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Tullio De Mauro, Storia linguistica dell’Italia Repubblicana. Dal 1946 ai nostri giorni. Editori Laterza, Roma-Bari 2014
Vediamo come comincia il secondo capitolo:
L’Italia linguistica dell’immediato dopoguerra (pp. 19-51)
L’Italia linguistica dell’immediato dopoguerra (pp. 19-51)
Con la caduta del fascismo in Italia emerse di nuovo la
“voglia di discutere” (p. 19) anche grazie alla recuperata parrhsiva, quella libertà di parola che la
dittatura aveva represso e soppresso durante il ventennio nel quale il
cittadino era diventato suddito.
Il divieto di parlare e discutere liberamente era
considerato il primo segno di schiavitù da parte degli Ateniesi.
Nello Ione[1]
di Euripide il protagonista eponimo del dramma esprime il desiderio di
ereditare da una madre ateniese il privilegio della parrhsiva, recandosi ad Atene, poiché lo straniero che piomba
in quella città, anche se a parole diventa cittadino, ha schiava la bocca senza
la libertà di parola ("tov ge
stovma-dou'lon pevpatai[2] koujk e[cei parrhsivan", vv.
674-675).
Analogo concetto si
trova nelle Fenicie[3],
quando Polinice risponde alla madre sulla cosa più odiosa per l'esule: " e{n me;n mevgiston, oujk e[cei parrhsivan"
(v. 391), una soprattutto, che non ha libertà di parola.
Infatti, conferma Giocasta, è cosa da schiavo non dire
quello che si pensa.
Insomma nel 1946 si poté tornare a parlare. Non molti
Italiani però erano in grado di farlo se consideriamo questi dati: “la bassa
scolarità complessiva della popolazione; la persistenza e il predominio
dell’uso attivo di numerose parlate eterogenee e, per contro, il possesso
modesto delle capacità d’uso attivo della lingua nazionale; il conseguente
elevato indice di diversità linguistica e di distanza tra le diverse parlate in
uso.” (p. 19)
La lingua media scritta degli Italiani forniti di educazione
accademica, o per lo meno liceale, era quella di Manzoni, e una lingua media
parlata ancora non c’era, sicché valeva ancora quanto ha scritto Leopardi nello
Zibaldone sulla nostra lingua la
quale è “piuttosto un aggregato di lingue che una lingua, laddove la francese è
unica” (964).
Bassa scolarità (pp.
20-25)
“Ancora negli anni Quaranta e Cinquanta del Novecento
l’Italia era un paese scolasticamente sottosviluppato, cui non era stata data
la possibilità di sovvertire la bassa scolarità del passato” (p. 20).
Dopo l’unità, le classi dirigenti si preoccuparono
dell’istruzione del proprio ceto istituendo scuole medie superiori, cioè licei
e istituti tecnici, mentre “lasciarono ai comuni, e a volte osteggiarono
apertamente e programmaticamente (e non solo nei settori clericali e più
reazionari), la scolarità elementare” (p. 21).
Si trattava di tenere e conservare la distanza di classe. “Una
classe dirigente continua ad essere tale soltanto fino a quando è in grado di
nominare i propri successori”[4].
Il gruppo dirigente vuole perpetuare se stesso.
“Anche la lotta all’analfabetismo della popolazione adulta,
che al censimento del 1861 risultò analfabeta per l’80%, per decenni non
ricevette attenzione”.
Vennero del resto istituite “scuole reggimentali che cercavano
di “redimere”, cioè di trarre fuori dall’analfabetismo più totale, almeno i
militari di leva” (p. 21).
Si trattava di “corsi di un’ora e mezza al giorno per sei
mesi”.
Certamente non sufficienti per attivare negli scolari adulti
un’abitudine allo studio. Tanto più che quei giovani appartenevano
probabilmente a famiglie povere e bisognose del salario ricavato da un lavoro
qualsiasi, un impiego del tempo che comunque non avrebbe lasciato libere le ore
necessarie allo studio.
