NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

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venerdì 9 gennaio 2015

La storia di Didone VII parte

Giovanni Francesco Romanelli, Enea abbandona Didone

La vigliaccheria di Enea


Enea è chiamato altrove dal destino e non vuole sentire altra fiamma che quella del fatum. Questo termine deriva dalla radice indoeuropea *bha- che dà luogo anche al greco fhmiv e al latino for, dico. Dunque fatum è quanto dicono gli dèi. Dalla stessa radice abbiamo fas, sacro, lecito, che si può dire.

FatumFas e mos.
Maurizio Bettini chiarisce bene la differenza di significato tra fas e mos. "… il mos collettivo si configura come una decisione presa da un "gruppo", il quale raggiunge un consensus su un certo comportamento: dopo di che, il medesimo gruppo ha la capacità di affermare nel tempo questo tipo di comportamento, trasformandolo così in mos o mores [1]". Il mos allora nasce dal consensus. "Cicerone, Tusculanae, I, 35, afferma persino che il consensus di tutti corrisponde alla "naturalità":" Quodsi omnium consensus naturae vox est, omnesque qui ubique sunt consentiunt esse aliquid (…) nobis quoque idem existimandum est "[2], che se il consenso universale è voce di natura e tutti dappertutto sono d'accordo nel ritenere che ci sia qualche cosa…anche noi dobbiamo essere dello stesso parere.
   La consuetudo poi impone  l'affermarsi del mos lungo lo scorrere del tempo e il volgere delle stagioni.
"Secondo Servio, infatti, Varrone definiva il mos in questo modo:"Varro vult morem esse communem consensum omnium simul habitantium, qui inveteratus consuetudinem facit "[3] (Varrone vuole che il mos sia costituito dal consenso di tutti coloro che vivono insieme: una volta che si sia affermato nel tempo, questo consenso crea la consuetudine). Ulpiano riprendeva certo Varrone quando affermava:"Mores sunt tacitus consensus populi longa consuetudine inveteratus"[4]…Questo significa che il mos o i mores non sono percepiti come qualcosa di assoluto, che si impone per sua natura: al contrario, sono il frutto di un accordo collettivo su qualcosa che inizialmente dipende da un iudicium animi, e questo accordo deve superare la prova del tempo.
In questo senso il mos si presenta profondamente diverso da ciò che i Romani definivano fas: la parola divina[5], simile a quella che si esprime nel fatum o "destino"; quella "parola" impersonale che solo esistendo manifesta la volontà degli dèi e si realizza nella forma di un "diritto divino" che è appunto nefas violare[6]. Nella rappresentazione culturale romana, il fas è qualche cosa che si impone da solo, indipendentemente dal iudicium individuale della persona.. Il fas sta scritto direttamente nella natura. Esso costituisce la regola che prescrive di non commettere certe azioni di particolare gravità, la cui mostruosità è fuori discussione. Perché il fas agisca come norma di comportamento, non c'è dunque bisogno di un gruppo che su di esso ha raggiunto un consensus, né di una consuetudo che si afferma nel tempo. La differenza fra mos e fas risulta evidenta da espressioni tipo questa, di Tibullo:"nullus erat custos, nulla exclusura dolentes/ianua: si fas est, mos precor ille redi!"[7] (allora non c'erano custodi, non c'erano porte che chiudessero fuori l'amante triste. O se quel mos, a patto che sia fas, potesse tornare!) Il poeta si augura che torni a rivivere un mos che rendeva più facile la vita degli innamorati- a patto, naturalmente, che il ritorno di tale mos non violi le regole imperscrutabili del fas. Mos e fas sono due cose diverse, e possono non coincidere. Interessante anche il modo in cui , negli Annali di Tacito, viene riportata la domanda che il legato Bleso avrebbe rivolto ai soldati che minacciavano una rivolta:"Cur contra morem obsequii, contra fas disciplinae vim meditentur?"[8] (perché volgere l'animo alla violenza, contro il mos dell'ossequio e contro il fas della disciplina?). Il testo distingue nettamente fra i due diversi tipi di trasgressione. Il rifiuto dell'obsequium è un atto "contra morem": ma non rispettare la disciplina militare, ossia un modello che a Roma ha un valore culturale fortissimo[9], è addirittura inaccettabile, assurdo, contra fas"[10].     
Enea "rappresenta, come ognuno dei personaggi dell'Eneide , un punto di vista soggettivo che lo individua; ma rappresenta insieme la volontà del Fato di cui è portatore...Nella sua funzione di oggettività egli è dalla parte del Fato-e del poeta che del Fato narra la realizzazione"[11]

