Il Mito di Piramo e Tisbe
Piramo e
Tisbe: tragedia degli “errori”, tragedia di un amore infelice, di un amore
fomentato dal tertium, da un vitium, che è una crepa nel muro confinante,
attraverso cui i due innamorati lasciano transitare parole, sospiri, aliti.
Quel difetto di costruzione, mai notato da alcuno, balza evidente agli occhi
dei giovani (quid non sensit amor?). Impediti dalle famiglie che ostacolano
l’unione, i giovani sostano davanti a quel “difetto” e si sussurrano parole
d’amore, parole strazianti. E i baci? Decidono entrambi di vedersi, quella
notte, presso i resti del monumento del re Nino. Tisbe arriva nel luogo
dell’appuntamento per prima. Un leone, le cui fauci sono impregnate del sangue
di una vittima da poco divorata, è lì e, alla vista di Tisbe, le strappa il velo.
Tisbe fugge via. Giunge poco dopo Piramo. Vede il velo della sua amata
macchiato di sangue, si colpevolizza per il ritardo, piange la morte dell’amata
e si trafigge con il pugnale. E’ la volta di Tisbe. Tornata nel luogo
dell’appuntamento e annichilita alla vista di Piramo morto, strappa dal petto
il pugnale e compie il medesimo atto di morte. E il gelso bianco muta il colore
in vermiglio.
E’ il
racconto di Ovidio, genialmente elaborato da Shakespeare.
La parete ovvero il tertium
Non so. E perciò il mio dire è oscuro. Allusivo.
Al tramonto,
gli spifferi ingravidano le pupille da tempo spalancate, sul punto di….decidi
di no e poi…poi non importa se torni daccapo o non torni.
Il computo è
lungo. Infinito. Tu sei finita. Le labbra, le tue mani, le cosce sinuose, gli
occhi che implorano.
Il neo un
po’ sopra, sull’arcata che suggella la polpa carnosa, a suggerire….sventagliare
dettagli d’un immenso finito.
All’aurora
ancor gravida del peso della notte, svesti le pupille, spulci i granelli
che s’annidono tra i fili dorati, e vai.
Continuo a
dondolare il capo. Sussurrarmi il dubbio oneroso.
So…so che mi
è negato serrarmi a quel muro, muro allestito da ciclopiche braccia.
A dirmi di
no, chi? L’altro ostile? No. L’altro sopporta. Partecipa. Com-patisce.
Io…a non
volere.
Oh se
potessi entro una insidiosa palude guazzare e lampeggiare vermi serpi e viscidi
insetti e abbonirli e squamarli dei loro toni consunti e offrire intensi colori
e carburante agli arti depressi!
Oh se
potessi con le braccia bloccare onde funeste, che dai fondali s’arrampicano,
toccano il cielo, e fendere marosi e la pelle perennemente levigata!
Mi arrendo.
Io…non giungo mai.
So di non
potere. So di non volere.
Avanti a me
non mura ossidate dall’implacabile materia.
Avanti a me
nebbia e i miei singulti e la necessità di un nuovo edificio, ideato da me.
Allargo le
braccia. Contenere te…sì…è possibile se determino l’ora, il giorno, solo se
decido la foggia del vestito, appronto il trucco, collego il colore dei
sandali col tono dei capelli e basta.
Nel tempo, che la materia compatta
determina, c’è un prima un poi, un istinto che volge verso o non, potresti
discernere forme, variegate, in perenne movimento.
Quando…quando
dirò dell’altro? Della eternità?
Non so.
Crollato quel muro, non so se l’azzurro che fascia il mio seno sbiadisce
e….quali i colori che sono oltre la materia e vi sono o tutto è allo stesso
modo della visione dei cani?
Mi accosto.
Timida, le ali non ancora tarpate, spicco il volo, osservo, mi confondo e torno
e dico.
Due, anzi
tre. Piramo Tisbe e una parete. Ispessita dal tempo ma forata in un punto e
permette al respiro, anzi osa il respiro il suo viaggio. Solfeggia
dall’una verso l’altro. Respiro illogico. Soffio scaldato da un illogico umano
senso. E allora senso divino.
Umana la
voce che si connota e quella di lei “ Amore mio prezioso…
E’ un
incanto. Il soffio mielato segna suoni, lancia molecole che dritte toccano
centri vitali e lui oramai illanguidito risponde o non risponde, totalmente
immerso nel suo languore.
