Pompeo Girolamo Batoni, Didone abbandonata |
Appena vede Enea il messaggero lo assale ("Continuo invadit ", v. 265) biasimandolo per il suo crimine.
L'eroe troiano davanti a tanto rimprovero nemmeno cerca di
difendere l'amore:"obmutuit
amens/arrectaeque horrore comae et vox faucibus haesit "(vv. 279-280), restò muto, fuori di
sé, gli si drizzarono i capelli per il terrore, e la voce si arrestò nella
gola.
Il v. 280 è formulare nell'epica virgiliana: riecheggia II
774:"Obstpui steteruntque comae et
vox faucibus haesit ", mi paralizzai, si rizzarono i capelli e la voce
rimase attaccata alla gola. E' la
reazione di Enea davanti all'umbra ,
più grande del naturale, di Creusa perdutasi durante la notte della presa di
Troia.
Questo verso torna identico a III 48 quando Enea si
terrorizza sentendo il lamento di Polidoro venire da una bacchetta[1]
.
La formula del IV canto torna di nuovo in XII v. 868 e
questa volta riguarda Turno paralizzato dal presagio della propria morte.
Ma Enea deve compiere altre imprese grandi e meravigliose,
sicché non rimane agghiacciato a lungo : infatti lo scalda un ardore legittimo
e davvero degno di un eroe:"Ardet
abire fugā " (v. 281), arde di andarsene in fuga, e dà ordini per
prepararla furtivamente, riservandosi di parlarne a Didone nei momenti più
dolci.
La regina però lo
capisce da sola ("quis fallere
possit amantem?", v. 296, chi
potrebbe ingannare un'amante? ), lei che temeva tutto anche se era
tranquillo:"omnia tuta timens" (v. 298).
L'ossimoro allitterante
evidenzia quanto di contraddittorio c'è nell'anima di questa donna innamorata e
ansiosa. L'allitterazione evoca un battere di colpi e contraccolpi.
Per giunta la Fama,
impia , porta la brutta notizia all'amante già sconvolta (furenti , v. 298). Allora scoppia di
nuovo l'incendio della pazzia e dell'amore:"Saevit inops animi totamque incensa per urbem/ bacchatur ",
vv. 300-301, ella infuria, priva di senno, e infiammata baccheggia per tutta la
città.
Quindi la disgraziata affronta Enea al grido
di "perfide " (305), che
echeggia il lamento dell'Arianna abbandonata di Catullo[2]:
prima lo aggredisce rinfacciandogli la malafede, poi lo supplica, evocando la
propria morte, invocandone il senso dell'onore, la gratitudine dovuta, e
cercando di impietosirlo:" Dissimulare
etiam sperasti, perfide, tantum/posse nefas tacitusque mea decedere terra?/nec
te noster amor nec te data dextera quondam/nec moritura tenet crudeli funere
Dido? " (vv. 305-308), hai sperato, perfido persino di poter
dissimulare un così grande misfatto, e di poter andartene dalla mia terra senza
dir niente? non ti trattiene il nostro amore, né la destra data una volta, né
Didone pronta a morire di morte crudele?-mea… terra: la terra e
la donna sono spesso identificate nella letteratura antica come non poche volte
in quella moderna: Pound, a proposito dell'Ulisse di Joyce, ossia di
Leopold Bloom, nota che :"La sua sposa Gea-Tellus, simbolo della terra, è
il suolo dal quale l'intelletto tenta di saltar via, e nel quale ricade in saecula saeculorum "[3].- data dextera: nella Medea di
Euripide la protagonista:"ajnakalei' de; dexia'"-pivstin megivsthn, (vv. 21-22) reclama il sommo impegno della
mano destra.
Vediamo altri tre versi:" per conubia nostra, per inceptos
hymenaeos,/si bene quid de te merui, fuit aut tibi quicquam/dulce meum,
miserere domus labentis et istam,/oro, si quis adhuc precibus locus, exue
mentem " (vv. 316-319),
per la nostra unione, per le nozze iniziate, se ho ben meritato di te, o se per
te c'è stato qualcosa di dolce in me, abbi pietà di una casa che vacilla e deponi
questo proposito, ti prego, se ancora c'è qualche posto per le preghiere.
Anche questi esametri contengono e suscitano echi. Il primo "è
un'"allusione" a Catullo 64, 141 sed conubia nostra, sed optatos
hymenaeos : ciò spiega le "preziosità" metriche di gusto
neoterico: coincidenza della fine del secondo piede con fine di parola, cesura
trocaica, lunga parola greca alla fine del verso; ma, pur con tutte le
preziosità metriche, il pathos di Virgilio è più grave, più "tragico"[4].
Il primo emistichio del v. 317 al lettore di Dante ricorda
la captatio benevolentiae di Virgilio a Ulisse e Diomede:"s'io
meritai di voi mentre ch'io vissi,/s'io meritai di voi assai o poco"[5].
Infine il dulce meum rammentato da Didone a Enea
(v. 318) ricorda quello che Tecmessa cerca di richiamare alla mente di Aiace
quando, nella tragedia di Sofocle, tenta di dissuaderlo dal
suicidio:" ajndriv toi crew;n-mnhvnhn prosei'nai, terpno;n ei[ tiv pou pavqh/.-
cavri" cavrin gavr ejstin hJ tivktous' ajeiv:-o{tou d j ajporrei' mnh'sti" eu\ peponqovto",-oujk a]n levgoit jj e[q j
ou|to" eujgenh;" ajnhvr" (Aiace , vv. 520-524), per l'uomo certo è doveroso che rimanga un
ricordo congiunto a qualche gioia se in qualche modo l'ha provata: infatti
gratitudine genera gratitudine, sempre. Chiunque perda il ricordo di avere
ricevuto del bene, non può più essere chiamato nobile.
