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sabato 17 gennaio 2015

La storia di Didone VIII parte

Francesco Paolo Argentieri, Enea e Didone
Improbus amor

Leopardi nello Zibaldone manifesta antipatia per Enea, sia pure a causa di una sua presunta perfezione: "Omero ha fatto Achille infinitamente men bello di quello che poteva farlo... e noi proviamo che ci piace più Achille che Enea ec. onde è falso anche che quello di Virgilio sia maggior poema ec." (2)… Troppa virtù morale, poca forza di passione, troppa ragionevolezza, troppa rettitudine, troppo equilibrio e tranquillità d'animo, troppa placidezza, troppa benignità, troppa bontà. Virgilio descrive divinamente l'amor di Didone per lui: da questo, e quasi da questo solo, ci accorgiamo ch'egli è ancor giovane e bello; e sebben questo in lui non ripugna alla (3609) natura e al verisimile naturale, come in Ulisse, pur tanta è la serietà dell'idea che Virgilio ci fa concepir del suo eroe, che la gioventù e la bellezza ci paiono in lui fuor di luogo… E così mentre Virgilio si ferma e si compiace in descrivere la passion di Didone e i suoi vari accidenti, progressi, andamenti, ed effetti…a riguardo d'Enea e della sua passione (3610) parla così coperto, anzi dissimulato…anzi serba quasi un così alto silenzio, che e' non mostra essa passione se non indirettamente e p. accidente, e in quanto ella si congettura e si lascia supporre p. necessità da quel ch'ei narra di Didone, e sempre volgendosi alla sola Didone. E par che volentieri, se si fosse potuto, egli avrebbe fatto che il lettore non istimasse Enea per niun modo tocco dalla passion dell'amore (di donna pur sì alta e sì degna e sì magnanima e sì bella e sì amante e tenera), e giudicasse che Didone avesse ottenuto il piacer suo, senza che quegli avesse conceduto. E chi potesse così stimare seconderebbe il desiderio di Virgilio. Tanto egli ebbe a schivo di far comparire nel suo eroe un errore, una debolezza, laddove non v'è cosa più amabile che la debolezza nella forza, né cosa meno amabile che un carattere e una persona senza debolezza veruna. E tanto egli giudicò che dovesse nuocere (3611) appo i lettori alla stima non solo, ma all'interesse pel suo Eroe (che mal ei confuse colla stima), il concepirlo e il vederlo capace di passione, capace di amore, tenero, sensibile, di cuore".
A noi di tale "eroe" dà fastidio piuttosto la doppiezza e ci piace metterlo a confronto con il Prometeo incatenato di Eschilo che attribuisce dignità al suo peccato: " io sapevo tutto questo: /di mia volontà , di mia volontà (eJkw;n eJkwvn) ho commesso la trasgressione, non lo negherò"(vv. 265-266).
Si può pensare anche all' Edipo di Sofocle che si punisce da solo colpendosi gli occhi per non vedere gli orrori che ha commesso, anche se inconsapevolmente: " Apollo, era Apollo o amici/colui che portò a compimento queste cattive cattive mie queste mie sofferenze/Però di sua mano nessuno li[1] colpì/tranne me infelice"
(Edipo re , vv.1329-1332)

Didone non accetta le scuse e non cessa di incendere (v. 360): infatti , infiammata ("accensa " v. 364), risponde all’amante con parole di fuoco: “Nec tibi diva parens, generis nec Dardanus auctor/perfide, sed duris genuit te cautibus horrens/Caucasus Hyrcanaeque admorunt ubera tigres./Nam quid dissimulo aut quae me ad maiora reservo?/Num fletu ingemuit nostro? Num lumina flexit?/Num lacrimas victus dedit, aut miseratus amantem est?” (vv. 365-369), non una dea è tua madre, né Dardano ti è capostipite, perfido, ma ti ha generato il Caucaso irto di dure rupi e tigri Ircanie ti hanno accostato le poppe. Infatti perché taccio o per quali mali più grandi mi tengo da parte? Ha forse emesso un gemito al nostro pianto? Ha girato lo sguardo? Ha versato lacrime vinto, ho ha commiserato l’amante?
Torquato Tasso ricorda questi versi nel XVI canto della Gerusalemme liberata, quando Armida viene abbandonata da Rinaldo ed ella, forsennata, gli dice: “Non te Sofia[2] produsse e non sei nato/de l ‘azio[3]
 sangue tu; te l’onda insana /del mar produsse e ‘l Caucaso gelato,/e le mamme allattàr di tigre arcana./Che dissimulo io più? l’uomo spietato/pur un segno non diè di mente umana. /Forse cambiò color? Forse al mio duolo/bagnò almen gli occhi o sparse un sospir solo? (57).
Rinaldo, come Enea, è stato richiamato al suo dovere di eroe necessario e fatale. E’ l’eterno tipo dell’uomo che antepone all’amore la carriera, di eroe o di direttore di banca.

