Percorso della conferenza che terrò il
24 agosto a Pesaro nella libreria Il catalogo di via
Castelfidardo
Inizierò dal mio debito personale.
Alla paideia ricevuta dagli autori greci io devo prima di
tutto la costituzione della mia identità forse non del tutto
volgare. Questa si è formata non solo sul vissuto ma anche sulle
letture cui la predisposizione alle lettere piuttosto che ai numeri
ho dedicato parecchio tempo fin dalle scuole medie Lucio Accio di
Pesaro dove la professoressa Giulia Gattoni ci spiegava l’Iliade
e ce ne faceva studiare a memoria centinaia di versi nella traduzione
di Vincenzo Monti.
Mi era congeniale la dimensione eroica
dell’esistenza umana.
In seguito, frequentando liceo classico
Terenzio Mamiani , il mio gusto per il greco e il latino si è
definito e rafforzato anche perché primeggiavo in queste due
discipline.
L’educazione dei padri ai figli
infatti, nell’Iliade, contiene l’imperativo di
“primeggiare sempre tanto nell’azione quanto nella parola”.
La volontà di vita viene motivata e
intensificata non solo dalla bellezza ma anche dall'eroismo che dà
gloria, e, se Achille da morto vorrebbe essere vivo, pure a costo di
essere un servo di campagna (ejpavrouro",
Odissea, XI, 489) al soldo di un indigente, poiché la vita è
il valore più alto, da vivo aveva recepito l'insegnamento che gli
eroi davano ai figli: "aije;n
ajristeuvein kai; uJpeivrocon e[mmenai a[llwn"1,
primeggiare sempre ed essere egregio tra gli altri.
Nell'Iliade i padri, Ippoloco a
Glauco (VI, 208) e Peleo ad Achille (XI, 784) raccomandano proprio
questo :"aije;n ajristeuvein kai;
uJpeivrocon e[mmenai a[llwn", di primeggiare sempre ed
essere più bravo degli altri.
Primeggiare non solo nell’azione ma
anche con la parola. Dunque essere i primi grazie alle proprie
ajretaiv, come virtù nel senso di
capacità.
Peleo manda Fenice a Troia con il
figliolo perché gli insegni:"muvqwn te
rJhth'r j e[menai prhkth'rav te e[rgwn"2,
a essere dicitore di parole ed esecutore di opere. Si vede bene la
priorità della parola. I Greci ci hanno insegnato il culto del
lovgo~, come parola e come pensiero.
Moni Ovadia l’altra sera a Rocca
Costanza ha trascurato questo aspetto. Ha invece insistito sulla
lacrime di Achille biasimate da Platone.
Achille in effetti piange, come piange
Odisseo, come piangerà Alessandro Magno.
L’ultimo canto di Demodoco è quello
del cavallo di Troia, il “supremo titolo eroico”3
di Odisseo il quale tuttavia, nel sentirlo, piange, wJ~
de gunhv (v. 523), come una donna sul cadavere del marito
morto in battaglia mentre i nemici vincitori le pungono la schiena e
le spalle facendole fretta perché devono portarla via quale schiava.
Così Odisseo versava lacrime di pietà
sotto le ciglia: “w}~ jOduseu;~ ejleeino;n
uJp j ojfruvsi davkruon ei\ben”
(Odissea,
VIII, v. 531)
Sentiamo ancora Citati: “Ulisse ha
sempre posseduto uno straordinaio dono di metamorfosi: la sua mente è
sensibilissima e plastica; diventa una pietra, un arco, un’onda, un
caprone, un cane, un morto, una serva. Sa essere l’altro,
come nessuno. Ma mai come qui, in questo paragone ramificato, passa
continuamente dall’altra parte: ora guarda la guerra con gli occhi
dei vinti, e si identifica con la propria vittima, la donna troiana
cui ha ucciso il marito e verrà portata via, schiava, in grecia.
Egli vede la donna e si perde in lei, come se fosse oggi, e il dolore
di lei fosse di oggi. Capisce che il pianto dei vinti è lo stesso
pianto dei vincitori: il ricordo della sua gloria suscita solo
lacrime; le sue sofferenze di dieci anni, la separazione da Itaca,
che per lui sono la sventura suprema, non hanno più rilievo della
sventura degli altri. Tutto è dolore, e il dolore è terribilmente
presente. Senza che egli lo sappia, le sue lacrime sono le stesse
lacrime di Achille e di Priamo, nell’ultimo canto dell’Iliade,
quando comprendono che tutti i padri sono gli stessi e noi siamo i
nostri nemici. Egli non ha mai provato un’identificazione così
profonda con i dolori degli altri: certo non a Troia; e non la
proverà mai più, perché tornato a Itaca, nella sua casa, si
vendicherà spietatamente dei proci, uccidendo persino chi non aveva
colpa o aveva una piccola colpa. Questo momento, in cui si è perduto
nell’anima di una schiava, è un istante isolato nella sua
vita….Forse poteva scoprire questi sentimenti solo a Scheria, dove
la guerra non esiste o diventa racconto. A Scheria domina la poesia,
che nasce dal dolore, risveglia la pietà, la compassione,
l’identificazione, mentre nella vita siamo obbligati ad essere noi
stessi, il nostro nome, la nostra storia, il nostro destino”4.
Anche Telemaco piange.
Telemaco, sentendo parlare
affettuosamente del padre, non poté resistere al desiderio di
piangere e, per non farlo vedre, si alzava il mantello di porpora
davanti agli occhi (Odissea, IV, v. 115). Un gesto simile farà
Odisseo alla corte di Alcinoo sentendo Demodoco cantare la lite che
egli stesso fece con Achille Pelide5.
Leopardi nota la poeticità di questa
situazione e di altre simili " chi non sente come sia poetico
quello scendere di Penelope dalle sue stanze solamente perch'ha udito
il canto di Femio, a pregarlo acciocché lasci quella canzone che
racconta il ritorno de' Greci da Troia, dicendo com'ella
incessantemente l'affanna per la rimembranza e il desiderio del
marito, famoso in Grecia ed in Argo; e le lagrime di Ulisse udendo a
cantare i suoi casi, che volendole occultare, si cuopre la faccia, e
così va piangendo sotto il lembo della veste finattanto ch'il
cantore non fa pausa, e allora asciugandosi gli occhi, sempre che il
canto ricomincia, si ricuopre e ripiange; e cento altre cose di
questa fatta?"6.
“Nessun eroe epico, forse nemmeno
Achille, piange in modo così doloroso come questo grande
bugiardo…Ulisse non è un personaggio continuo: non è sempre
uguale a se stesso; conosce le intermittenze del cuore, e muta di
episodio in episodio, nella stessa giornata, come qui tra i Feaci.
Quando era nella caverna di Polifemo, credeva nella sua gloria di
distruttore di città, e persino davanti alle Sirene la fama gli dava
gioia…Ora, mentre Demodoco narra la guerra di Troia, probabilmente
diversi sentimenti si intrecciano nella sua anima. La gloria, nella
quale aveva creduto con passione, gli sembra un seguito di dolori:
“la cima della sventura”; la sua figura di eroe epico, che
Demodoco rievoca, gli pare lontanissima dalla condizione di
adesso-uno straniero, un mendicante, un uomo senza nome e senza
patria ”7.
Leopardi: "Tutto si è
perfezionato da Omero in poi, ma non la poesia"8.
Il nostro Leopardi ha assunto più
volte atteggiamenti eroici9
però, o forse perciò, nello Zibaldone fa notare che
l'eroismo non coincide con la perfezione né con la grandezza:
:"Omero ha fatto Achille infinitamente men bello di quello che
poteva farlo...e noi proviamo che ci piace più Achille che Enea ec.
onde è falso anche che quello di Virgilio sia maggior poema ec."(2).
Più avanti leggiamo:"L'eroismo e
la perfezione sono cose contraddittorie. Ogni eroe è imperfetto.
Tali erano gli eroi antichi (i moderni non ne hanno); tali ce li
dipingono gli antichi poeti ec. tale era l'idea ch'essi avevano del
carattere eroico; al contrario di Virgilio, del Tasso ec. tanto meno
perfetti, quanto più perfetti sono i loro eroi, ed anche i loro
poemi" (471).
Alcuni anni più tardi Leopardi scrive:
“L’eroismo ci trascina non solo all’ammirazione, all’amore.
Ci accade verso gli eroi, come alle donne verso gli uomini. Ci
sentiamo più deboli di loro, perciò gli amiamo. Quella virilità
maggior della nostra, c’innamora. I soldati di Napoleone erano
innamorati di lui, l’amavano con amor di passione, anche dopo la
sua caduta: e ciò malgrado che avevano dovuto soffrire per lui, e
gli agi di cui taluni godevano dopo il suo fato. Così gli strapazzi
che gli fa l’amato, infiammano l’amante. E similmente tutta la
Francia era innamorata di Napoleone. Così Achille c’innamora per
la virilità superiore, malgrado i suoi difetti e bestialità, anzi
in ragione ancora di queste. (22 Settembre 1828)”10.
