Improbus amor
Leopardi nello Zibaldone manifesta antipatia per Enea,
sia pure a causa di una sua presunta perfezione: "Omero ha fatto Achille
infinitamente men bello di quello che poteva farlo... e noi proviamo che ci piace più Achille che Enea ec. onde è
falso anche che quello di Virgilio sia maggior poema ec." (2)… Troppa virtù
morale, poca forza di passione, troppa ragionevolezza, troppa rettitudine,
troppo equilibrio e tranquillità d'animo, troppa placidezza, troppa benignità,
troppa bontà. Virgilio descrive divinamente l'amor di Didone per lui: da
questo, e quasi da questo solo, ci accorgiamo ch'egli è ancor giovane e bello;
e sebben questo in lui non ripugna alla (3609) natura e al verisimile naturale,
come in Ulisse, pur tanta è la serietà dell'idea che Virgilio ci fa concepir
del suo eroe, che la gioventù e la bellezza ci paiono in lui fuor di luogo… E
così mentre Virgilio si ferma e si compiace in descrivere la passion di Didone
e i suoi vari accidenti, progressi, andamenti, ed effetti…a riguardo d'Enea e
della sua passione (3610) parla così coperto, anzi dissimulato…anzi serba quasi
un così alto silenzio, che e' non mostra essa passione se non indirettamente e
p. accidente, e in quanto ella si congettura e si lascia supporre p. necessità
da quel ch'ei narra di Didone, e sempre volgendosi alla sola Didone. E par che
volentieri, se si fosse potuto, egli avrebbe fatto che il lettore non istimasse
Enea per niun modo tocco dalla passion dell'amore (di donna pur sì alta e sì degna
e sì magnanima e sì bella e sì amante e tenera), e giudicasse che Didone avesse
ottenuto il piacer suo, senza che quegli avesse conceduto. E chi potesse così
stimare seconderebbe il desiderio di Virgilio. Tanto egli ebbe a schivo di far
comparire nel suo eroe un errore, una debolezza, laddove non v'è cosa più
amabile che la debolezza nella forza, né cosa meno amabile che un carattere e
una persona senza debolezza veruna. E tanto egli giudicò che dovesse nuocere
(3611) appo i lettori alla stima non solo, ma all'interesse pel suo Eroe (che
mal ei confuse colla stima), il concepirlo e il vederlo capace di passione,
capace di amore, tenero, sensibile, di cuore".
A noi di tale
"eroe" dà fastidio piuttosto la doppiezza e ci piace metterlo a
confronto con il Prometeo incatenato di
Eschilo che attribuisce dignità al suo peccato: " io sapevo tutto questo: /di
mia volontà , di mia volontà (eJkw;n
eJkwvn) ho commesso la trasgressione, non lo negherò"(vv. 265-266).
Si può pensare anche all' Edipo di Sofocle che si punisce da
solo colpendosi gli occhi per non vedere gli orrori che ha commesso, anche se
inconsapevolmente: " Apollo, era Apollo o amici/colui che portò a
compimento queste cattive cattive mie queste mie sofferenze/Però di sua mano
nessuno li[1]
colpì/tranne me infelice"
(Edipo re ,
vv.1329-1332)
Didone non accetta le scuse e non cessa di incendere (v. 360): infatti , infiammata
("accensa " v. 364),
risponde all’amante con parole di fuoco: “Nec
tibi diva parens, generis nec Dardanus auctor/perfide, sed duris genuit te
cautibus horrens/Caucasus Hyrcanaeque admorunt ubera tigres./Nam quid dissimulo
aut quae me ad maiora reservo?/Num fletu ingemuit nostro? Num lumina flexit?/Num lacrimas victus dedit, aut miseratus amantem
est?” (vv.
365-369), non una dea è tua madre, né Dardano ti è capostipite, perfido, ma ti
ha generato il Caucaso irto di dure rupi e tigri Ircanie ti hanno accostato le
poppe. Infatti perché taccio o per quali mali più grandi mi tengo da parte? Ha
forse emesso un gemito al nostro pianto? Ha girato lo sguardo? Ha versato
lacrime vinto, ho ha commiserato l’amante?
Torquato Tasso ricorda questi versi nel XVI canto della
Gerusalemme liberata, quando Armida viene abbandonata da Rinaldo ed ella,
forsennata, gli dice: “Non te Sofia[2]
produsse e non sei nato/de l ‘azio[3]
sangue tu; te l’onda
insana /del mar produsse e ‘l Caucaso gelato,/e le mamme allattàr di tigre
arcana./Che dissimulo io più? l’uomo spietato/pur un segno non diè di mente
umana. /Forse cambiò color? Forse al mio duolo/bagnò almen gli occhi o sparse
un sospir solo? (57).
