condanna a tornare in polvere (3, 19).
. Nelle
Supplici di Euripide, Teseo dice che non vuole fare la guerra ma ritiene
giusto seppellire i morti-nekrou;ς
de; tou;ς qanovntaς…qavyai
dikaiw̃ (524 e 526). Dunque lasciate che i cadaveri vengano coperti con
la terra. ejavsat j h[dh gh̃/
kalufqh̃nai nekrouvς (531) e
che ogni cosa torni là da dove è venuta alla luce: l’anima all’etere, il corpo
alla terra, il corpo che noi non possediamo: è nostro solo per abitarci durante
la vita, poi deve accoglierlo chi l’ha nutrito.
Lucrezio spiega
questo nostro tornare là da dove siamo partiti con la teoria dell’aggregazione e
disgregazione degli atomi (rerum primordia, semina, elementa, corpora prima).
Essi sono solidā simplicitate (De rerum natura, I, 548)
Poi l’uomo chiamò
Eva la sua donna, poiché essa fu la madre di tutti i viventi (III, 20). Il nome
Haw-wah viene spiegato con la radice hajah, “vivere”
Quindi Dio donò
all’uomo e alla donna tuniche e pelli e disse l’uomo con la conoscenza del bene
e del male era diventato “come uno di noi” (3, 22)
Allora non
poteva mangiare più dall’albero della vita che lo avrebbe reso eterno. Doveva
morire.
Quindi cacciò i
due disobbedienti dall’Eden (3, 23).
Nel Prometeo
incatenato la confusione tra gli uomini e Dio non è compatibile con il cosmo
ordinato da Zeus. Tale miscuglio incongruo negherebbe il principium
individuationis e farebbe regredire il cosmo nel caos dei Titani e dei
mostri.
IV. L’uomo
“conosce” la donna.
L’uomo conobbe
Eva, sua moglie che concepì e generò Caino e disse: ho acquistato un uomo con il
favore di Jahvè” (4, 1).
C’è un gioco di
parole che accosta Qajn, Caino a qanah, acquistare.
Conoscere dunque è anche amare:"Dicebas
quondam solum te nosse Catullum " (Carmina , 72, 1), una volta dicevi
di "conoscere" (ossia di avere come amante) soltanto Catullo.
Ugualmente Ovidio:"Non ego sum furto tibi
cognita; pronuba Iuno (Her. 6, 45) non hai avuto con me rapporti
amorosi di nascosto; fu pronuba Giunone, scrive Ipsipile, regina di Lemno al suo
seduttore, il solito “fallace” Giasone.
Stazio echeggia questa espressione nell’Achilleide,
quando il protagonista eponimo del poema confessa il suo amore con Deidamia al
padre di lei, il re di Sciro Licomede: “Tacito iam cognita furto/Deidamīa
mihi” (I, 903-904), ho già
conosciuto Deidamia con amore furtivo.
Così è pure il conoscere biblico di cui ci
dà una spiegazione Fromm:" Conoscere non significa essere in possesso della
verità, bensì andare sotto lo strato esterno e tentare, criticamente e
attivamente, di avvicinarsi sempre più alla realtà. Questo modo di penetrazione
creativa trova espressione nell'ebraico jadoa, che significa conoscere e
amare nel senso della penetrazione maschile"[31].
Poi Eva generò
Abele che divenne pastore di greggi, mentre Caino coltivatore.
L’offesa alla
terra.
Dio preferiva le
offerte di Abele, e Caino lo uccise.
Dio disse a Caino
che sentiva il sangue di Abele gridare dalla terra che ha spalancato la bocca
per ricevere il sangue di Abele e non darà più frutti a Caino. La terra si
offende quando un uomo viene ucciso
. C'è una
simpatia organica che lega Gh' a
tutti i viventi. La terra si offende se una sua creatura viene ferita: "una
volta caduto a terra nero/sangue mortale di quello che prima era un uomo,
chi/potrebbe farlo tornare indietro cantando?" domanda il Coro dell'
Agamennone di Eschilo (vv.1019-1021). E nelle Coefore:"tiv
ga;r luvtron pesovnto" ai{mato" pevdoi ;" (v. 48), quale lavacro c'è del
sangue caduto a terra?". Nelle Osservazioni
sulla morale cattolica Manzoni scrive:" Il sangue di un uomo solo, sparso
per mano del suo fratello, è troppo per tutti i secoli e per tutta la
terra"(cap. VII).
Contro la pena
di morte.
Caino deve andare
via ma nessuno dovrà ucciderlo: Chiunque ucciderà Caino, subirà una vendetta
sette volte maggiore dice Jahvè (4, 15)
Nel Commo delle
Coefore invece il Coro che porta le libagioni sulla tomba di Agamennone
canta: "ma è legge che gocce di sangue/versate al suolo, chiedano
altro/sangue: infatti grida strage l'Erinni "(
boa/' ga;r loigo;n j Erinuv~, vv.
400-402).
Dio gli mise
sopra un segno in modo che nessuno lo uccidesse (Genesi, 4, 15)
Caino si
allontanò verso Oriente, conobbe sua moglie ed ebbe un figlio: Henoch
Adamo ebbe un
altro figlio da Eva e lo chiamò Set.
Bologna 29
gennaio 2015 giovanni ghiselli
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GIOVEDI 29 GENNAIO ORE 21
L’ancestrale curiosità di L’Eva
ROSANNA VIRGILI
docente dell’Istituto Teologico Marchigiano
“Controcanto” di
GIANNI GHISELLI,
insegnante di greco e latino nei licei classici. Docente a contratto nelle
Università di Bologna, Urbino, Bolzano-Bressanone.