Platone,
come Leopardi, non trova perfetto Achille, senza però che i suoi
difetti glielo rendano simpatico, al punto che il filosofo ateniese
ne prescrive la correzione in una generale ejpanovrqwsi"
dei poeti e delle loro
mende educative. Il più bravo discepolo di Socrate vorrebbe
cancellare, tra l'altro, i versi pronunciati dal Pelide quando
nell'Ade rimpiange la vita, la vita comunque. Egli osa dire che, pur
di essere vivo, sarebbe disposto a servire ("qhteuevmen"11)
un altro, anche un uomo povero. Questa brama della vita a tutti i
costi è criticata da Platone che vorrebbe cancellarla12
poiché insegna a preferire il servaggio alla morte.
Vengono
altrettanto biasimati e considerati indegni di lettura i pianti e i
lamenti del figlio di Tetide, dovunque si trovino rappresentati13.
Ancora sul culto del lovgo~.
Tucidide nel presentare Pericle, che
sta per pronunciare il primo dei suoi discorsi, lo definisce uomo che
in quel tempo era il primo degli Ateniesi, il più capace di parlare
e di agire (prw'to" w[n…Aqhnaivwn,
levgein te kai; pravssein dunatwvtato" , I, 139).
Per primeggiare dunque sono necessarie
la potenza (duvnami" ) della
parola (lovgo" ) innanzitutto, poi
quella dell'azione ( pra'gma).
Infatti più avanti leggiamo: “touv~
te lovgou~ o{sti~ diamavcetai mh; didaskavlou~ tw`n pragmavtwn
givgnesqai…ajxunetov~ ejstin”
(III 42, 2), chiunque contesti che i discorsi siano maestri delle
azioni è stupido.
Già nell'eroe dell'epica la capacità
della mente, che si esprime attraverso la parola, deve precedere
quella dell'azione .
Insomma:"In principio erat
Verbum"14.
Ma il verbum deve diventare factum. “Im
Anfang war das Wort…Im Anfang war die Tat”15.
Ora purtroppo impera la chiacchiera
discrepante dai fatti.
L’eroe in cambio del rischio che
corre vuole onore in vita e gloria immortale.
Vediamone una ricaduta latina dove
però è l'azione che precede la parola: Quinto Metello nella
laudatio funebris
tenuta nel 221 a. C. in memoria del padre Lucio mette in evidenza le
dieci qualità più grandi e più belle del morto; ebbene le prime
due ricordate sono che Lucio Metello fu primarium
bellatorem e optimum
oratorem, combattente di prim'ordine e ottimo
oratore. Il testo scritto ci è stato tramandato da Plinio il
Vecchio16
nella Naturalis historia
( VII, 139).
Se una
vita felice è impossibile non lo è quella eroica : “Una vita
felice è impossibile: il massimo che l’uomo può raggiungere è
una vita eroica.
Conduce questa vita colui che, in una maniera o per un motivo
qualsiasi, combatte per ciò che in qualche modo giova a tutti,
contro le più grandi difficoltà e alla fine vince, ma nel fare ciò
è male, o niente affatto, ricompensato”17.
La Vita
eroica tende alla gloria.
Nel Simposio, Platone fa dire
a Diotìma che Alcesti, Achille e Codro hanno dato la vita , non
tanto per gli amati e la patria, quanto convinti che immortale
sarebbe stata la fama della loro virtù ("ajqavnaton
mnhvmhn ajreth'" pevri eJautw'n e[sesqai", 208d).
Tutti fanno ogni cosa per la virtù immortale e tale rinomanza
gloriosa ("uJpe;r ajreth'"
ajqanavtou kai; toiauvth" dovxh" eujkleou'"").
In effetti il coro dell'Alcesti
di Euripide elogia l'eroina morente con queste parole:" i[stw
nun eujklehv" ge katqanoumevnh-gunhv t j ajrivsth tw'n uJf j
hjlivw/ makrw'/"( Alcesti, vv. 150-151), sappia
dunque che morrà gloriosa/di gran lunga la migliore delle donne
sotto il sole.
Una gloria che la stessa moribonda
rivendica, biasimando i genitori di Admeto ("oJ
fuvsa" chJ tekou'sa",v. 290), poiché hanno
lasciato perdere l'occasione di salvare nobilmente il figlio e morire
con gloria ("kalw'" de; sw'sai
pai'da keujklew'" qanei'n", v. 292).
“Alcesti è ‘fida’ come lo sono
in battaglia i compagni pronti a morire per il capo. La scala dei
valori è quella eroica della tradizione aristocratica”18
Il modello dell'uomo eroico avido di
primato e di gloria pervade tutta la cultura greca e il prototipo è
Achille.
Alessandro Magno lo ha imitato e
venerato.
Secondo Jaeger questa aspirazione alla
gloria e alla perfezione della virtù viene intesa da Aristotele
"quale emanazione d'un amor di sé elettissimo, la filautiva".
L'espressione si trova nell'Etica Nicomachea che
séguita con questo brano: "Invero vivere breve tempo in somma
gioia sarà preferito, da chi sia animato da tale amor di sé, ad una
lunga esistenza in pigra quiete. Egli vivrà piuttosto un anno solo
per uno scopo elevato, che non condurre una lunga vita per nulla.
Compirà piuttosto un'unica magnifica e grande azione, che non molte
insignificanti"19.
L'autore di Paideia conclude così: "In queste parole è
espressa la fondamentale concezione della vita dei Greci, nella quale
ci sentiamo loro affini d'indole e di razza: l'eroismo"20.
Sentiamo, a questo proposito, anche l’
Olimpica I di Pindaro.
Fu scritta nel 476 per la vittoria di
Ierone signore di Siracusa con il cavallo Ferenico, mentre Terone
tiranno di Agrigento vinse la gara più prestigiosa delle quadrighe e
venne celebrato con la II e la III Olimpica .
Indegna di essere vissuta è invece
l'esistenza ingloriosa e insignificante dei deboli e vili ignari di
aretà (virtù in senso pindarico): "
Il grande pericolo
non prende un uomo imbelle.
Per quelli per i quali morire è
necessario, perché si dovrebbe
smaltire invano una vecchiaia anonima
seduti nell'ombra
senza parte di tutte le cose belle? ma
questa
gara giacerà sotto di me: tu dammi
propizio l'evento" (vv. 81-85).
E’ la preghiera di Pelope a Poseidone
prima della gara con Enomao.
Nel numero ristretto degli eroi
rientrano i vincitori delle gare panelleniche e il poeta che li
celebra.
L'eroe è prodotto del sangue divino
che genera ogni grandezza: negli epinici il vincitore appare come
ultimo anello di una catena di dèi e semidèi.
Così, nell'Olimpica II, Terone
di Agrigento vincitore nella corsa dei carri nei giochi del 476, è
posto accanto a Zeus signore di Olimpia, e ad Eracle che fondò le
Olimpiadi. Nella stessa ode troviamo un nodo ideologico del poeta:
che l'aretà (il valore, la virtù) non è insegnabile, né
quella dell'atleta né quella del poeta il quale paragona se stesso
all'aquila, il divino uccello di Zeus (v. 89), mentre i suoi rivali,
probabilmente Simonide e Bacchilide, che non sono molto sapienti per
natura ( 86) bensì "addottrinati"(87) vengono assimilati
ai corvi (88) i quali stridono confusamente con mille lingue
prolisse.
Insomma, il sapere non è sapienza,
come scriverà Euripide nelle Baccanti.
Finito il liceo classico di Pesaro,
sono andato a studiare Lettere antiche all’Università di Bologna,
poi ho insegnato greco e latino nei licei e didattica della
letteratura greca nell’Università, approfondendo sempre la
conoscenza e l’amore degli scrittori classici.
Anche i Latini dunque hanno
contribuito a formarmi, ma l’edificio della mia persona l’ho
fondato attraverso la letteratura e la storia greca.
Vediamo allora che cosa mi hanno dato
alcuni autori capitali in termini di pensiero, di sentimenti e di
capacità nell’esprimere gli uni e gli altri
. Dico di facoltà mentali, emotive e
comunicative che ho cercato di trasmettere ad altri nella convinzione
che esse siano in grado di rendere migliore chi le possiede.
Bello e buono si dice kalokajgaqov~,
l’uomo a due dimensioni: quella etica e quella estetica21.
Senza che queste escludano la categoria dell’utile, del
sumfevron che non è necessariamente brutto e cattivo: a me lo
studio e l’assimilazione dei classici ha dato anche uno stipendio
dignitoso e, soprattutto, ha rafforzato le mie capacità espressive,
persuasive che mi sono servite pure nella prassi della vita
quotidiana. Anche la vita amorosa ne ha risentito felicemente, non mi
vergogno di affermarlo, anzi ne sono fiero, contento e grato a quante
hanno provato interesse e amore per le mie parole impregnate di
grecità.
Vediamo come hanno funzionato con me
alcuni autori capitali.
Ricomincio da Omero.
Fin da quando ero scolaro in seconda
media e studiavo l’Iliade, ho provato simpatia per gli
aggrediti e non per gli aggressori. Ho imparato presto a stare dalla
parte di chi subisce ingiustizia.
Piansi per la morte di Ettore e
scoprii in via definitiva questo lato del mio carattere rimasto
solidale con i vinti22.