Rinaldo, come Enea, è stato richiamato al suo dovere di eroe
necessario e fatale. E’ l’eterno tipo dell’uomo che antepone all’amore la
carriera, di eroe o di direttore di banca.
C’è stata da parte di Enea un'ingratitudine e una malafede,
tanto grandi da avere spento in lei ogni possibilità di credere nella buona
fede che oramai in nessun luogo è sicura"Nusquam tuta fides " (v. 372).
Torniamo sulla fides e sentiamo ancora La
Penna-Grassi: " fides è
propriamente quella garanzia che si dà col foedus
, specialmente collo stringere la destra (cfr. v. 307) e la cui violazione è
punita dagli dèi. Didone si riferisce soprattutto alla fides data da Enea col vincolo del matrimonio. Probabile che
Virgilio avesse in mente Euripide, Med. 412
s. "Gli uomini vogliono solo frodi, la fede giurata per gli dèi non si
regge più"; ancora più probabile l'eco di Catullo 64, 143 s. Nunc iam nulla viro iuranti femina credat,/nulla
viri speret sermones esse fideles[4] (ancora una
volta si può misurare la differenza di tono: Catullo è più elegiaco, più
effusivo, Virgilio più tragico nella sua concisione)"[5].
La donna sente che il fuoco d'amore è diventato un incendio
di odio: " Heu furiis incensa
feror (v. 376), ahi sono trascinata in fiamme dalle furie!
Poi congeda l'amante, che la sta abbandonando, con una
maledizione: " …Neque te teneo neque dicta repello./ i, sequere Italiam
ventis, pete regna per undas;/spero equidem mediis, si quid pia numina
possunt,/supplicia hausurum scopulis et nomine Dido/saepe vocaturum. Sequar atris ignibus absens/et, cum
frigida mors anima seduxerit artus,/ omnibus umbra locis adero. Dabis, improbe, poenas[6];/ audiam et
haec manis veniet mihi fama sub imos " (vv. 381- 386), Non ti
trattengo e non confuto le tue parole. Va', insegui l'Italia coi venti, cerca
un regno attraverso le onde. Spero però che in mezzo agli scogli, se i pii numi
hanno qualche potere, berrai la pena e invocherai spesso Didone per nome. Ti
inseguirò con fiaccole funebri anche da lontano e quando la gelida morte avrà
separato le mie membra dall'anima, sarò presente in tutti i luoghi come ombra.
Pagherai il fio malvagio! starò in ascolto e questa fama mi raggiungerà sotto
gli abissi.
C’è da Notare anche il riuso che fa di queste parole il
Tasso nella maledizione che Armida scaglia contro Rinaldo: “Vattene pur,
crudel, con quella pace/che lasci a me; vattene, iniquo, omai (…) E s’è destin
ch’esca dal mar, che schivi/gli scogli e l’onde e che a la pugna arrivi,/là tra
’l sangue e lr morti egro giacente/mi pagherai le pene, empio guerriero” (Gerusalemme Liberata, XVI, 59-60).
Si noti che ventis
e undas significano l'instabilità pericolosa della ricerca che
corrisponde all'inaffidabilità dell'anima di Enea: fissi sono invece gli scogli
che colpiranno il traditore facendogli bere quell'acqua dove erano stati
scritti i suoi giuramenti spergiuri. Didone favorirà quella morte, e la fama,
che l'ha infamata da viva, la compenserà portandogliene la sospirata notizia.- Anima
è il soffio vitale: deriva dall'indoeuropeo *anem- che ha dato come
esito in greco ajnem- da cui a[nemo", vento e in latino anim-
da cui, oltre anima, animus, animo, coraggio, animal, animosus.
"Nella nuova battuta di Didone (365-387) l'ira
proprompe con violenza, variata non più dalla preghiera, ma solo dal sarcasmo: è
qui che Didone può ricordare meglio il volto selvaggio della Medea di Euripide,
che pure sa unire allo sfogo di una passione furente le sottigliezze di una
logica ironica e sarcastica: come Medea, Didone si sente vittima
dell'ingiustizia e senza protezione divina contro l'ingiustizia. Dalla battuta,
emerge chiaramente che il furor d'amore
è divenuto furor di odio senza
confini e che il mondo dei valori di Enea resta del tutto estraneo all'animo di
Didone"[7].
Ma il pio eroe deve eseguire comunque gli ordini degli dèi e
non può permettersi l'amore: "At pius Aeneas, quamquam lenire
dolentem/solando cupit et dictis avertere curas,/multa gemens magnoque animo
labefacto amore,/iussa[8] tamen divom
exsequitur classemque revisit " (vv. 393-396), ma il pio Enea, sebbene
desideri mitigare la dolente consolandola e rimuovere gli affanni con le
parole, gemendo molto e scosso nell'animo da grande amore, esegue nondimeno gli
ordini degli dèi e torna a vedere la flotta.
