Giovanni Francesco Romanelli, Enea abbandona Didone |
La vigliaccheria di Enea
Enea è chiamato altrove dal destino e non vuole sentire
altra fiamma che quella del fatum.
Questo termine deriva dalla radice indoeuropea *bha- che dà luogo anche
al greco fhmiv e al latino for,
dico. Dunque fatum è quanto dicono gli dèi. Dalla stessa radice abbiamo fas,
sacro, lecito, che si può dire.
Fatum, Fas e mos.
Maurizio Bettini
chiarisce bene la differenza di significato tra fas e mos.
"… il mos collettivo si configura come una decisione presa da un
"gruppo", il quale raggiunge un consensus su un certo
comportamento: dopo di che, il medesimo gruppo ha la capacità di affermare nel
tempo questo tipo di comportamento, trasformandolo così in mos o mores
[1]".
Il mos allora nasce dal consensus. "Cicerone, Tusculanae,
I, 35, afferma persino che il consensus di tutti corrisponde alla
"naturalità":" Quodsi omnium consensus naturae vox est,
omnesque qui ubique sunt consentiunt esse aliquid (…) nobis quoque idem
existimandum est "[2],
che se il consenso universale è voce di natura e tutti dappertutto sono
d'accordo nel ritenere che ci sia qualche cosa…anche noi dobbiamo essere dello
stesso parere.
La consuetudo poi impone l'affermarsi del mos lungo lo scorrere
del tempo e il volgere delle stagioni.
"Secondo
Servio, infatti, Varrone definiva il mos in questo modo:"Varro
vult morem esse communem consensum omnium simul habitantium, qui inveteratus
consuetudinem facit "[3]
(Varrone vuole che il mos sia costituito dal consenso di tutti coloro
che vivono insieme: una volta che si sia affermato nel tempo, questo consenso
crea la consuetudine). Ulpiano riprendeva certo Varrone quando affermava:"Mores
sunt tacitus consensus populi longa consuetudine inveteratus"[4]…Questo
significa che il mos o i mores non sono percepiti come qualcosa
di assoluto, che si impone per sua natura: al contrario, sono il frutto
di un accordo collettivo su qualcosa che inizialmente dipende da un iudicium
animi, e questo accordo deve superare la prova del tempo.
In questo senso il mos
si presenta profondamente diverso da ciò che i Romani definivano fas: la
parola divina[5],
simile a quella che si esprime nel fatum o "destino"; quella
"parola" impersonale che solo esistendo manifesta la volontà degli
dèi e si realizza nella forma di un "diritto divino" che è appunto nefas
violare[6].
Nella rappresentazione culturale romana, il fas è qualche cosa che si
impone da solo, indipendentemente dal iudicium individuale della
persona.. Il fas sta scritto direttamente nella natura. Esso costituisce
la regola che prescrive di non commettere certe azioni di particolare gravità,
la cui mostruosità è fuori discussione. Perché il fas agisca come norma
di comportamento, non c'è dunque bisogno di un gruppo che su di esso ha
raggiunto un consensus, né di una consuetudo che si afferma nel
tempo. La differenza fra mos e fas risulta evidenta da
espressioni tipo questa, di Tibullo:"nullus erat custos, nulla
exclusura dolentes/ianua: si fas est, mos precor ille redi!"[7]
(allora non c'erano custodi, non c'erano porte che chiudessero fuori l'amante
triste. O se quel mos, a patto che sia fas, potesse tornare!) Il
poeta si augura che torni a rivivere un mos che rendeva più facile la
vita degli innamorati- a patto, naturalmente, che il ritorno di tale mos
non violi le regole imperscrutabili del fas. Mos e fas
sono due cose diverse, e possono non coincidere. Interessante anche il modo in
cui , negli Annali di Tacito, viene riportata la domanda che il legato
Bleso avrebbe rivolto ai soldati che minacciavano una rivolta:"Cur contra morem obsequii, contra fas
disciplinae vim meditentur?"[8]
(perché volgere l'animo alla violenza, contro il mos dell'ossequio e
contro il fas della disciplina?). Il testo distingue nettamente fra i
due diversi tipi di trasgressione. Il rifiuto dell'obsequium è un atto
"contra morem": ma non
rispettare la disciplina militare, ossia un modello che a Roma ha un
valore culturale fortissimo[9],
è addirittura inaccettabile, assurdo, contra fas"[10].
Enea "rappresenta, come ognuno dei personaggi dell'Eneide , un punto di vista soggettivo
che lo individua; ma rappresenta insieme la volontà del Fato di cui è
portatore...Nella sua funzione di oggettività egli è dalla parte del Fato-e del
poeta che del Fato narra la realizzazione"[11].
Alle rivendicazioni dell'amante, il Troiano risponde che,
salvi l'affetto e la gratitudine (ci mancherebbe!), egli ha doveri più forti
verso gli dèi, il padre e il figlio. Sono gli argomenti classici degli amanti
(uomini e ora anche tante donne) che nemmeno ci pensano a lasciare la famiglia.