Allora scoprii anche, e mi rese
pensoso, la condizione effimera degli uomini assimilati alle foglie23,
e notai pure la contraddizione del giovane Achille che da un lato
ambisce alla gloria e non teme la morte24,
dall’altra rifiuta l'offerta di doni, pur cospicui, portata
dall’ambasceria inviata da Agamennone per convincerlo a
combattere: “ niente- risponde il Pelide- vale quanto la vita che,
una volta uscita dalla chiostra dei denti, non può essere chiamata
indietro a prezzo di tutti i tesori del mondo” (Iliade, IX,
401-409).
Intuìi che la logica dei Greci è
aperta al contrasto, come mi chiariranno più avanti i dissoi;
lovgoi presenti in Tucidide. Insegnamento utile contro
l’intolleranza e i dogmatismi di tutti i presunti ortodossi,
imparai presto a essere “eretico”
Così fin da bambino imparavo a
pensare, a parlare, e a commuovermi davanti alla dichiarazione
d’amore di Andromaca25
per il marito, e facevo mia anche la risposta di Ettore che, pur
amando la sposa, non può rinunciare a rischiare la vita combattendo,
poiché non vuole 26
perdere la propria identità di primo difensore di Troia e unica
possibilià di salvezza della città assediata.
Più tardi le tragedie di Sofocle, e
in particolare l’Antigone, mi hanno confermato che
l’identità non gregaria ma propria è il principale bersaglio lo
skopov~ cui mirare nella vita
Fondativa per la mia identità è stata
la ricerca della chiarezza, della bellezza, della forza nel parlare e
nel fare. Cercando quali potevano essere le mie ajretaiv,
le capacità che mi facessero diventare
ajreivwn (migliore) e magari a[risto~
(ottimo). Ero bravo a scuola, molto bravo nelle materie letterarie e
bravo in bicicletta, ottimo in salita. Capacità che ho coltivato per
tutta la vita, trascurando quello che non mi riusciva bene. Come ad
Antigone sapevo di piacere a quelli che mi erano congeniali.
Dai Greci ho imparato presto il valore
del logos, della parola piena di pensiero e di bellezza. Ho
provato fin da bambino disagio nei confronti di chi non parla con
chiarezza, e viceversa ho sentito ammirazione per chi sa esprimersi
con lucidità, forza persuasiva, eleganza.
Ho intuito fin dalla prima lettura
dell’Iliade in italiano quello che più avanti mi avrebbe
spiegato Isocrate il quale arriva alla celebrazione quasi religiosa
della parola fondatrice di umanità e civiltà: " ejggenomevnou
d j hJmi'n tou' peivqein ajllhvlou~
kai; dhlou'n pro;~ hJma'~ aujtou;~ peri; w|n a]n boulhqw'men, ouj
movnon tou' qhriwdw'~ zh'n ajphllavghmen, ajlla; kai; sunelqovnte~
povlei~ w/jkivsamen kai; novmou~ ejqevmeqa kai; tevcna~ eu{romen,
kai; scedo;n a{panta ta; di j hJmw'n memhcanhmevna lovgo"
hJmi'n ejstin oJ sugkataskeuavsa" "( Nicocle27,
6), ma siccome è connaturata in noi la capacità di persuaderci a
vicenda e di rendere chiaro a noi stessi quello che vogliamo, non
solo ci siamo allontanati dalla vita selvaggia, ma ci siamo riuniti,
abbiamo fondato città, dato leggi e inventato arti, e quasi tutto
quanto è stato costruito da noi è stata la parola a organizzarlo.
La parola dunque è creatrice e
civilizzatrice.
Il prologo del Vangelo di Giovanni del
resto estende questa considerazione a termini cosmici " jEn
ajrch'/ h\n oJ lovgo", kai; oJ lovgo~ h\n pro;" to;n
qeovn, kai; qeo;" h\n oJ lovgo". ou|to" h\n ejn
ajrch'/ pro;" to;n qeovn. pavnta di' aujtou'
ejgevneto, kai; cwri;" aujtou' ejgevneto oujdevn. In
principio erat Verbum, et Verbum erat apud Deum et Deus erat Verbum.
Hoc erat in principio apud Deum. Omnia per ipsum facta
sunt, et sine ipso factum est nihil (1, 1-3), in principio c'era
la Parola e la Parola era con Dio e la Parola era Dio. Questa era in
principio con Dio. Tutto fu fatto tramite lei e senza lei nulla fu
fatto.
Quindi il verbo si fece carne:"kai;
oJ lovgo" savrx ejgevneto" (14). Io collego questa
affermazione, del tutto arbitrariamente, alla facundia
persuasiva che attira gli ascoltatori, massime le donne, poiché è
in corpo di donna che il verbo si fa carne.
Rprendiamo in mano Isocrate per
sottolineare il valore anche etico del lovgo"
inteso come parola e come pensiero: "to;
ga;r levgein wJ" dei' tou' fronei'n eu\ mevgiston shmei'on
poiouvmeqa, kai; lovgo" ajlhqh;" kai; novmimo" kai;
divkaio" yuch'" ajgaqh'" kai; pisth'" ei[dwlovn
ejstin" ( Nicocle, 7) il parlare come si deve lo
consideriamo segno massimo del saper pensare, e un discorso
veritiero, legittimo e giusto è l'immagine di un'anima buona e
leale.
Queste parole celebrative del logos,
tornano, come espressioni liturgiche, nell’Antidosis (255).
Entrambe le orazioni giungono a una conclusione che indica nella
potenza della parola l’unico mezzo per trasformare il pensiero in
prassi: “eij de; dei' sullhvbdhn peri; th'~
dunavmew~ tauvth~ eijpei'n, oujde;n tw'n fronivmw~ prattomevnwn
eurhvsomen ajlovgw~ gignovmenon, alla; kai; tw'n e[rgwn kai; tw'n
dianohmavtwn aJpavntwn hJgemovna lovgon o[nta, kai; mavlista
crwmevnou~ aujtw'/ tou;~ plei'ston nou'n e[conta~”, se si
deve tirare le somme su questa potenza, troveremo che nulla di quanto
è fatto con intelligenza viene fatto senza la parola, ma che anzi la
parola è guida delle azioni e dei pensieri tutti, e che si avvalgono
soprattutto di essa quelli che hanno la più grande capacità di
pensiero28.
"Sicché il Logos, nel suo
doppio significato di parola e di pensiero, diventa per Isocrate il
"symbolon", il contrassegno della paideusis"29.
Non solo dell’educazione ma anche
della duvnami~ dell’uomo.
Il ragazzo che ha studiato bene, con
buoni insegnanti, possiede, prima di tutto, una facoltà di eloquio
superiore a chi non ha fatto studi altrettanto buoni e ben guidati.
Nell’Ifigenia in Tauride del
1786, Goethe fa dire al personaggio Arcade che gli Sciti non
attribuiscono alcun pregio alle parole: Der Skyte setz ins Reden
keinen Vorzug (164) E il re meno di tutti am wenigsten der
König 165. Dunque Ifigenia deve andargli incontro con la sua
civiltà maggiore e superiore, quella greca.
Il culto del lovgo~
è greco, la trascuratezza della parola è barbarie.
Platone afferma che parlare male, fa
male all'anima. Lo fa dire a Socrate nel Fedone :" euj
ga;r i[sqi(…) a[riste Krivtwn, to;
mh; kalw'" levgein ouj movnon eij" aujto; tou'to
plhmmelev"30,
ajlla; kai; kakovn ti ejmpoiei' tai'" yucai'""
(115 e), sappi bene…ottimo Critone che il non parlare bene non è
solo una stonatura in sé, ma mette anche del male nelle anime.
Al’esame di maturità portai le
Troiane di Euripide. Eravamo nel 1963.
Da questa tragedia imparai a detestare
la guerra che dovrebbe divenire uno dei tabù dell’umanità, almeno
quanto l’incesto siccome certamente più distruttiva.
Nel Prologo, Poseidone dice questa
parole sante:
“E’ stolto tra i mortali chi
devasta le città,
consegnando al deserto templi e tombe,
luoghi sacri
dei morti: egli stesso dopo è già
morto ” (Troiane, vv. 94-96).
Imparai pure che non necessariamente
quelli che definiamo popoli barbari sono meno civili di noi. Euripide
che aveva provato orrore davanti al massacro perpretato dai suoi
concittadini nei confronti degli abitanti della piccola isola di Melo
pochi mesi prima della rappresentazione delle Troiane (415), fa
parlare la madre cui i vincitori hanno ucciso il figlio
Cruciali sono i versi con i quali
Andromaca accusa i Greci di essere loro i veri barbari: “w\
bavrbar j ejxeurovnte~ [Ellhne~ kakav-tiv tonde pai`da kteivnet j
oujde;n ai[tion; (vv.764-765), o Greci inventori della
barbarie, perché uccidete questo bambino che non è colpevole di
niente ?
Per il primo esame universitario di
Greco dovetti preparare tutta l’Odissea e per il secondo
sette tragedie di Euripide.
Dal secondo poema omerico appresi non
solo tante parole dei dialetti ellenici, diversi poiché il greco,
come l’italiano, prima di diventare una lingua comune, una koinh;
diavlekto~, era un aggregato di lingue, ma soprattutto imparai
la resistenza al male, la pazienza, la riflessione intelligente, la
versatilità o capacità di adattamento: Odisseo infatti è
poluvtropo~ (v. 1) epiteto composto da
poluv"+trevpw,
quindi letteralmente significa "che si volge in molti modi".
E’ riferito, in iperbato31,
ad a[ndra, l’uomo.