Interventi dei partecipanti
La scelta di non tacere
Tutti gli incontri si
terranno a Bologna
presso l’ex Cinema
Castiglione,
P.zza di Porta Castiglione
n. 3 (nei pressi dei Giardini Margherita).
Per iscrizioni scrivere a:
Oppure telefonare al
340.3346926
Concorso alle spese:
intero corso Euro 20,
singoli incontri Euro 5
(versamento in loco)
[1] Di Euripide, del 431.
[2] L'accecamento mentale, una smisurata forza
irrazionale.
[3] La protagonista dell'Andromaca fa l'ipotesi:"
eij gunai'ke;" ejsmen ajthro;n
kakovn "(Andromaca, v. 353), se noi donne siamo un male
pernicioso.
[4]
Cfr Lucrezio: "Labitur interea res
et Babylonica fiunt/unguenta et pulchra in pedibus Sicyonia rident/scilicet
et grandes viridi cum luce zmaragdi/ auro includuntur teriturque
thalassina vestis/assidue et Veneris sudorem exercita potat " (De
rerum natura, vv. 1124-1128), si scialacqua nel frattempo la roba, e
diventa profumi di Babilonia, e calzari belli di Sicione sorridono nei
piedi e naturalmente grossi smeraldi con la luce verde sono incastonati
nell'oro e si consuma la veste colore del mare continuamente, e tenuta
in esercizio beve sudore di Venere.
[5] Cfr. "varium
et mutabile semper/femina " diVirgilio (Eneide , IV,
569-570).
[6] Questo miser risale alla letteratura latina
nella quale, a partire da Catullo, dicono alcuni, assume il significato
di persona infelice per l'amore non contraccambiato. In realtà se ne
trovano già diversi esempi in Plauto. Qui ne do un paio:"miseriorem
ego ex amore quam te vidi neminem" dice l'anziano Alcesimo al
vecchio amico Lisidamo innamorato di Casina (v. 520), non ho mai
visto uno più infelice, per amore, di te. Più avanti lo stesso
innamorato conferma:"Neque est neque fuit me senex quisquam amator
adaeque miser" (685), non c'è e non c'è stasto un vecchio innamorato
infelice quanto me.
[7] C. Izzo, Storia della letteratura inglese,
p. 517.
[8] Cfr. questo nesso ossimorico con
kalo;n kakovn, bel malanno,
sempre riferito alla donna da Esiodo nella Teogonia ( v. 585). Ci
torneremo più avanti.
[9]E. Fromm, Amore sessualità e matriarcato ,
trad. it. Mondadori, Milano, 1997. p. 104 e 105.
[10] Potrai mangiare da tutti gli alberi del giardino,
consente prima Dio all'uomo, quindi proibisce:"ma dell'albero della
conoscenza del bene e del male non devi mangiare, poiché in qualunque
giorno tu ne mangerai, tu morrai.
[11] Zibaldone , pp; 395-396.
[12] Quello di Prometeo è "uno dei miti
antropologici...che rendono ragione della condizione umana-condizione
ambigua, piena di contrasti, in cui gli elementi positivi sono
inscindibili da quelli negativi e ogni luce ha la sua ombra, giacché la
felicità implica l'infelicità, l'abbondanza il duro lavoro, la nascita
la morte, l'uomo la donna, e l'intelligenza e il sapere si uniscono, nei
mortali, alla stupidità e all'imprevidenza. Questo tipo di discorso
mitico sembra obbedire a una logica che si potrebbe definire, in
contrasto con la logica dell'identità, come la logica dell'ambiguità,
dell'opposizione complementare, dell'oscillazione tra poli contrastanti"(J.
P. Vernant, Tra mito e politica,pp. 30-31.
[13]
Cfr. C. Pavese:"Sono un popolo nemico, le donne, come il
popolo tedesco. Il mestiere di vivere , 9 settembre, 1946.
[14] Cfr. Virgilio, Georgica I, 131:
ignemque removit.
[15]
E. Fromm, La rivoluzione della speranza , p. 80.
[16] (Heidegger, Introduzione alla metafisica,
p. 165.
[17] Del 45 a. C. E’
un dialogo in cinque libri, dedicato a Bruto, sul problema del sommo
bene e del sommo male.
[18] Teeteto, 155d.
[19] Metafisica , 982b.
[20] P. P. Pasolini, scolari e libri di testo,
(“Il Mattino del popolo, 26 novembre 1947) in Pasolini saggi sulla
politica e sulla società, p. 51
[22] Inferno, XXVI, 19-22
[23] F. Nietzsche. La nascita della tragedia,
cap. 9 ( p. 69).
[24] Le Georgiche vennero iniziate nel 37 a. C.
[25] Risale ai primi anni del disimpegno politico
(62-63 d. C.)
[26] Quare aliqua incommoda bonis viris accidant,
cum providentia sit . E' il sottotitolo, probabilmente autentico,
del De providentia: perché agli uomini buoni capitano delle
disgrazie dal momento che c'è la provvidenza.
[27] A. Traina (a cura di) La provvidenza, p.
8.
[28] La Bibbia di Gerusalemme, Giobbe , 5.
[29] Cfr. tw'/
pavqei mavqo~, Eschilo, Agamennone, v. 177.
[30] J. Roth, Giobbe, p. 19.
[31]E. Fromm, Avere o essere? , p. 63.
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