Alle rivendicazioni dell'amante, il Troiano risponde che, salvi l'affetto e la gratitudine (ci mancherebbe!), egli ha doveri più forti verso gli dèi, il padre e il figlio. Sono gli argomenti classici degli amanti (uomini e ora anche tante donne) che nemmeno ci pensano a lasciare la famiglia. Apollo attraverso vari oracoli gli ha ordinato di raggiungere l'Italia:"hic amor, haec patria est " (v. 347), questo è l'amore, questa è la patria. Inoltre l'eroe riceve rimproveri  dall'immagine turbata del padre morto, ovviamente in somnis,  nei sogni, in tutti: quotiens  umentibus umbris-nox operit terras, vv. 351-352, ogni volta che la notte con umide ombre copre le terre; poi anche il figlio lo ammonisce,  e  pure Mercurio mandato da Giove per quel suo iniquo procrastinare il compimento del destino. Sicché l'eroe in fuga conclude chiedendo a Didone di risparmiargli  sensi di colpa e seccature :"Desine meque tuis incendere teque querellis:/ Italiam non sponte sequor " (vv. 360-61), smetti di infiammare me e te stessa con i lamenti: non cerco l'Italia di mia volontà. A proposito del v. 360 la Calzecchi Onesti commenta:"Va notata l'allitterazione lenta, dura e la forzata, quasi volutamente involuta e incerta costruzione della frase"[12].
"Querellis  voce che ci porta di nuovo nel mondo dell'elegia erotica (vedi, per esempio, Catullo, c. 64, v. 130 e v. 195, dove querellae sono i "lamenti" di Arianna abbandonata), è un termine che si presta molto bene a un 'riassunto' del contrasto in atto: da un lato le "lamentele" di una donna innamorata, dall'altro la coercizione del fato, che impone il sacrificio dei propri sentimenti privati. Le ultime parole di Enea, racchiuse in un emistichio ( uno dei numerosi versi incompiuti del poema) esprimono appunto il senso dell'invincibile pressione esercitata su di lui: è contro il suo cuore…che Enea porta avanti la sua missione"[13]
Inoltre:"Noi insegniamo che Virgilio…è il poeta dei victi tristes: anche insegniamo come egli abbia rappresentato in Enea il dolore che si accompagna alle vittorie "storiche"[14].
Noi però sappiamo bene che quella dell'amore, quando c'è, è la forza massima, ineluttabile; lo sa anche Virgilio (omnia vincit Amor, et nos cedamus amori " ecloga X, v. 69, tutto vince Amore e noi all'Amore cediamo), e lo sa pure Didone che si dispera siccome capisce che Enea non la ama.
Auerbach trova addirittura grottesco il fatto che Dante nel Convivio interpreti "la separazione di Enea da Didone come allegoria della temperantia"[15]. Sentiamo Dante stesso:"chiamasi quello freno Temperanza… E così infrenato mostra Virgilio, lo maggior nostro poeta, che fosse Enea, ne la parte de lo Eneida ove questa etade si figura; la quale parte comprende lo quarto, lo quinto e lo sesto libro de lo Eneida. E quanto raffrenare fu quello, quando, avendo ricevuto da Dido tanto di piacere…e usando con essa tanto di dilettazione, elli si partio, per seguire onesta e laudabile via e fruttuosa, come nel quarto de l'Eneida scritto è!" (Convivio, IV, 26).
 Il "non sponte " del v. 361, ripreso dall'"invitus regina tuo de litore cessi "[16] del VI canto (v. 460),  rende bene l'idea, anche se non voluta da Virgilio, della vigliaccheria dell'uomo.

giovanni ghiselli
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[1] M. Bettini, Le orecchie di Hermes, p. 257.
[2] M. Bettini, Le orecchie di Hermes, p. 253, n. 27.
[3] Servius in Aeneidem, VII, 601.
[4] Ulpiano, Regulae, I, 4. Ulpiano è uno dei più celebri giuristi del III sec. d. C.
[5] Cfr. P. Cipriano, Fas e nefas, Università degli Studi di Roma, Istituto di Glottologia, Roma 1978.
[6] E. Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, Einaudi, Torino, 1976, II, pp. 348-349. Per la differenza tra fas e ius cfr. Servio in Georgica, I, 269:" (…) ad religionem fas, ad homines iura pertinent".
[7] Corpus Tibullianum, 2, 3, 4.
[8] Tacito, Annales, I, 19, 3.
[9] Si veda, ad esempio, Livio, 5, 6, 17, dove la mancanza di rispetto (espresso dal verbo vereor) per la disciplina compare alla fine di un elenco di comportamenti rovinosi per la città di Roma:"non senatum, non magistratus, non leges, non mores maiorum, non instituta patrum, non disciplinam vereri".
[10] M. Bettini, Le orecchie di Hermes, p. 258.
[11]G. B. Conte, Virgilio, Il genere e i suoi confini , p. 89.
[12] L'Eneide, Istituto Editoriale Italiano, vol. I, p. 291.
[13] G. B. Conte, Scriptorium Classicum, 3, p 274.
[14] M. Barchiesi, I moderni alla ricerca di Enea, p. 37.
[15] Studi su Dante, p. 73.
[16] Contro la mia volontà, regina, mi allontanai dalla tua spiaggia.

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