L’aggettivo ritrae un aspetto
importante del carattere di Odisseo che Omero ci presenta subito con
capacità raffigurativa. Egli, come dice bene Leopardi, pure a
proposito di Dante e Virgilio, "dipinge senza descrivere"32.
Del resto nell'Odissea le
qualità mentali e gli aspetti del carattere, non solo del
protagonista, assumono grande rilievo:"l'elemento intellettuale
è messo in vivissimo risalto, Telemaco è detto spesso giudizioso o
sagace; di Menelao la consorte vanta non fargli difetto alcun pregio,
né della mente, né della persona. Di Nausicaa è detto ch'essa non
manca di cogliere l'idea giusta. Penelope è chiamata saggia e
sagace"33.
L'Odissea allora può essere anche studiata come un'indagine
sull'anima dell'uomo che agisce sulla terra e può costituire un
terreno di ricerca anche per chi, desideroso di indagare se stesso,
può riconoscere e valorizzare nel proprio carattere quanto Omero
trova e approva nell'anima del suo eroe.
Atena travestita da Mente preconizza a
Telemaco il ritorno di Ulisse: afferma di saperlo senza essere un
profeta ("mavnti"") né
un esperto di uccelli (" ou[t j oijwnw'n
savfa eijdwv"", v. 203) ma congetturandolo con
l'intelligenza, ispirata del resto dai numi: Odisseo saprà tornare "
ejpei; polumhvcanov" ejstin"
(v. 205), poiché ha molte risorse.
E' notevole che alla dea, Omero
attribuisca un'intelligenza indipendente dagli oracoli e da altri
segni, come farà Edipo re con se stesso, ma colpevolmente
secondo Sofocle, in quanto per un poeta religioso un uomo non può
permettersi di attribuirsi indipendenza dai segni della divinità:"
oJ mhde;n eijdw;" Oijdivpou",
e[pausav nin,-gnwvmh/ kurhvsa" oujd j ajp j oijwnw'n maqwvn"
(vv. 397-398), Io Edipo che non sapevo nulla, la feci
cessare/azzeccandoci con l'intelligenza e senza avere imparato dagli
uccelli.
Odisseo è anche poluvmhti~,
l’uomo molto accorto, ricco di mh`ti~,
intelligenza e capacità.
Già nel canto dell'Iliade
Odisseo è l'uomo che, molto dotato di
intelligenza (poluvmhti" , vv. 311
e 440), riceve l'incarico di ricondurre Criseide al padre per
ristabilire la pace tra il sacerdote di Apollo e Agamennone.
Nel secondo canto del poema più antico
l’Itacese, simile, a Zeus per intelligenza ("Dii;
mh'tin ajtavlanton", v. 169) riceve da Atena il compito
di trattenere la fuga dell'esercito acheo da Troia con blande parole
("ajganoi'" ejpevessin",
v. 180). La dea per rivolgersi all'eroe utilizza l’ epiteto
formulare ("polumhvcan j",
v. 173, ricco di risorse) che lo caratterizza come uomo intelligente
e capace. Capace di che cosa? Intanto notiamo questa capacità di
ristabilire una situazione compromessa; infatti Odisseo riesce a
fermare l'esercito in fuga alternando le blande parole con le
ingiurie e facendo cadere lo scettro-bastone sul petto e le spalle
dell' ai[scisto" ajnhvr, il
deforme Tersite.
“Egli lo spoglierà completamente e
lo scaccerà a forza di bastonate dal posto in cui è riunito
l’esercito (ajgorh'qen). Non viene
subito in mente il pharmakos o capro espiatorio, l’uomo più
brutto della comunità, che veniva trasformato in vittima espiatoria
e scacciato dalla città?.
Odisseo dunque è un uomo stabilizzante
e ristabilizzante. Quindi egli parla all'esercito, non senza essere
stato adornato con altri epiteti (di'o"34,
Iliade , II, v. 244; poi ptolivporqo"35,
Iliade II, 278; infine con una qualificazione più
specificamente odissiaca, eüfronevwn,
v. 283, assennato). Vero è che agli epiteti esornativi non bisogna
dare troppa importanza poichè spesso sono stereotipati, e la loro
presenza è imposta dalla necessità metrica che "nella poesia
omerica è fattore determinante anche per la scelta delle espressioni
e degli epiteti"36.
Invece sono caratterizzanti le parole
che Odisseo rivolge all'assemblea dopo averla ricompattata. Egli
accusa i soldati di essere come bambini piccoli o come donne vedove
(" w{" te ga;r h] pai'de"
nearoi; ch'raiv te gunai'ke"", Iliade , II,
v. 289) mettendo in luce una distinzione tra l' uomo compiuto (l'
a[ndra del primo verso dell'Odissea
, egli stesso, capace di riflettere, parlare e agire) e l'uomo
bambino o l'uomo femmina querula, creature dalla ragione meno
sviluppata. La maturità riflessiva e intelligente, indipendente
dall'istinto del gregge è un aspetto distintivo dell'uomo Ulisse. E'
proprio questa sua indipendenza a renderlo ajnhvr,
latinamente vir , capace appunto di virtù la quale, afferma
Nietzsche, "è il vero e proprio vetitum entro ogni
legislatura di gregge"37.
Di tale virtù-capacità fa parte
quella di opporre resistenza alle contrarietà di cui è piena la
vita, di sopportale. Un' esortazione che Ulisse rivolge più volte a
se stesso e ai suoi compagni di avventura a cominciare da questo
discorso dell'Iliade dove esorta i soldati dicendo:"tlh'te,
fivloi, kai; meivnat j ejpi; crovnon"(II, v. 299)
sopportate e aspettate del tempo.
Infatti Odisseo è anche poluvtla".
Odissea, VI, vv. 221-224.
" E se di nuovo qualcuno dei numi
mi fa naufragare nel mare colore del vino/ sopporterò siccome ho nel
petto un cuore paziente:/infatti già molti mali davvero ho patito e
molti ho sofferto/tra le onde e la guerra: tra loro ci sia anche
questo".
In un altro canto, Ulisse parla
con il cuore che latra di sdegno di fronte al gozzovigliare dei
proci, esortandolo a sopportare:"tevtlaqi
dhv, kradivh: kai; kuvnteron a[llo pot j e[tlh""
(Odissea, XX, 18),
sopporta, cuore, anche sofferenze più da cane hai già sopportato.
Nel Satyricon
di Petronio c’è una ripresa parodica di questo luogo.
Encolpio inveisce contro la mentula
che ha disertato:"erectus igitur in cubitum hac fere oratione
contumacem vexavi:"quid dicis-inquam-omnium hominum deorumque
pudor? nam nec nominare quidem te inter res serias fas est."
(132, 9-10), drizzatomi dunque sul gomito strapazzai il renitente con
queste parole più o meno:" che cosa dici-faccio- vergogna degli
uomini tutti e degli dèi? Infatti sarebbe un sacrilegio perfino
nominarti tra le cose serie.
L’io narrante si rammarica di
avere questionato con quella parte del corpo che non si dovrebbe
nemmeno menzionare. Però poi ci ripensa: allora gli vengono in mente
anche l'Odissea e
l'Edipo re:"
quid? non et Ulixes cum corde litigat suo, et
quidam tragici oculos suos tamquam audientes castigant?"
(132, 13) e che? non litiga anche Ulisse con il suo cuore e certi
personaggi tragici non se la prendono con gli occhi come se
ascoltassero? Edipo come è noto si accieca (Edipo
re, v. 1270); secondo Freud anzi si evira
simbolicamente.
“Ulisse è l'eroe polùmetis
(scaltro) come è polùtropos (versatile) e poluméchanos
nel senso che non manca mai di espedienti, di pòroi , per
trarsi d'impaccio in ogni genere di difficoltà, aporìa ...La
varietà, il cambiamento della metis, sottolineano la sua
parentela con il mondo multiplo, diviso, ondeggiante dove essa è
immersa per esercitare la sua azione. E' questa complicità con il
reale che assicura la sua efficacia"38.
La realtà dei fatti può essere approvata e assecondata oppure
confutata e combattuta, ma in ogni caso va prima capita.
L’importanza dell’occasione.
Dobbiamo coglierla.
“Infine giunge il momento di agire:
allora Ulisse possiede in modo supremo quello che i Greci chiamano
l’intuizione del kairov~. Come dice
Pindaro, egli sa che l’occasione ha breve durata: ora c’è, tra
dieci minuti non si ripete. Bisogna agire al momento giusto e nella
situazione giusta, prima che l’occasione s’involi: spiare
l’istante, con esattezza, senza dimenticare e senza abbandonarsi
all’eccesso39.
Perché, senza misura, il kairov~ si
perde”40.
Platone nelle Leggi stabilisce
questa graduatoria per quanto riguarda il governo delle cose umane:
“qeo;~ me;n pavnta, kai; meta; qeou` tuvch
kai; kairov~, tajnqrwvpina diakubernw`si suvmpanta” (709b),
dio pensa a tutto, e con dio la sorte, e l’occasione, governano
tutte insieme le cose umane.
Né bisogna dimenticare che
l'occasione "è calva di dietro"41.
“Per cogliere il kairov~ fugace, la
mh`ti~ deve essere più rapida di
esso”42.