L'araldo tebano delle Supplici
di Euripide sostiene che il governo di un solo uomo non è male: infatti il
monarca esclude i demagoghi, i quali, gonfiando la folla con le parole, la
volgono di qua e di là a proprio profitto. Del resto, aggiunge, come potrebbe
pilotare uno Stato il popolo che non è in grado di padroneggiare un discorso?
Chi lavora la terra non ha tempo né per imparare né per
dedicarsi alle faccende pubbliche: " oJ
ga;r crovno" mavqhsin ajnti;
tou' tavcou" -kreivssw divdwsi (vv. 419-420), è infatti il tempo
che dà un sapere più forte, invece della fretta.
Isocrate nell’Areopagitico
(del 356) sostiene che la paideiva va
conformata ai mezzi di cui ciascuno dispone.
Quando l’Areopago esercitava la nomofulakiva, I più poveri venivano indirizzati
all'agricoltura e al commercio: " ejpi;
ta;" gewrgiva" kai; ta;" ejmporiva"" (44). Gli
abbienti invece si dedicavano alla ginnastica, all’ ippica, alla caccia, e alla
filosofia.
Pure Protagora, il sofista eponimo e personaggio del
dialogo di Platone fa
dipendere la durata dell'istruzione dai mezzi dei genitori. Lo studio della
poesia, della musica e la pratica della ginnastica li fanno oiJ mavlista dunavmenoi-mavlista de; duvnantai
oiJ plousiwvtatoi (Protagora,
326c) “i più ricchi, quelli che hanno possibilità maggiori” mandano i figli a
scuola prima e li fanno uscire dopo. E quando hanno lasciato la scuola, i
giovani devono imparare le leggi perché non vivano a proprio arbitrio e a
casaccio.
I primi governi dell’Italia unita dunque avevano una
concezione classista della cultura e della scuola.
“Come già prima dell’unità, anche nei decenni seguenti
continuarono quindi a mancare efficienti scuole elementari e post-elementari di
primo grado. Soltanto a mezzo secolo di distanza dall’unificazione politica,
nel decennio giolittiano, ci furono segni di mutamento” (p. 21).
Cresceva da una parte la coscienza della necessità di
un’istruzione almeno elementare, dall’altra il bisogno di una mano d’opera più
istruita. “Crebbe dunque l’attenzione per l’istruzione, e crebbe la relativa
spesa pubblica”.
Furono costruiti molti edifici scolastici nuovi e anche i
bambini delle classi più povere cominciarono a frequentarli.
“Ma il conflitto mondiale bloccò questo processo e le spese
per l’istruzione si contrassero di nuovo. E non risalirono più fino alla
nascita della Repubblica” (p. 22).
Infatti il governo Mussolini solo nei suoi primi anni
(1922-1925) si pose il problema del riassetto e rilancio della scolarità
attraverso il ministro Giovanni Gentile e Giuseppe Lombardo “come direttore
generale dell’istruzione elementare”. Ma queste persone vennero rimosse nel
1925, mentre il fascismo si costituiva come dittatura.
Il dittatore è ostile allo sviluppo delle intelligenze come
raccontano Erodoto e Tito Livio
La mania della
distruzione delle teste migliori fa parte del carattere tirannico: sappiamo da
Erodoto che la scuola dei despoti insegna a uccidere gli oppositori in
generale, e prima di tutti chiunque dia segni di intelligenza e indipendenza.
Periandro di Corinto, quando era
ancora tiranno apprendista e la sua malvagità non si era scatenata, accolse il
suggerimento di Trasibulo di Mileto
il quale: "oiJ
uJpetivqeto tou;" uJperovcou" tw'n ajstw'n foneuvein", gli consigliava di mettere a morte i cittadini
che si distinguevano (Storie, V,
92 h) . Il
despota esperto aveva dato il consiglio criminale in maniera simbolica: mostrandosi
a un araldo, mandato da Corinto a domandargli come si potesse governare la
città nella maniera più sicura e bella, mentre recideva le spighe più alte di
un campo di grano. Periandro comprese e allora rivelò tutta la sua malvagità
(" ejnqau'ta
dh; pa'san kakovthta ejxevfaine").