Apollo attraverso vari oracoli gli ha ordinato di raggiungere l'Italia:"hic amor, haec patria est " (v.
347), questo è l'amore, questa è la patria. Inoltre l'eroe riceve
rimproveri dall'immagine turbata del
padre morto, ovviamente in somnis,
nei sogni, in tutti: quotiens
umentibus umbris-nox operit terras, vv. 351-352, ogni volta che la
notte con umide ombre copre le terre; poi anche il figlio lo ammonisce, e pure
Mercurio mandato da Giove per quel suo iniquo procrastinare il compimento del
destino. Sicché l'eroe in fuga conclude chiedendo a Didone di
risparmiargli sensi di colpa e seccature
:"Desine meque tuis incendere teque
querellis:/ Italiam non sponte sequor " (vv. 360-61), smetti di
infiammare me e te stessa con i lamenti: non cerco l'Italia di mia volontà. A
proposito del v. 360 la Calzecchi Onesti commenta:"Va notata
l'allitterazione lenta, dura e la forzata, quasi volutamente involuta e incerta
costruzione della frase"[12].
"Querellis
voce che ci porta di nuovo nel mondo dell'elegia erotica (vedi, per
esempio, Catullo, c. 64, v. 130 e v. 195, dove querellae sono i
"lamenti" di Arianna abbandonata), è un termine che si presta molto
bene a un 'riassunto' del contrasto in atto: da un lato le
"lamentele" di una donna innamorata, dall'altro la coercizione del
fato, che impone il sacrificio dei propri sentimenti privati. Le ultime parole
di Enea, racchiuse in un emistichio ( uno dei numerosi versi incompiuti del
poema) esprimono appunto il senso dell'invincibile pressione esercitata su di
lui: è contro il suo cuore…che Enea porta avanti la sua missione"[13].
Inoltre:"Noi insegniamo che Virgilio…è il poeta dei victi
tristes: anche insegniamo come egli abbia rappresentato in Enea il
dolore che si accompagna alle vittorie "storiche"[14].
Noi però sappiamo bene che quella dell'amore, quando c'è, è
la forza massima, ineluttabile; lo sa anche Virgilio (omnia vincit Amor, et nos cedamus amori " ecloga X, v. 69, tutto vince Amore e noi all'Amore cediamo), e lo
sa pure Didone che si dispera siccome capisce che Enea non la ama.
Auerbach trova addirittura grottesco il fatto che Dante nel Convivio
interpreti "la separazione di Enea da Didone come allegoria della temperantia"[15].
Sentiamo Dante stesso:"chiamasi quello freno Temperanza… E così infrenato
mostra Virgilio, lo maggior nostro poeta, che fosse Enea, ne la parte de lo
Eneida ove questa etade si figura; la quale parte comprende lo quarto, lo
quinto e lo sesto libro de lo Eneida. E quanto raffrenare fu quello, quando,
avendo ricevuto da Dido tanto di piacere…e usando con essa tanto di
dilettazione, elli si partio, per seguire onesta e laudabile via e fruttuosa,
come nel quarto de l'Eneida scritto è!" (Convivio, IV, 26).
Il "non sponte " del v. 361, ripreso
dall'"invitus regina tuo de litore
cessi "[16]
del VI canto (v. 460), rende bene
l'idea, anche se non voluta da Virgilio, della vigliaccheria dell'uomo.
giovanni ghiselli
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[1]
M. Bettini, Le orecchie di Hermes, p. 257.
[2]
M. Bettini, Le orecchie di Hermes, p. 253, n. 27.
[4]
Ulpiano, Regulae, I, 4. Ulpiano è uno dei più celebri giuristi del III
sec. d. C.
[5]
Cfr. P. Cipriano, Fas e nefas, Università degli Studi di Roma, Istituto
di Glottologia, Roma 1978.
[6]
E. Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, Einaudi,
Torino, 1976, II, pp. 348-349. Per la differenza tra fas e ius
cfr. Servio in Georgica, I, 269:" (…) ad religionem fas, ad homines
iura pertinent".
[7]
Corpus Tibullianum, 2, 3, 4.
[8]
Tacito, Annales, I, 19, 3.
[9]
Si veda, ad esempio, Livio, 5, 6, 17, dove la mancanza di rispetto (espresso
dal verbo vereor) per la disciplina compare alla fine di un
elenco di comportamenti rovinosi per la città di Roma:"non senatum, non
magistratus, non leges, non mores maiorum, non instituta patrum, non
disciplinam vereri".
[10]
M. Bettini, Le orecchie di Hermes, p. 258.
[11]G. B. Conte, Virgilio, Il genere e i suoi confini , p. 89.
[12]
L'Eneide, Istituto Editoriale Italiano, vol. I, p. 291.
[13] G. B. Conte, Scriptorium
Classicum, 3, p 274.
[14]
M. Barchiesi, I moderni alla ricerca di Enea, p. 37.
[15] Studi su Dante, p. 73.
[16]
Contro la mia volontà, regina, mi allontanai dalla tua spiaggia.
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