L’intelligenza di Odisseo è
proverbiale: nell’ Ifigenia in Tauride di Goethe, Pilade
invita Oreste a riflettere, e l’amico gli fa: sento parlare Ulisse:
“ich hör ’ Ulyssen reden (v. 762).
Il greco a me ha salvato la vita varie
volte. Non è una battuta. E’ una verità che autorizzo con una
parte della mia metodologia:
XLV
Il greco salva la vita: Plutarco (Vita
di Nicia: Euripide che emancipa dalla schiavitù) e Canetti (La
lingua salvata).
Per invogliare i giovani allo studio
delle lingue cosiddette morte si può raccontare un episodio dal
quale risulta che la conoscenza della lingua e della letteratura
greca salvano la vita. Nella Vita di Nicia, Plutarco narra
che alcuni Ateniesi finiti nelle Latomie di Siracusa "kai;
di j Eujripivdhn ejswvqhsan" (29, 2), si salvarono anche
grazie ad Euripide. Infatti i Greci di Sicilia amavano il
tragediografo e desideravano citarlo. Alcuni dei superstiti da quella
catastrofe dunque, tornati a casa, andarono ad abbracciare
affettuosamente Euripide e raccontarono che erano stati affrancati
dalla loro schiavitù "ejkdidavxante"
o{sa tw'n ejkeivnou poihmavtwn ejmevmnhnto" (29,4) poiché
avevano insegnato quanto ricordavano dei suoi drammi.
In effetti lo studio di Euripide e di
autori significativi può avviare tante persone sulla strada
dell'emancipazione.
Elias Canetti racconta che il nonno di
sua madre una volta, "mentre era a dormire in coperta", in
un battello sul Danubio "aveva udito due uomini che, parlottando
tra loro in greco, stavano progettando un omicidio". Ebbene,
grazie alla conoscenza di questa nostra amatissima lingua, l'uomo
poté denunciare la trama assassina "e quando i due delinquenti
arrivarono per compiere la loro impresa, subito furono agguantati".
Sicché l'autore comprese subito quanto fosse importante
padroneggiare le lingue:"con la conoscenza delle lingue si
poteva salvare la propria esistenza e anche quella altrui"43.
Non il greco e il latino dunque sono
lingue morte , bensì la ciancia dei più che imitano il linguaggio
ingannevole della pubblicità.
Il greco-e il latino- hanno e
forniscono anche un potenziale erotico
Ovidio consiglia di imparare bene il
latino e il greco, per potenziare lo spirito e controbilanciare
l'inevitabile decadimento fisico della vecchiaia:"Iam molire
animum qui duret, et adstrue formae:/solus ad extremos permanet ille
rogos./Nec levis ingenuas pectus coluisse per artes/cura sit et
linguas edidicisse duas" (Ars amatoria , II, vv.
119-122), oramai prepara il tuo spirito a durare, e aggiungilo
all'aspetto: solo quello rimane sino al rogo finale. E non sia
leggero l'impegno di coltivare la mente attraverso le arti liberali,
e di imparare bene le due lingue. Il latino e il greco ovviamente.
Senza con questo disprezzare altre lingue.
La nostra stessa costituzione è
debitrice dei Greci, dell’Atene di Pericle in particolare
Il secondo libro delle Storie di
Tucidide racconta i primi tre anni di guerra, dal 431 al 429.
Dopo avere riferito come iniziarono le
ostilità e avere narrato le operazioni del primo anno, l’autore
ricostruisce il famoso lovgo~ ejpitavfio~,
il secondo discorso di Pericle (II, 35-46), quello sui caduti in
battaglia.
L’Atene ideale del Pericle di
Tucidide.
Questa orazione funebre raffigura Atene
così come sarebbe stata vista per secoli dagli amanti della
classicità.
Dante nel Purgatorio per esempio
la chiama la “villa... onde ogni scienza disfavilla” (XV, 97 e
99). In questo quadro di Tucidide “lo Stato è una sorta d’armonia
eraclitea d’opposizioni fondamentali e necessarie, e si regge sulla
loro tensione e sul loro equilibrio. Le opposizioni elasticamente
oscillanti tra produzione diretta e compartecipazione ai prodotti del
mondo intero, tra lavoro e ricreazione, affari e festa, spirito ed
ethos, riflessione e attività, appaiono in un concerto idealmente
equilibrato nel quadro periclèo dello Stato” 45
Riporto subito la frase dell’epitafio
poiché mi sembra emblematica non solo dell’Atene di Pericle ma di
tutta la cultura greca, anzi di tutta la migliore cultura europea:
“filokalou`mevn te ga;r met jeujteleiva~
kai; filosofou`men a[neu malakiva~” (II, 40, 1), amiamo il
bello con semplicità e amiamo la cultura senza mollezza
Logos epitafios
Vediamo il paragrafo , II, 37, 1
delle Storie di Tucidide.
Noi, dice Pericle abbiamo una
costituzione esemplare (paravdeigma) e
degna di essere imitata. Si chiama democrazia è c’è una
condizione di uguaglianza (to; i[son)
per tutti. Si viene eletti alle cariche pubbliche secondo la stima
del valore (kata; de; th;n ajxiwvsin)
né uno viene preferito alle cariche per il partito di provenienza
(oujk ajpo; mevrouς) più che per il
valore (to; plevon ejς
ta; koina; h] ajp j ajreth`ς), né del resto secondo il
criterio della povertà (oujd j au\ kata;
penivan) se uno può fare qualche cosa di buono per la città,
ne è stato impedito per l’oscurità della sua posizione sociale
(ajxiwvmatoς
ajfaneiva/ kekwvlutai).
Sentiamo allora la nostra Costituzione.
Articolo 1: L’Italia è una
repubblica democratica fondata sul lavoro. La sovranità appartiene
al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della
Costituzione”.
L’articolo 3 è forse il più
“periclèo”: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e
sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza,
di religione, di condizioni personali e sociali
Comma B. E’ compito della repubblica
rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando
di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il
pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di
tutti i lavoratori alla organizzazione politica, economica e sociale
del paese.
Nel Menesseno di Platone,
Aspasia dice le stesse cose.
Sarebbe stata lei infatti a comporre il
lovgo~ ejpitavfio~ di Pericle.
Sentiamola: “La nostra democrazia di
fatto è un’aristocrazia con il consenso della massa. Noi abbiamo
sempre avuto dei re. (Il secondo arconte che presiedeva al culto,
aveva il titolo di re). Cfr. la mikth;
politeiva di Polibio.
Il popolo assegna cariche e potere a
chi gli sembra essere il migliore: nessuno è stato escluso
(ajphlevlatai oujdeivς) per debolezza,
povertà (peniva/), oscurità dei
padri, né per motivi opposti (oujde; toi`ς
ejnantivoiς) è stato onorato. C’è un solo limite (ei|ς
o{roς): ha il potere e le cariche (kratei`
kai; a[rcei) chi ha la reputazione di uomo saggio o buono (oJ
dovxaς sofo;ς
h} ajgaqo;ς ei\nai (238d)
Isocrate nell’Areopagitico, il
principale scritto di politica interna, del 356, scrive che la
Costituzione non è altro che l’anima dello Stato (e[sti
ga;r yuch; povlewς oujde; e{teron h}
politeiva (14).
Il liberal conservatore Tocqueville
voleva ridurre al minimo le scuole classiche in quanto c’è il
rischio che producano giacobini e rivoluzionari (La democrazia in
America, 1840). Mentre il comunista Gramsci sosteneva che il
latino e il greco sono il più efficace strumento di disciplina
intellettuale.
Ma
torniamo al lovgoς
ejpitavfioς.
ejleuqevrwς…politeuvomen,
liberamente viviamo da cittadini (II, 37, 2)
Parte
importante di questa libertà nella cultura logocentrica, e parlata,
dei Greci è la parrhsiva, come si
legge nello Ione e nelle Fenicie di Euripide
(Polinice).
La
parresìa.
Parrhsiva
potrebbe essere scelta come parola chiave e considerata a partire
dallo Ione46
di Euripide dove il protagonista esprime il desiderio di ereditare da
una madre ateniese questo privilegio, recandosi ad Atene, poiché lo
straniero che piomba in quella città, anche se a parole diventa
cittadino, ha schiava la bocca senza la libertà di parola ("tov
ge stovma-dou'lon pevpatai47
koujk e[cei parrhsivan", vv. 674-675).
Analogo concetto si trova nelle
Fenicie48
quando Polinice risponde alla madre sulla cosa più odiosa per
l'esule:" e{n me;n mevgiston, oujk e[cei
parrhsivan" (v. 391), una soprattutto, che non ha libertà
di parola.
Infatti, conferma Giocasta, è cosa da
schiavo non dire quello che si pensa.
"La parresìa è l'elemento
che il Greco avverte come ciò che massimamente lo distingue dal
barbaro. L'esule soffre della perdita della parresìa come
della mancanza del bene più grande (Euripide, Fenicie, 391).
Inutile ricordare che il valore della
parresìa svolgerà un ruolo decisivo nell'Annuncio
neo-testamentario. E dunque entrambe le componenti della cultura
europea vi trovano fondamento"49.
Su questa parola chiave gioca Victor
Hugo quando riporta queste parole “ingenuamente sublimi” scritte
da padre Du Breul nel sedicesimo secolo: “Sono parigino di nascita
e parrisiano di lingua, giacché parrhysia in greco significa
libertà di parola della quale feci uso anche verso i monsignori
cardinali”50.