C’è stata da parte di Enea un'ingratitudine e una malafede, tanto grandi da avere spento in lei ogni possibilità di credere nella buona fede che oramai in nessun luogo è sicura"Nusquam tuta fides " (v. 372).
Torniamo sulla fides e sentiamo ancora La Penna-Grassi: " fides è propriamente quella garanzia che si dà col foedus , specialmente collo stringere la destra (cfr. v. 307) e la cui violazione è punita dagli dèi. Didone si riferisce soprattutto alla fides data da Enea col vincolo del matrimonio. Probabile che Virgilio avesse in mente Euripide, Med. 412 s. "Gli uomini vogliono solo frodi, la fede giurata per gli dèi non si regge più"; ancora più probabile l'eco di Catullo 64, 143 s. Nunc iam nulla viro iuranti femina credat,/nulla viri speret sermones esse fideles[4] (ancora una volta si può misurare la differenza di tono: Catullo è più elegiaco, più effusivo, Virgilio più tragico nella sua concisione)"[5].
La donna sente che il fuoco d'amore è diventato un incendio di odio: " Heu furiis incensa feror (v. 376), ahi sono trascinata in fiamme dalle furie!
Poi congeda l'amante, che la sta abbandonando, con una maledizione: " …Neque te teneo neque dicta repello./ i, sequere Italiam ventis, pete regna per undas;/spero equidem mediis, si quid pia numina possunt,/supplicia hausurum scopulis et nomine Dido/saepe vocaturum. Sequar atris ignibus absens/et, cum frigida mors anima seduxerit artus,/ omnibus umbra locis adero. Dabis, improbe, poenas[6];/ audiam et haec manis veniet mihi fama sub imos " (vv. 381- 386), Non ti trattengo e non confuto le tue parole. Va', insegui l'Italia coi venti, cerca un regno attraverso le onde. Spero però che in mezzo agli scogli, se i pii numi hanno qualche potere, berrai la pena e invocherai spesso Didone per nome. Ti inseguirò con fiaccole funebri anche da lontano e quando la gelida morte avrà separato le mie membra dall'anima, sarò presente in tutti i luoghi come ombra. Pagherai il fio malvagio! starò in ascolto e questa fama mi raggiungerà sotto gli abissi.
C’è da Notare anche il riuso che fa di queste parole il Tasso nella maledizione che Armida scaglia contro Rinaldo: “Vattene pur, crudel, con quella pace/che lasci a me; vattene, iniquo, omai (…) E s’è destin ch’esca dal mar, che schivi/gli scogli e l’onde e che a la pugna arrivi,/là tra ’l sangue e lr morti egro giacente/mi pagherai le pene, empio guerriero” (Gerusalemme Liberata, XVI, 59-60).
 Si noti che ventis e undas significano l'instabilità pericolosa della ricerca che corrisponde all'inaffidabilità dell'anima di Enea: fissi sono invece gli scogli che colpiranno il traditore facendogli bere quell'acqua dove erano stati scritti i suoi giuramenti spergiuri. Didone favorirà quella morte, e la fama, che l'ha infamata da viva, la compenserà portandogliene la sospirata notizia.- Anima è il soffio vitale: deriva dall'indoeuropeo *anem- che ha dato come esito in greco ajnem- da cui a[nemo", vento e in latino anim- da cui, oltre anima, animus, animo, coraggio, animal, animosus.

"Nella nuova battuta di Didone (365-387) l'ira proprompe con violenza, variata non più dalla preghiera, ma solo dal sarcasmo: è qui che Didone può ricordare meglio il volto selvaggio della Medea di Euripide, che pure sa unire allo sfogo di una passione furente le sottigliezze di una logica ironica e sarcastica: come Medea, Didone si sente vittima dell'ingiustizia e senza protezione divina contro l'ingiustizia. Dalla battuta, emerge chiaramente che il furor d'amore è divenuto furor di odio senza confini e che il mondo dei valori di Enea resta del tutto estraneo all'animo di Didone"[7].
Ma il pio eroe deve eseguire comunque gli ordini degli dèi e non può permettersi l'amore: "At pius Aeneas, quamquam lenire dolentem/solando cupit et dictis avertere curas,/multa gemens magnoque animo labefacto amore,/iussa[8] tamen divom exsequitur classemque revisit " (vv. 393-396), ma il pio Enea, sebbene desideri mitigare la dolente consolandola e rimuovere gli affanni con le parole, gemendo molto e scosso nell'animo da grande amore, esegue nondimeno gli ordini degli dèi e torna a vedere la flotta.