Tito Livio attribuisce
lo stesso gesto di Trasibulo, con le stesse intenzioni, al re Tarquinio il
quale indicò al figlio Sesto cosa fare degli abitanti di Gabi con un'analoga
risposta senza parole: " rex velut
deliberabundus in hortum aedium transit sequente nuntio filii; ibi inambulans
tacitus summa papaverum capita dicitur baculo decussisse "(I, 54), il
re quasi meditabondo passò nel giardino della reggia seguito dall'inviato del
figlio; lì passeggiando in silenzio, si dice che troncasse con un bastone le
teste dei papaveri[5].
“Programmi e strutture concepiti da Gentile e Lombardo
Radice, raccogliendo per verità le istanze di gruppi liberali e socialisti
dell’anteguerra, furono smantellati. Fu cassato in particolare il programma di
Lombardo Radice per le elementari, che delineava un’educazione linguistica
volta ad assumere a suo carico lo sviluppo di tutte le capacità espressive dei
bambini muovendo da quelle realtà idiomatiche e culturali locali, municipali,
che erano la vita loro e del loro ambiente, e portandoli per mano,
progressivamente, alla conquista delle forme scritte e italiane di linguaggio”.
Ci fu una fioritura di “manualetti” che portavano nella scuola un confronto
sistematico tra i dialetti e la lingua, “ma alla fine degli anni Venti furono
messi da parte e sostituiti dal libro di testo unico, con cui si pretendeva di
insegnare l’italiano allo stesso modo in centri grandi e piccoli, al Nord e al
Sud, a Milano e a Licata, a Napoli e a Nichelino” (p. 23).
Mi viene in mente, per analogia, il modo più usuale di
insegnare la lingua latina nei licei classici da parte della maggioranza dei
miei colleghi fino a poco tempo fa, che io sappia, cioè fino a quando, nel
2010, sono andato in pensione: si facevano imparare a memoria morfologia e
sintassi tratte quasi esclusivamente da Cicerone e si leggevano pochissimi
testi.
Cito a questo proposito alcune parole, che condivido, di don
Lorenzo Milani: "Qualcuno, chissà chi, v'ha scritto perfino una
grammatica. Ma è una truffa volgare. A ogni regola ci vorrebbe la data e la
regione dove si diceva così"[6].
Ricordo che nel 1959, quando facevo la quarta ginnasio al Terenzio
Mamiani di Pesaro, venne in classe il preside e mi domandò, con aria severa,
come si dicesse "fato" in latino. Voleva sapere, disse, se meritavo
il nove che aveva appena letto nella mia pagella.
Risposi
"fatus". Quel brav'uomo disse che l'avevo deluso, che con i miei voti
avrei dovuto sapere che si dice fatum.
Ci restai molto male, pensando di avere fatto un errore gravissimo, del tutto
indegno di me e del mio curriculum. In effetti se fossi stato più bravo, avrei replicato che nel Satyricon si trova fatus[7].
Credo che le cosiddette regole grammaticali e sintattiche andrebbero
mostrate attraverso i testi più belli degli autori più bravi siccome la
bellezza e la bravura colpiscono la sfera emotiva e questa potenzia la memoria
favorendo il ricordo.
Ma torniamo alla Storia linguistica
dell'Italia repubblicana.
"Rimossi i due non ortodossi, le spese per l'istruzione restarono
bloccate ai livelli del periodo bellico per tutto il ventennio della
dittatura" (p. 23).
Inoltre il fascismo teneva nascosti i dati sull'analfabetismo "perché
ammettere l'esistenza di analfabeti non era compatibile con la retorica
fascista, e impose che "nelle aree rurali" si potesse fare a meno
della licenza elementare e si fosse prosciolti dall'obbligo scolastico dopo
solo tre anni di scuola". Di fatto gran parte della popolazione viveva
nelle aree rurali, e, anzi, "il 27% del totale, vivevano fuori da ogni
centro abitato, in case sparse tra monti e campagne".
Per giunta, a chi andava a scuola si imponeva una lingua sterotipata,
piena dei luoghi comuni e della retorica del regime.
Molto di questa scuola era rimasto nella elementare dei primi anni
Cinquanta da me frequentata.