Anche
la nostra Costituzione conferisce somma importanza alla libertà di
parola: "Articolo 19: "Tutti hanno diritto di professare
liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale
o associata, di farne propaganda e di esercitare in privato o in
pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon
costume.
Articolo
21: "Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio
pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione".
Pericle
poi ricorda ouj paranomou`men (II, 37,
3), non trasgrediamo le leggi soprattutto obbediamo a quelle poste a
tutela di chi subisce ingiustizia (o{soi te
ejp j wjfeliva/ tw`n ajdikoumevnwn), e anche se non sono
scritte (o{soi a[grafoi o[nteς)
portano un disonore riconosciuto da tutti (aijscuvnhn
oJmologoumevnhn fevrousin).
Il
dibattito leggi scritte o no si fa, a distanza, tra le opere di
Sofocle (Antigone, Edipo re), Euripide (Supplici),
Antifonte sofista (Della verità la legge danneggia la vita),
Isocrate (Archidamo), Alcidamante (Messeniaco), In
Platone il personaggio Callicle del Gorgia dice che le leggi
sono vincoli para; fuvsin, mentre kata;
fuvsin è il diritto del più forte di prevalere 483e) e
chissà quanto se ne parlava.
Infine
Tacito: " corruptissima re publica plurimae leges",
Annales, III, 27.
Passiamo
al II, 38, 1 del logvoς
ejpitavfioς
Essere
cittadino impegnato non significa non avere svaghi. Ad Atene vige una
festività agonistica: abbiamo procurato pleivstaς
ajnapauvlaς
th`/ gnwvmh/ moltissimi
sollievi allo spirito, ajgw`si mevn ge
qusivaiς
diethvsioς con agoni e
feste sacre che durano tutto l’anno (Grandi Dionisie in
primavera, Dionisie rurali e Lenee d’inverno) e anche con eleganti
arredi privati il cui piacere quotidiano di queste cose scaccia il
dolore.
Insomma
non circenses
con i mera omicidia
denunciati da Seneca, ma teatro quale festa e quale rito che pone
l’uomo e dio, e la polis
e la politica come problemi
La festività agonistica degli
Ateniesi.
Logos epitafios, II, 38, 1.
"E
inoltre abbiamo procurato allo spirito moltissimi sollievi con l’uso
di gare e feste sacre per tutto l’anno, e con eleganti arredi
privati, il cui piacere quotidiano scaccia il dolore"
Nietzsche:
“ La festa è paganesimo per eccellenza” (Umano,
troppo umano).
Quindi:
“La città riceve ogni cosa da tutta la terra per la sua potenza.
La fruizione dei beni quindi non è solo quella di prodotti locali
(Tucidide, Storie,
II, 38, 2)
Offriamo
la nostra città come bene comune per chi vuole imparare o assistere
ai nostri spettacoli. Non pratichiamo xenhlasiva
(xenhlatevw,
xevnoς-
ejlauvnw) il bando degli
stranieri non escludiamo alcuno dall’imparare o dal vedere (kai;
oujk ajpeivrgomevn tina h} maqhvmatoς
h} qeavmatoς
(II, 39, 1), anche se il
nemico se ne può avvantaggiare.
L’articolo 10 della nostra
Costituzione dice: “Lo straniero al quale sia impedito nel suo
paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite
dalla costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio
della Repubblica. Non è ammessa l’estradizione per motivi
politici”.
Atene protegge supplici e perseguitati
Il mito di Stato presente in molte
tragedie del V secolo mette in rilievo il fatto che Atene accoglie e
protegge i perseguitati.
Negli Eraclidi di Euripide,
Demofonte, figlio di Teseo e di Fedra, accoglie i supplici Eraclidi
perseguitati da Euristeo. Nella parodo, il coro dice che è empio per
una città trascurare la supplice preghiera di stranieri (107-108)
La terra ateniese da sempre vuole
contribuire con la giustizia ad aiutare chi è privo di risorse:
“ajei; poq j h{de gai`a toi`ς
ajmhcavnoiς su;n tw`/ dikaivw/
bouvletai proswfelei`n” (329-330).
Arriano fa dire a Callistene51
che un fuggitivo poteva salvarsi presso gli Ateniesi che avevano
combattuto Euristeo il quale perseguitava gli Eraclidi e allora
tiranneggiava la Grecia: “turrannou`nta ejn
tw`/ tovte th`ς JEllavdoς
(Anabasi di Alessandro, 4, 10, 4).
Nelle Supplici di Euripide,
Etra, la madre di Teseo incoraggia il figlio ad aiutare le donne
argive le quali pregano Atene di soccorrere le madri: tu non lasci
spazio all’ingiustizia e proteggi i disgraziati ( 379-380).
Nell’ Edipo a Colono il
protagonista dice che Atene è la città più pia, la sola capace di
aiutare lo straniero maltrattato (266-267). Teseo infatti accoglie
il disgraziato dicendogli: “so di essere uomo”.
Quindi Isocrate nel Panegirico
che è un caldo elogio di Atene, dice che prima della guerra di
Troia andarono nella città di Pallade gli Eraclidi e Adrasto re di
Argo
Nella Tebaide di Stazio, Giunone
si muove verso le mura di Atene bendisposta verso i supplici pii
(supplicibusque piis faciles Athenas (XII, 294).
I
nostri meridionali conservano fortissimo il senso dell'ospitalità
che fa parte del codice tripartito presente nelle Supplici e
nelle Eumenidi di Eschilo.
Nell’ultimo dramma dell’Orestea,
le Erinni che incalzano il matricida, lo minacciano di
trascinarlo tra i grandi peccatori: quanti si sono resi colpevoli
verso un dio, o un ospite o hanno mancato di rispetto ai genitori52
(vv. 269-271).
Noi
confidiamo più nel nostro coraggio verso l’azione (ejς
ta; e[rga eujyuvcw/) che
nei preparativi e negli stratagemmi. E da giovani viviamo senza
costrizioni hJmeĩς
de; ajneimevnwς
diaitwvmenoi (cfr.
ajnivhmi,
“lascio ”, indica la sovrana negligenza del genio che non deve
prepararsi con duro esercizio ma può improvvisare, o almeno sa dare
questa impressione.) mentre altri perseguono il valore ejpipovnw/
ajskhvsei, con faticoso
esercizio.
Quello
che non abbiamo imparato dai Greci. L'imparzialità dello storico
verso il nemico esterno.. La "tolleranza" di Erodoto
Un lascito dei Greci ai Latini che
invece non è sopravvissuto alle imposizioni dei monoteismi è quello
della “obiettività epica” così detta in quanto risale a Omero
che riconosce valore anche agli eroi troiani e prosegue con gli
storiografi greci e pure latini. Con il cristiano Orosio la Storia
verrà scritta “adversus paganos”.
Quando ero bambino ci insegnavano la
storia del Risorgimento contro i Borboni e contro gli Austriaci.
Il fatto di riferire il punto di
vista del nemico o di raccontarne le gesta non senza ammirazione è
presente nell’opera di Erodoto53,
il padre della storia, e testimonia l'obiettività "epica"
degli storiografi greci e latini.
Erodoto ci insegna anche la
curiosità e la capacità di apprezzare costumi diversi dai nostri
(cfr. le ragazze babilonesi, i Trausi, gli indiani Callati).
Già Omero raccontava le gesta
eroiche non solo dei Greci ma anche dei Troiani.
Si ricordi che nella storiografia
questa obiettività riguarda soltanto il nemico esterno: “
Tucidide
riesce ad essere "obiettivo", ed anzi entusiasta, quando
rievoca od esalta l'opera di Brasida. Ma non può perdonare Cleone"54.
Altrettanto vale per Tacito che è
obiettivo con Calgaco ma non con Tiberio, e per Sallustio, obiettivo
con Mitridate ma non con i nobili romani.
L’obiettività sparisce del
tutto nel V secolo d. C. con la storiografia cristiana di Paolo
Orosio: si consideri il titolo programmatico
delle sue Historiae
adversus paganos , in sette libri che
abbracciano la storia dell’umanità dalle origini al 417 d. C.
L’imparzialità viene proclamata da
Tacito, all’inizio delle Historiae: “incorruptam fidem
professis neque amore quisquam et sine odio dicendus est” (I,
1), chi fa professione di veridicità inconcussa deve esprimersi su
ciascuno mettendo da parte l’amore e senza odio.
Quindi nel primo capitolo degli Annales
dove l’autore dichiara che partirà dagli ultimi anni del
principato di Augusto, poi procederà raccontando di Tiberio e dei
successori sine ira et studio quorum causas procul habeo (I,
1) senza risentimento e partigianeria, di cui tengo lontani i motivi.
Luciano ribadisce la norma
dell’imparzialità dello storico: “Toiou'to~
ou\n moi oJ suggrafeu;~ e[stw, a[fobo~, ajdevkasto~, ejleuvqero~,
parrhsiva~ kai; ajlhqeiva~ fivlo~…ouj
mivsei oujde; filiva/ ti nevmwn oujde;
feidovmeno~ h] ejlew'n h] aijscunovmeno~ h] duswpouvmeno~, i[so~
dikasthv~…xevno~ ejn toi'~ biblivoi~
kai; a[poli~, aujtovnomo~, ajbasivleuto~, ouj tiv tw'/de h] tw'/de
dovxei logizovmeno~, ajlla; tiv pevpraktai levgwn.