La pietas
Pius Aeneas è una formula che torna una ventina di volte nel poema. Qui l'epiteto pius "riappare dopo un lungo intervallo (l'ultima volta in I 378). Poiché gli epiteti virgiliani sono spesso coerenti con la situazione, anche qui il legame va cercato. Pius esprime il rispetto e l'amore dei valori morali e religiosi, soprattutto devozione alla famiglia, alla stirpe, alla patria, agli dèi…Qui l'aggettivo può essere sentito in legame col dolore che egli prova per Didone; ma più probabilmente prevale (forse senza escludere l'altro) il legame col rispetto degli ordini divini"[9].
Secondo Conte, Enea deve giungere alla "spoliazione di sè" per realizzare il suo scopo: "La pietas di Enea potrebbe essere vista, se mi si concede, in termini di ossimoro, come insensibile sensibilità, ossia una partecipazione al dolore di personaggi perduti o vinti durante il cammino, ma al tempo stesso un vietarsi ad essa in nome del valore della meta da raggiungere"[10]. Personalmente, almeno in questo caso, assimilo la pietas di Enea all'ipocrisia del furfante bigotto. La assomiglio pure al culto della peiqarciva (disciplina) di Creonte che, per reprimere la disobbedienza della nipote, la manda a morte, mentre ella morendo rivendica la pietà come virtù propria: "O rocca della terra di Tebe e dei miei padri/e dèi progenitori/io vengo portata via e non indugio più./Guardate, maggiorenti di Tebe,/l'unica superstite della stirpe regale,/quali sofferenze inumane da quali uomini subisco/poiché onorai la pietà" (Antigone, vv.937-943).
Capisco e apprezzo di più la motivazione dell'abbandono di Calipso da parte di Odisseo: " ejpei; oujkevti h{ndanh nuvmfh " (Odissea , V, 153), poiché la ninfa non le piaceva più.
La pietas che Virgilio celebra e lo stesso Enea si attribuisce[11], presentandosi e qualificandosi alla madre presunta virgo[12], viene smontata da Orazio quando afferma che essa, nemmeno se attestata dal sacrificio di un toro al giorno, porterà una sosta alle rughe né alla vecchiaia che incalza né alla morte invitta: "nec pietas moram/rugis et instanti senectae/adferet indomitaeque morti " (Odi, II, 14, 2-4). Parimenti nel quarto libro delle Odi il poeta avverte il nobile Torquato che né la stirpe né la facondia né la pietas potranno restituirlo alla vita una volta che sarà morto e Minosse avrà dato sul suo conto giudizi inappellabili: "Cum semel occideris et de te splendida Minos/fecerit arbitria,/Non Torquate, genus, non te facundia, non te/restituet pietas " (vv. 21-24).

Altrettanto inefficace si rivela la pietas dei Meli di Tucidide quando rispondono agli Ateniesi che saranno in grado di resistere alla loro superprepotenza : "o{ti o{{sioi pro;" ouj dikaivou" " (V, 104), in quanto siamo pii opposti a persone ingiuste.
Canzonatorio e dissacrante a proposito della pietas di Enea è Ovidio che menziona il figlio di Anchise tra gli amanti infedeli: egli causò la morte di Didone e tuttavia "famam pietatis habet " (Ars III 39) ha la reputazione di pio. Ovidio opera un rovesciamento nei confronti di Virgilio e dell'etica di cui il poeta augusteo si faceva portatore.
Boccaccio nella novella di Nastagio degli Onesti identifica la "commendata" pietà con il contraccambio della devozione amorosa, e la malvagità con lo sprezzante rifiuto dell'offerta d'amore. Questa storia anzi mostra che tale crudeltà "è dalla divina giustizia rigidamente…vendicata"[13].
"Ma cos'è la pietà? Nel dialogo Eutifrone, nonostante l'incalzante dialettica cui la pietà viene sottoposta, non rimaniamo soddisfatti (forse perché oggi soffriamo per la sua particolare mancanza). A partire da questa assenza attuale possiamo arrivare a dire che la "pietà" è il saper trattare adeguatamente con l'altro…Nel breve dialogo Eutifrone…la pietà (to; o{sion) viene dapprima definita come rapporto adeguato con gli dèi, per essere da ultimo riconosciuta come virtù, vale a dire, un modo di essere dell'uomo conforme al giusto"[14].
 Nel primo Stasimo delle Baccanti di Euripide il Coro invoca la Pietà perché scenda sulla terra a punire l'empia violenza di Penteo : " J Osiva povtna qew'n,- J Osiva d ' a{ kata; ga'n-crusevan ptevruga fevrei",-tavde Penqevw" ajivvvei" ;" (vv. 370-373), Pietà signora tra gli dèi/Pietà che attraverso la terra/porti l'ala d'oro,/odi queste bestemmie di Penteo?
Antigone qualifica come "santa" la trasgressione degli ordini del tiranno: "o{sia panourghvsa" ' (Antigone, v. 74), dopo che ho compiuto un'illegalità santa. In questo caso è pia non l'obbedienza ma la disobbedienza.