Il regime fascista oltretutto discriminava le minoranze linguistiche e
relegava gli zingari nei campi di concentramento.
"Nel 1951 il primo censimento dell'Italia repubblicana rivelò
crudamente quale era il lascito scolastico del passato regime, ma anche,
occorre dire, il lascito della lunga incuria dello Stato unitario per
l'istruzione di base, un'incuria non sufficientemente corretta nel breve
periodo giolittiano" (p. 24).
Seguono i risultati del censimento: alla licenza elementare era
arrivato il 30, 6% della popolazione; il 5, 9 aveva raggiunto un diploma di
scuola media inferiore, il 3, 3% di scuola superiore, l'1% era arrivato
all'università "e solo meno di uno ogni cento laureati, dunque meno di uno
ogni mille abitanti, aveva una laurea scientifica" (p. 24).
Aggiungo di mio che negli anni precedenti non c'era stata un'arte
diretta a educare e istruire il popolo come, per fare un'esempio, la tragedia
nell'Atene del V secolo a. C. La mancanza di libertà di parola e l'opportunismo
suggerivano a chi parlava e scriveva di raccomandare il consenso con il regime
o di rifugiarsi nel culto dei propri sentimenti privati, come sempre accade
quando c'è la tirannide.
De Mauro nota che "già allora gli altri paesi europei avevano
indici complessivi superiori, talora di molto".
In Italia è tuttora molto difficile prendere l'ascensore sociale.
Questo è un motivo per cui molti giovani vanno all'estero a cercare lavoro e
riconoscimento delle loro capacità, e forse anche del fatto che pochi si
impegnano nello studio. La piaga delle raccomandazioni, che risale al
clentelismo dell'antica Roma, annienta o riduce di molto il riconoscimento del
merito. Questa riflessione è relativa a quanto ho potuto vedere negli anni
universitari e nei successivi.
Vediamo la conclusione di questo paragrafo relativo alla bassa
scolarità
"La dichiarata totale assenza di ogni capacità alfabetica del 13%
almeno della popolazione, spinta fino all'incapacità di tracciare la propria
firma all'atto del matrimonio, la mancata scolarità elementare del 60%,
l'esiguità della pattuglia avventuratasi oltre le elementari (10%), la povertà
di lauree, e in particolare di lauree in materie scientifiche, erano deficienze
gravide anche di altri effetti negativi, di cui poi si dirà. Ma certo avevano
un peso determinane sulle complessive condizioni linguistiche del paese, nel
senso di contribuire in modo rilevante a non modificare gli assetti più
antichi, le più remote differenziazioni tra aree e classi sociali" (Storia linguistica dell'Italia repubblicana,
p. 25).
giovanni ghiselli
Continua
[3]Rappresentata
poco tempo dopo lo Ione. Tratta la guerra dei Sette contro Tebe.
[4]
G. Orwell, 1984, p. 219.
[5]
Il tiranno è invidioso. Infatti L'Invidia personificata da Ovidio "exurit
herbas et summa papavera carpit" (Metamorfosi, II, 792),
dissecca le erbe e stacca le cime dei papaveri.
[6]
Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, p. 116.
[7]
Dopo avere mostrato qualche trovata stupefacente, Trimalchione affranca i servi
e nomina erede Fortunata. Gli schiavi sono uomini, proclama l'anfitrione
rimasticando dottrine stoiche: "et servi homines sunt et aeque unum
lactem biberunt, etiam si illos malus fatus oppresserit. tamen me salvo cito
aquam liberam gustabunt. ad summam, omnes illos in testamento meo manu mitto
" (71), pure gli schiavi sono esseri umani e hanno bevuto lo stesso latte,
anche se un destino cattivo li ha schiacciati. Comunque, mi venisse un colpo,
presto assaggeranno l'acqua libera. Insomma tutti quelli li affranco nel mio
testamento. Si noti che fatus invece di fatum. Non è l'unico caso
del genere: troviamo balneus (41) per il neutro balneum, bagno, vinus
(12) per vinum, caelus (45, 3) per caelum, lasanus
(47, 5) per lasanum, vaso da notte, e altri ancora
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