La pietas
Pius Aeneas è una formula che torna una ventina di
volte nel poema. Qui l'epiteto pius "riappare dopo un lungo
intervallo (l'ultima volta in I 378). Poiché gli epiteti virgiliani sono spesso
coerenti con la situazione, anche qui il legame va cercato. Pius esprime
il rispetto e l'amore dei valori morali e religiosi, soprattutto devozione alla
famiglia, alla stirpe, alla patria, agli dèi…Qui l'aggettivo può essere sentito
in legame col dolore che egli prova per Didone; ma più probabilmente prevale (forse
senza escludere l'altro) il legame col rispetto degli ordini divini"[9].
Secondo Conte,
Enea deve giungere alla "spoliazione di sè" per realizzare il suo
scopo: "La pietas di Enea potrebbe essere vista, se mi si concede, in
termini di ossimoro, come insensibile sensibilità, ossia una partecipazione al
dolore di personaggi perduti o vinti durante il cammino, ma al tempo stesso un
vietarsi ad essa in nome del valore della meta da raggiungere"[10].
Personalmente, almeno in questo caso, assimilo la pietas di Enea
all'ipocrisia del furfante bigotto. La assomiglio pure al culto della peiqarciva (disciplina) di Creonte che,
per reprimere la disobbedienza della nipote, la manda a morte, mentre ella
morendo rivendica la pietà come virtù propria: "O rocca della terra di
Tebe e dei miei padri/e dèi progenitori/io vengo portata via e non indugio
più./Guardate, maggiorenti di Tebe,/l'unica superstite della stirpe
regale,/quali sofferenze inumane da quali uomini subisco/poiché onorai la
pietà" (Antigone, vv.937-943).
Capisco e apprezzo di più la motivazione dell'abbandono di
Calipso da parte di Odisseo: " ejpei;
oujkevti h{ndanh nuvmfh " (Odissea , V, 153), poiché la
ninfa non le piaceva più.
La pietas che Virgilio celebra e lo stesso
Enea si attribuisce[11],
presentandosi e qualificandosi alla madre presunta virgo[12],
viene smontata da Orazio quando afferma che essa, nemmeno se attestata
dal sacrificio di un toro al giorno, porterà una sosta alle rughe né alla
vecchiaia che incalza né alla morte invitta: "nec pietas moram/rugis et instanti senectae/adferet indomitaeque morti
" (Odi, II, 14, 2-4). Parimenti
nel quarto libro delle Odi il poeta
avverte il nobile Torquato che né la stirpe né la facondia né la pietas potranno restituirlo alla vita
una volta che sarà morto e Minosse avrà dato sul suo conto giudizi
inappellabili: "Cum semel occideris
et de te splendida Minos/fecerit arbitria,/Non Torquate, genus, non te
facundia, non te/restituet pietas " (vv. 21-24).
Altrettanto inefficace si rivela la pietas dei Meli
di Tucidide quando rispondono agli Ateniesi che saranno in grado di resistere
alla loro superprepotenza : "o{ti
o{{sioi pro;" ouj dikaivou" " (V, 104), in quanto siamo
pii opposti a persone ingiuste.
Canzonatorio e dissacrante a proposito della pietas
di Enea è Ovidio che menziona il figlio di Anchise tra gli amanti infedeli: egli
causò la morte di Didone e tuttavia "famam
pietatis habet " (Ars III
39) ha la reputazione di pio. Ovidio opera un rovesciamento nei confronti di
Virgilio e dell'etica di cui il poeta augusteo si faceva portatore.
Boccaccio
nella novella di Nastagio degli Onesti identifica la "commendata"
pietà con il contraccambio della devozione amorosa, e la malvagità con lo
sprezzante rifiuto dell'offerta d'amore. Questa storia anzi mostra che tale
crudeltà "è dalla divina giustizia rigidamente…vendicata"[13].
"Ma cos'è la pietà? Nel dialogo Eutifrone,
nonostante l'incalzante dialettica cui la pietà viene sottoposta, non rimaniamo
soddisfatti (forse perché oggi soffriamo per la sua particolare mancanza). A
partire da questa assenza attuale possiamo arrivare a dire che la
"pietà" è il saper trattare adeguatamente con l'altro…Nel breve
dialogo Eutifrone…la pietà (to;
o{sion) viene dapprima definita come rapporto adeguato con gli dèi, per
essere da ultimo riconosciuta come virtù, vale a dire, un modo di essere
dell'uomo conforme al giusto"[14].