JO d j ou\n
Qoukidivdh~ eu\ mavla tou't j ejnomoqevthse kai; dievkrinen ajreth;n
kai; kakivan suggrafikhvn…55”,
tale dunque deve essere il mio storiografo, impavido, incorruttibile,
libero, amico della libertà di parola e della verità…un uomo che
non attribuisce per amicizia e non lesina per odio, o uno che prova
compassione o vergogna, o si lascia intimorire, giudice
imparziale…straniero nei suoi libri e senza patria, indipendente,
non sottoposto al potere, uno che non tiene in alcun conto di cosa
sembrerà a questo o a quello, ma che racconta i fatti. Tucidide
dunque legiferò molto bene e distinse la buona dalla cattiva
storiografia.
Tucidide ha insegnato a Machiavelli e a
noi tutti che i rapporti umani sono rapporti di forza e che la
moralità dei più forti consiste nel non essere troppo violenti.
Luciano prosegue ricordando il capitolo
metodologico delle Storie di Tucidide (I, 22) nel quale
l’autore afferma di avere scritto con la sua opera un acquisto per
l’eternità, piuttosto che un saggio di bravura per il presente e
di non accogliere come ospite il mito (mh; to;
muqw'de~ ajspavzesqai), ma di lasciare ai posteri la verità
dei fatti avvenuti56.
La mancanza del mito scrive Tucidide,
farà apparire la mia storia meno piacevole, ma più utile a quanti
vogliono imparare dal passato quello che avverrà in futuro.
“Così Tucidide impose l’idea che
l’unica storia seria era la storia politica contemporanea; ed
Erodoto fu tagliato fuori dalla corrente della storiografia antica.
La sua storia non era contemporanea né politica”57.
Tucidide identifica addirittura la vita
utile, attiva e produttiva, con la vita politica.
Tanto che fa dire a Pericle:"movnoi
ga;r tovn te mhde;n tw'nde metevconta oujk ajpravgmona, ajll j
ajcrei'on nomivzomen" (Storie, II 40, 2), siamo i
soli a considerare non pacifico, ma inutile chi non partecipa alla
vita politica.
Noi ragazzi del ’68 dicevamo che ogni
atto della vita è politico, anche quelli apparentemente privati.
“Collocando l’uomo nel suo cosmo
politico, lo Stato gli conferisce, oltre alla vita privata, una sorta
di seconda esistenza, il bivoς
politikovς. Ognuno appartiene ora in certo modo a due
ordini…l’uomo non è soltanto “idiota” , ma anche “polita”.
Ijdiwvthς significa l’opposto di
polivthς”
Fin dai tempi di Eraclito troviamo la
distinzione fra l’elemento comune (xunovn=koinovn)
della vita umana e quello che è privato o individuale (i[dion)”
(Paideia 1, p. 215.)
Per il polivthς
il fine supremo è lo stesso già insegnato da Fenice ad Achille:
esser parlatore di discorsi e operatore di azioni. L’aretè
politica deve essere capacità e sapere. I giovani che passano il
tempo sui telefonini e con i videogiochi sono predestinati
all’ignoranza e alla schiavitù.
Tucidide, come poi Cesare, si rifaceva
a un’idea razionale dell’uomo e della storia.
Tra il racconto di Cesare, scritto
forse verso il 46 a. C., e quello di Asinio, che cominciò le sue
Historiae verso il 30, corrono quindici anni, o più; ma la
differenza non è solo nelle date; è più significativa e radicale;
Cesare, scrittore “tucididèo”, ossia razionale, non poteva
intendere abbastanza i momenti irrazionali della sua stessa
impresa…le Historiae di Asinio potevano riflettere la vera
situazione, in maniera più adeguata, senza preoccupazioni
apologetiche…Il Cesare autentico è però un incontro della
razionalità tucididèa…con la passione politica, che lo animò in
questi momenti decisivi”58.
Nella sua opera sulla Guerra civile,
questo condottiero non fa cenno a quell’ispirazione divina a cui i
suoi contemporanei ricondussero la sua grande decisione della notte
fra il 10 e l’11 gennaio: il passaggio del Rubicone. Il Cesare di
tutti noi, è, ancor oggi, l’uomo che disse allora: “il dado è
tratto”; questo non è il Cesare del Bellum civile, ma il
Cesare delle Historiae scritte dal suo ufficiale più
“indipendente” e acuto: Asinio Pollione.
Nel suo racconto Cesare aveva voluto
esporre le ragioni storico-giuridiche della decisione presa,
“condensate” in un’arringa ai soldati (B. C. I, 7)”59.
Ne De bello civili, Caesar
apud milites contionatur , e denuncia il fatto che nella
repubblica si sia introdotto novum exemplum…ut tribunicia
intercessio armis notaretur atque opprimeretur” (I, 7), il veto
dei tribuni veniva censurato e soffocato con le armi. Perfino Silla
che aveva spogliato la tribunicia potestas, tamen intercessionem
liberam reliquisse. Bisognava dunque andare a Roma per
ripristinare la legalità
Cesare “Non permetteva, anche se ciò
possa deluderla, che il suo cuore disponesse della sua testa”60.
Grande ammiratore di Tucidide è
Nietzsche che contrappone lo storiografo a Platone.
Ammiratore incondizionato di Tucidide,
come di Machiavelli, di Tacito, e del realismo il quale fa
apparire"più conveniente andare drieto alla verità effettuale
della cosa, che alla immaginazione di essa"61
è Nietzsche. Questa scelta ha un correlativo stilistico.
Riferisco una serie di osservazioni
che trovo azzeccatissime. In Umano, troppo umano 62
si legge:"Lo stile dell'immortalità . Tanto Tucidide
quanto Tacito-entrambi hanno pensato, nel redigere le loro opere, a
una durata immortale di esse: ciò si potrebbe indovinarlo, se non lo
si sapesse altrimenti, già dal loro stile. L'uno credette di dare
durevolezza ai suoi pensieri salandoli, l'altro condensandoli a forza
di cuocerli; e nessuno dei due, sembra, ha fatto male i suoi conti. "
Un giudizio non lontano da quello di Quintiliano :"densus et
brevis et semper instans sibi Thucydides"63,
denso, conciso e sempre presente a se stesso.
Nel Crepuscolo degli idoli 64
lo storiografo greco è indicato addirittura come terapia contro
“ogni platonismo”:" Il mio ristoro, la mia predilezione, la
mia terapia contro ogni platonismo è sempre stato Tucidide
. Tucidide e, forse,Il Principe di Machiavelli mi sono
particolarmente affini per l'assoluta volontà di non crearsi
delle mistificazioni e di vedere la ragione nella realtà -non
nella "ragione", e tanto meno nella "morale"...In
lui la cultura dei sofisti , voglio dire la cultura dei
realisti giunge alla sua compiuta espressione : questo movimento
inestimabile, in mezzo alla truffa morale e ideale delle scuole
socratiche prorompenti allora da ogni parte. La filosofia greca come
décadence dell'istinto greco: Tucidide come il grande
compendio, l'ultima rivelazione di quella forte, severa, dura
oggettività che era nell'istinto dei Greci più antichi. Il coraggio
di fronte alla realtà distingue infine nature come Tucidide e
Platone: Platone è un codardo di fronte alla realtà-conseguentemente
si rifugia nell'ideale; Tucidide ha il dominio di sé -tiene
quindi sotto il suo dominio anche cose".
Per giunta in Aurora 65
leggiamo:" Un modello . Che cosa amo in Tucidide, che
cosa fa sì che io lo onori più di Platone? Egli gioisce nella
maniera più onnicomprensiva e spregiudicata di tutto quanto è
tipico negli uomini e negli eventi, e trova che ad ogni tipo compete
un quantum di buona ragione : è questa che egli cerca
di scoprire. Egli possiede più di Platone una giustizia pratica: non
è un denigratore e un detrattore degli uomini che non gli piacciono,
o che nella vita gli hanno fatto del male...rivolge lo sguardo
soltanto ai tipi; che cosa se ne farebbe, poi, l'intera posterità
cui egli consacra la sua opera di ciò che non è tipico? Così in
lui, pensatore di uomini, giunge alla sua estrema, splendida
fioritura quella cultura della più spregiudicata conoscenza del
mondo che aveva avuto in Sofocle il suo poeta, in Pericle il suo
uomo di stato, in Ippocrate il suo medico, in Democrito il suo
scienziato della natura: quella cultura che merita di essere
battezzata col nome dei suoi maestri, i Sofisti ".
Luciano afferma che ha stabilito come
obiettivi (skopouv~) per la mente dello
storico parrhsivan kai; ajlhvqeian
(Pw`~ dei` istorivan suvggrafein, 44)
Per quanto riguarda lo stile e la
lingua, lo storico deve safw`~ delw`sai
esporre con chiarezza e spiegare con lucidità, non impiegando parole
astruse e fuori dall’uso. Né volgari ma tali che il grosso
pubblico le capisce e i dotti le approvino (44). Cfr. la Poetica
di Aristotele: il linguaggio deve essere chiaro ma non pedestre.
Ancora sull’obiettività dello
storiografo.