Virgilio non utilizza la sentenza finale per non togliere
nobiltà al suo eroe, ma chi crede nel valore della gratitudine sente che nel
comportamento di Enea nei confronti di Didone c'è qualcosa di vile e volgare.
L'ingratitudine è un vizio capitale secondo diversi
autori e la gratitudine, viceversa, un grande valore.
Esiodo mette la
gratitudine (cavri" , Opere , v. 190) con il pudore (aijdwv", v. 192) tra i valori negati
dall'estrema decadenza dell' età del ferro : allora gli uomini nasceranno con
le tempie bianche (poliokrovtafoi,
v. 181) oltraggeranno i genitori che invecchiano, useranno il diritto del più
forte, la giustizia starà nelle mani (divkh
d j ejn cersiv , v. 192), se ne andranno Aijdwv"
appunto e Nevmesi" , la giusta
distribuzione; quindi "kakou' d j oujk e[ssetai ajlkhv" (Opere , 201) non vi
sarà più scampo dal male.
Anche Cicerone pone la gratitudine in prima fila tra i
doveri:"nullum enim officium
referendā gratiā magis necessarium est " (De Officiis , I, 47), nessun dovere in effetti è più necessario
della gratitudine.
L'ingratitudine è il marchio della persona volgare:
Nietzsche nel 1864 (a vent'anni) scrisse una
Dissertazione su Teognide di Megara
simpatizzando con le teorie del lirico antico. Lo colpì fortemente il
biasimo espresso per l'ingratitudine
dell'animo plebeo:"Teognide ritiene che non c'è niente di più vano e di
più inutile che fare bene ad un plebeo, dal momento che di solito non ringrazia
mai"[6].
Quindi cita alcuni versi della Silloge (105-112) che riporto in traduzione mia :
"E' un favore del tutto vano fare del bene ai vili:/è
come seminare la superficie del mare canuto./Infatti seminando il mare, non
mieti folta messe,/né facendo del bene ai malvagi puoi riceverne bene in
cambio:/ché i malvagi hanno mente insaziabile: se tu sbagli,/l'affetto per
tutti i favori di prima si versa per terra./I buoni invece gustano al massimo
quanto ricevono ("oiJ d j ajgaqoi; to; mevgiston ejpaurivskousi
paqovnte"", v. 111),/e serbano memoria dei beni e gratitudine
in seguito".
Contro l'ingratitudine tuona Re Lear, the lunatic
King di Shakespeare " Ingratitude, thou marble-hearted
fiend/more hideous when thou show'st thee in a child/than sea-monster
"(I, 4)., o ingratitudine, demonio dal cuore di marmo, più orrenda del
mostro marino quando ti manifesti in una figliola!".
Fu l'ingratitudine,
più forte delle braccia dei traditori, più micidiale dei loro pugnali a vincere
la resistenza del grande Cesare:"Ingratitude, more strong than
traitors' arms,/quite vanquished him: then…great Caesar fell" (Giulio
Cesare , III, 2).
Tra i nostri due amanti non può esserci più
nulla di buono poiché compiacenza e condiscendenza devono essere reciproche,
mentre Enea non vuole saperne di Didone, nemmeno quando questa arriva a
dire " Saltem si qua mihi de te suscepta fuisset/ante fugam suboles, si
quis mihi parvulus aula/luderet
Aeneas, qui te tamen ore referret,/non equidem omnino capta et deserta viderer
"(vv. 327-330), se almeno fosse
stato da me concepito un figlio tuo prima della tua fuga e nella mia reggia
giocasse un piccolo Enea che per lo meno ti riproducesse nel viso, certo non mi
sentirei del tutto ingannata e abbandonata.
Sull'aggettivo parvulus sentiamo un'altra riflessione
di La Penna-Grassi:"Lo stile epico rifiuta i diminutivi, propri del sermo familiaris , comuni nelle nugae
catulliane, ma già meno frequenti nell'elegia. Nell'Eneide sono stati contati
sette diminutivi, ma probabilmente questo è l'unico vero diminutivo affettivo:
con molta finezza Virgilio ha sentito che l'umanità dolente della sua eroina
non poteva essere sempre "controllata" colla misura della sublimità
epica. La concessione ha, tuttavia, i suoi limiti: Virgilio ha probabilmente
nella memoria un passo di un epitalamio di Catullo (61, 216 ss.), dove il poeta
augura che presto un Torquatus...parvulus dal grembo della madre tenda le mani al padre
e gli sorrida; ma proprio il confronto con Catullo mostra che la tenerezza
materna di Didone manca di ogni leziosità"[7].-deserta:"è
ancora voce che appartiene al linguaggio erotico-elegiaco: così Catullo c. 64,
v. 57, descriveva Arianna abbandonata da Teseo (desertam in sola
miseram…harena) "abbandonata, misera, su una spiaggia deserta"[8]
.
Auguro un ottimo 2015 ai
203792 frequentatori del mio blog
giovanni ghiselli
[1] E' l'episodio imitato da Dante
nella selva dei suicidi (Inferno, XIII; qui il terrore è limitato a
"ond'io lascia la cima cadere/e stetti come l'uom che teme", vv.
44-45.
[2]64, 133.
[4]A. La Penna-C. Grassi, op. cit.,
p. 425.
[6]p. 167.
[7] Op. cit., p. 428.
[8] G. B. Conte, Scriptorium
Classicum, 3, p. 271.
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