Nel primo Stasimo
delle Baccanti di Euripide il Coro invoca la Pietà perché scenda sulla
terra a punire l'empia violenza di Penteo : " J Osiva povtna qew'n,- J
Osiva d ' a{ kata; ga'n-crusevan
ptevruga fevrei",-tavde Penqevw" ajivvvei" ;" (vv.
370-373), Pietà signora tra gli
dèi/Pietà che attraverso la terra/porti l'ala d'oro,/odi queste bestemmie di
Penteo?
Antigone qualifica come "santa" la trasgressione
degli ordini del tiranno: "o{sia
panourghvsa" ' (Antigone, v. 74), dopo che ho compiuto
un'illegalità santa. In questo caso è pia non l'obbedienza ma la disobbedienza.
Virgilio, mosso a compassione della donna, e non volendo del
resto incolpare il suo eroe, ritorce e fa ricadere sull'amore la maledizione
indirizzata a Enea dall'amante abbandonata: "Improbe Amor, quid non mortalia pectora cogis!"[15]
(v. 412), malvagio Amore, a cosa non costringi i petti mortali!
E' un'apostrofe contro l'amore che viene messo allo stesso
livello dell'auri sacra fames , la
maledetta fame dell'oro la quale ha spinto il re di Tracia a sgozzare l'ospite
Polidoro: "Quid non mortalia pectora
cogis,/ auri sacra fames! " (Eneide
, III, 56-57). "L'apostrofe in Europa è vecchia come la poesia: Omero la
usa spesso (si pensi all'allocuzione di Crise agli Atridi all'inizio dell'Iliade,
che richiama con evidenza l'immagine di uno che preghi con le braccia
alzate)"[16].
Apostrofe accusatoria
di Eros simile a questa si trova nel quarto libro delle Argonautiche
quando Apollonio Rodio rivolge un
anatema ad Eros quale latore di infiniti dolori: Eros atroce, grande
sciagura, grande abominio per gli uomini ("Scevtli
j [Erw", mevga ph'ma, mega stuvgo" ajnqrwvpoisin" (IV,
445) da te provengono maledette contese e gemiti e travagli, e dolori infiniti
si agitano per giunta. àrmati contro i figli dei miei nemici, demone, quale
gettasti l'accecamento odioso nell'animo di Medea (oi|o" Mhdeivh/ stugerh;n fresi;n e{mbale" a[thn",
v. 449).
Giovanni ghiselli
Il blog è arrivato a 207858
[1]
Gli occhi.
[2]
La madre di Rinaldo.
[3]
Gli Azi sarebbero stati i progenitori degli Estensi.
[4]
Ora nessuna donna creda più nell'uomo che giura, nessuna speri che siano
sincere le parole degli uomini.
[5] Op. cit. p. 441
[6]
"Notare la violenza ossessiva che la insistente allitterazione dà a questo
verso" R, Calzecchi Onesti, op. cit., p. 293.
[7]A. La Penna-C. Grassi ,
op. cit., p. 408.
[8]
Come il suo obbedientissimo eroe Virgilio esegue gli ordini non teneri (haud
mollia iussa, Georgica III, 41) di Mecenate, il committente a cui si fa
riferimento più volte nel poema agricolo. Mecenate "E'insomma un patrono
esigente, che vuole impegnare tutto intero l'impianto didascalico dell'opera
con il contenuto etico-politico di cui è interprete autorevole" Alessandro
Perutelli, Il testo come maestro in Lo spazio letterario di Roma antica,
vol. I, p. 299.
[9] A. La Penna-C. Grassi ,
op. cit., p. 446.
[11]
Sum pius Aeneas (I, 378)
[12]
O quam te memorem virgo ? (I,
327), o vergine, come debbo chiamarti?
[13] Decameron , V, 8.
[14] M. Zambrano, L'uomo e il
divino, p. 187.
[15]
"Il primo emistichio ripete un motivo dell' VIII Bucolica, v. 47: Saevus
amor, e 49/50 Improbus ille puer: la conclusione del verso ripete
III, 56". R. Calzecchi Onesti, op. cit., p. 295.
[16] E. Auerbach, Studi su Dante,
p. 33.
[16] Decameron , V, 8.
[16] M. Zambrano, L'uomo e il
divino, p. 187.
[16]
"Il primo emistichio ripete un motivo dell' VIII Bucolica, v. 47: Saevus
amor, e 49/50 Improbus ille puer: la conclusione del verso ripete
III, 56". R. Calzecchi Onesti, op. cit., p. 295.
[16] E.
Auerbach, Studi
su Dante , p. 33.
Ciao . Finalmente torno a leggere le tue belle lezioni. Giovanna Tocco
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