Ancora lei “
Amore mio delizioso…
…e poi, poi
nulla.
L’animo
guizzante di gioia è una rarità. Corallo preziosissimo, perché raro, perché
naturale. E non deve impegnarsi a costruire sillabe. Deve, quando un’oasi
di pace fiorisce in un deserto abbandonato, lì immergersi e partecipare.
Accade in
una terra esotica, civiltà primordiale, il luogo entro due fiumi.
Bellissimi
entrambi. D’aspetto e di animo.
Chi non
s’irradia d’amore e per amore?
Ostili i
genitori e di Piramo e di Tisbe. Tumulate le menti da quelle mura cementate dal
tempo.
La fiamma
brucia la carne. Ogni molecola disubbidisce all’ordine del capo. Gran
scompiglio.
La decisione
sorge in entrambi.
Lei “ Al calare delle tenebre sarò
accanto al sepolcro del re. Ai piedi del gelso. Presso la sorgente. Toccare la
tua carne, sentirmi terrena e …
Lui “Una
sola carne….tornare al modo di sempre….con te sentire la pienezza, l’origine….
Cala la
notte.
L’ultimo
inchino e i reni della servetta disfatti dalla febbrile attività quotidiana e
disfatta l’apparenza del giorno.
L’apparenza
che tutto sia contenuto nel giorno.
Mentre la
luna s’irradia e tutto riappare febbricitante, verosimilmente
incontrollabile e verosimilmente vero.
Tisbe giunge
ed è la prima. Si accomoda ai piedi del gelso, già stralunata dal bacio d’una
infìda luna, quella sera spicchio sottile sottile. Quella sera più che mai
profetica.
Un ruggito e
Tisbe agita le caviglie e slancia le gambe da gazzella, all’apparire d’una
leonessa. Lascia cadere il velo, che un po’ prima celava i suoi tratti.
La belva
s’abbevera alla sorgente, dopo un lauto pasto e del velo si serve e
struscia la bocca ancora insozzata di sangue d’una bestiola. Poi va.
Ecco…arriva
lui…Piramo. Pesante, guardingo, agitato nell’animo. “ Il velo di Tisbe? Lordo
di sangue?, fra di sé. Non può accettare. Senza la grazia di lei? Non sentirà
le stagioni. Senza le carezze di lei? Darà un addio al proprio corpo. E
quell’animo ora triste ora radioso, che gli ha insegnato il sì e il no. E il
tono minaccioso e la paura della solitudine e la comprensione verso il
prossimo.
Sguaina la
spada e s’infilza.
Folle il
viaggio della vita e solo a metà, perfettamente inutile.
Poco
dopo…passi lenti braccia distese occhi nuotanti… giunge Tisbe. Urge il
richiamo. La mente impazzisce, accalorata dai sensi. Toccare, baciare,
respirare colui che la rende viva, che le offre tutti i colori del mondo. E lo
trova ansimante e in presenza di lei l’ultimo fiato.
Non può. No. Tisbe non può sopravvivere senza luce. Una grande determinazione.
Eccessiva consapevolezza. Un attimo e torve maschere la inseguono. Sarà così
per sempre. Meglio fuggire all’inganno della mente. Fedifraga. Da sola non
regge. Senza calore è un mostro esecrabile. La sua fine pensata e fortemente
voluta. S’infilza.
Il gelso si
colorerà del fosco del loro sangue.
Tutto
rispecchia la norma. Il racconto tocca le corde del cuore. Pietà. Dolore.
Malinconia. Nostalgia. Tormento. Nel campo dell’umano. Nel campo del sempre e
così.
E se mi
avvio nel campo dell’oltre uomo?
In quella
trazzera impervia dirigo il passo e, senza impennate, senza blasfemi,
vedo….anzi non vedo la parete.
Lì nessuna
parete. Quella che ha reso i due uguali, quella che contiene amore odio, che
limita il basso e l’alto, il femminile e il virile, i due e il terzo, il dì e
la notte.
Lì il mondo
beato.
Lì vedo
essenze. Essenze più o meno luminose. Luce intensa tanto quanto l’energia che
nel mondo di qui hanno espresso.
Lucia Arsì
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