Virgilio, mosso a compassione della donna, e non volendo del resto incolpare il suo eroe, ritorce e fa ricadere sull'amore la maledizione indirizzata a Enea dall'amante abbandonata: "Improbe Amor, quid non mortalia pectora cogis!"[15] (v. 412), malvagio Amore, a cosa non costringi i petti mortali!
E' un'apostrofe contro l'amore che viene messo allo stesso livello dell'auri sacra fames , la maledetta fame dell'oro la quale ha spinto il re di Tracia a sgozzare l'ospite Polidoro: "Quid non mortalia pectora cogis,/ auri sacra fames! " (Eneide , III, 56-57). "L'apostrofe in Europa è vecchia come la poesia: Omero la usa spesso (si pensi all'allocuzione di Crise agli Atridi all'inizio dell'Iliade, che richiama con evidenza l'immagine di uno che preghi con le braccia alzate)"[16].
 Apostrofe accusatoria di Eros simile a questa si trova nel quarto libro delle Argonautiche quando Apollonio Rodio rivolge un anatema ad Eros quale latore di infiniti dolori: Eros atroce, grande sciagura, grande abominio per gli uomini ("Scevtli j [Erw", mevga ph'ma, mega stuvgo" ajnqrwvpoisin" (IV, 445) da te provengono maledette contese e gemiti e travagli, e dolori infiniti si agitano per giunta. àrmati contro i figli dei miei nemici, demone, quale gettasti l'accecamento odioso nell'animo di Medea (oi|o" Mhdeivh/ stugerh;n fresi;n e{mbale" a[thn", v. 449).

Giovanni ghiselli

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[1] Gli occhi.
[2] La madre di Rinaldo.
[3] Gli Azi sarebbero stati i progenitori degli Estensi.
[4] Ora nessuna donna creda più nell'uomo che giura, nessuna speri che siano sincere le parole degli uomini.
[5] Op. cit. p. 441
[6] "Notare la violenza ossessiva che la insistente allitterazione dà a questo verso" R, Calzecchi Onesti, op. cit., p. 293.
[7]A. La Penna-C. Grassi, op. cit., p. 408.
[8] Come il suo obbedientissimo eroe Virgilio esegue gli ordini non teneri (haud mollia iussa, Georgica III, 41) di Mecenate, il committente a cui si fa riferimento più volte nel poema agricolo. Mecenate "E'insomma un patrono esigente, che vuole impegnare tutto intero l'impianto didascalico dell'opera con il contenuto etico-politico di cui è interprete autorevole" Alessandro Perutelli, Il testo come maestro in Lo spazio letterario di Roma antica, vol. I, p. 299.
[9] A. La Penna-C. Grassi, op. cit., p. 446.
[10]Virgilio , p. 94.
[11] Sum pius Aeneas (I, 378)
[12] O quam te memorem virgo ? (I, 327), o vergine, come debbo chiamarti?
[13] Decameron , V, 8.
[14] M. Zambrano, L'uomo e il divino, p. 187.
[15] "Il primo emistichio ripete un motivo dell' VIII Bucolica, v. 47: Saevus amor, e 49/50 Improbus ille puer: la conclusione del verso ripete III, 56". R. Calzecchi Onesti, op. cit., p. 295.
[16] E. Auerbach, Studi su Dante, p. 33.
[16] Decameron , V, 8.
[16] M. Zambrano, L'uomo e il divino, p. 187.
[16] "Il primo emistichio ripete un motivo dell' VIII Bucolica, v. 47: Saevus amor, e 49/50 Improbus ille puer: la conclusione del verso ripete III, 56". R. Calzecchi Onesti, op. cit., p. 295.
[16] E. Auerbach, Studi su Dante , p. 33.

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