Vediamo il Proemio delle Storie
di Erodoto.
"Questa è l'esposizione della
ricerca di Erodoto di Alicarnasso, perché gli eventi scaturiti
dall'attività umana con il tempo non diventino oscuri, né le
imprese grandi e meravigliose messe in luce alcune dagli Elleni altre
dai barbari, rimangano prive di gloria, e tra le altre cose in
particolare per quale causa combatterono tra loro".
Un aspetto programmatico del proemio è
dato da quella obiettività che può chiamarsi epica in quanto risale
a Omero, il "poeta sovrano" capace di apprezzare il valore
non solo dei Greci ma anche dei Troiani. In fondo, a Maratona e
Salamina si ripeterà lo scontro fra Oriente e Occidente, e,
nonostante il primo significhi Caos e Tirannide, il secondo Cosmo e
Democrazia, il nemico sconfitto viene considerato con rispetto, a
tratti con ammirazione, se non altro perché il pregio conferito al
vinto accresce quello del vincitore. "L'Erodoto "filobarbaro"
è già in questa frase", leggiamo in un saggio di
Canfora-Corcella66.
Cfr. Plutarco Sulla malignità di
Erodoto.
Erodoto riconosce a ogni popolo il
diritto di conservare la sua cultura e i suoi costumi: sbaglio dei
Persiani non sta nell'avere un regime, politico e di vita, diverso da
quello dei Greci, bensì nell'avere cercato di imporre il loro ai
liberi Elleni.
Vediamo un esempio di obiettività
epica in Tacito: l'elogio funebre dell'eroe della libertà dei
Germani, Arminio:"Septem et triginta annos vitae, duodecim67
potentiae explevit, caniturque adhuc barbaras apud gentis68,
Graecorum annalibus ignotus, qui sua tantum mirantur, Romanis haud
perinde celebris, dum vetera extollimus recentium incuriosi "
(Annales , II, 88), visse trentasette anni, dodici di potenza,
riceve ancora gloria nei canti dei barbari, ignoto alle storie dei
Greci, che ammirano solo le proprie imprese, non abbastanza
celebrato da noi che esaltiamo il passato mentre non ci curiamo del
presente.
Questo epitafio saluta ed esalta un
nemico, un barbaro, come campione della libertà.
Tacito attribuisce più di una
volta l' invidia ai suoi Cesari mancando di obiettività epica verso
il nemico interno, come nota Mazzarino. Tiberio temeva dai migliori
un pericolo per sé, dai peggiori disonore per lo stato (ex
optimis periculum sibi, a pessimis dedĕcus publicum metuebat
, Annales , I, 80), e
Domiziano invidiava e odiava Agricola per i suoi successi in
Britannia:"Id sibi maxime formidolosum,
privati hominis nomen supra principem attolli
" ( Agricola69
, 39), gli faceva paura soprattutto il fatto che il nome di un
suddito fosse messo al di sopra di quello del principe.
La componente estetica della
cultura greca, la bellezza, include la semplicità che non è
faciloneria ma complessità risolta. La cura dello spirito comprende
quella del corpo. Mens sana in corpore
sano di Giovenale ha un precedente nelle Storie
di Tucidide dove Pericle (sempre nel lovgo~
ejpitavfio~) dice
Difatti amiamo il bello con semplicità
e amiamo la sapienza senza mollezza; ci serviamo della ricchezza più
quale occasione per agire che come vanteria di parole, e l’essere
povero non è vergognoso ammetterlo per alcuno di noi, ma è
vergognoso piuttosto non evitarla con l’operosità (II, 40, 1).
filokalou`men:
è la fortissima componente estetica della cultura greca, soprattutto
ateniese. Dal dolore dei Greci si sviluppa non solo la comprensione
(tw/' pavqei mavqo" 70),
ma anche la bellezza, una sorta di tw/'
pavqei kavllo" :"Una questione fondamentale è il
rapporto del Greco col dolore…la questione se in realtà il suo
desiderio sempre più forte di bellezza, di feste, di
divertimenti, di culti nuovi non si sia sviluppata dalla mancanza,
dalla privazione, dalla malinconia e dal dolore…quanto dovette
soffrire questo popolo, per poter diventare così bello!"71.
La necessità della bellezza, nel
vivere e nel morire. La bella morte.
La
bellezza, lo stile bello e fine, giustificano e autorizzano la vita,
e la loro mancanza tolgono la volontà di vivere. Questo afferma
nell'Aiace di Sofocle il Telamonio prima di suicidarsi per non
sopravvivere alla degradazione :"ajll j
h] kalw'" zh'n h] kalw'" teqnhkevnai- to;n eujgenh' crhv"
ma il nobile deve vivere con stile, o con stile morire.
(vv.479-480). Quando si vive fuori dal bello insomma la morte può
essere una liberazione. E’ quanto afferma anche il quarto dei
Gimnosofisti indiani cui Alessandro Magno aveva fatto domandare
perché avesse indotto Sabba alla rivolta: “ajpekrivnato
kalw'~ zh'n boulovmeno~ aujto;n h] kalw'~ ajpoqanei'n”72,
volendo, rispose, che quello nobilmente vivesse o nobilmente morisse.
L'aspirazione a una vita egregia dunque
fa parte del carattere nobile degli uomini e delle donne. Antigone
non cede alle obiezione dettate dal buon senso di Ismene, anzi
replica :" io non soffrirò/nulla di così grave da non morire
nella bellezza" (w{ste mh; ouj kalw'"
qanei'n, Antigone, vv. 96-97).
Neottolemo,
il figlio schietto dello schietto Achille, svaluta il suvmferon
(utile) e apprezza il kalovn (bello, e
bello morale) contrapponendosi al subdolo Odisseo del Filottete
:" bouvlomai d' , a[nax,
kalw'"-drw'n ejxamartei'n ma'llon h] nika'n kakw'"
" (vv. 94-95), preferisco, sire, fallire agendo con nobiltà che
avere successo nella volgarità.
"Ecco
che cos'è il successo: una vita mistificata dagli altri, che torna
mistificata a te, e finisce col trasformarti veramente"73.
La principessa troiana Polissena
nella tragedia Ecuba di Euripide dice alla madre: per chi non
è abituato a mali oltraggiosi è meglio morire: "to;
ga;r zh'n mh; kalw'" mevga" povno""
(v.378), infatti vivere senza bellezza è un grande tormento.
“Correttezza, proprietà,
sensibilità: la condotta è suscettibile di giudizio estetico non
meno della capacità di trovare la parola giusta per non spezzare il
ritmo di un verso”74.
La
bellezza e la dignità della morte vengono anteposte alla
degradazione della vita da Cleopatra, l'ultima dei Tolomei: lo
capisce l'ancella Carmione la quale, al soldato che, vedendo il
cadavere della regina, le ha domandato : "kala;
tau'ta Cavrmion ;" è bello questo?, risponde con il suo
ultimo fiato: "kavllista me;n ou\n kai;
prevponta th'/ tosouvtwn ajpogovnw/ basilevwn" (Plutarco,
Vita di Antonio, 85, 8), è bellissimo e si confà a una donna
che discende da re tanto grandi. Lo stesso personaggio dell'Antonio
e Cleopatra di Shakespeare, all'ottuso guardiano (First Guard)
che le ha posto la medesima domanda retorica (Charmian, is this
well done?) , replica : "It is well done, and fitting for
a princess-Descended of so many royal kings. Ah, soldier! (5,
2)", è ben fatto e adatto a una sovrana discesa da tanti nobili
re. Ah soldato!
filosofoũmen:
la sofiva
cui si riferisce Pericle non è un sapere specialistico, ma una
cultura generale che ti rende capace di parlare, politicamente e
retoricamente, in maniera più persuasiva degli altri. Insomma: "to;
sofo;n d j ouj sofiva" (Euripide, Baccanti , v.
395), il sapere non è sapienza. La sofiva
delle Baccanti è il rispetto delle tradizioni: esse chiedono di
poter tenere la mente e l'anima lontani dagli uomini straordinari e
di accettare quello che la gente più semplice crede e pratica (
Baccanti, vv. 427-432).
Anche la nostra Costituzione valorizza
la cultura: Art. 9: “La Repubblica promuove lo sviluppo della
cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il
patrimonio storico e artistico della Nazione”.
Tanti altri autori greci ci hanno
lasciato un’eredità imprescindibile da una vita colta, civile,
pienamente umana. Ne menziono alcuni: Saffo tra i lirici, Aristofane
e Menandro nella commedia, Demostene nell’oratoria, Apollonio Rodio
tra gli epici, Callimaco nel campo della poesia postfilosofica,
Teocrito negli idilli bucolici, Senofonte, Polibio e Plutarco nella
storiografia, Aristotele, Epicuro e gli Stoici nella filosofia. Poi
gli autori latini che li hanno riutilizzati: Plauto e Terenzio,
Catullo, Cicerone. Virgilio, Orazio, Tito Livio, Quintiliano, Seneca,
Tacito, Giovenale. La satira invero è il genere che Quintiliano75..
rivendica come autoctono di Roma: “Satira quidem tota nostra
est”76,
il genere satirico è di certo del tutto nostro.
Quindi Ammiano Marcellino, Agostino e
altri. Su tutti questi torneremo.
giovanni ghiselli
--------------------------------------------------
1
Iliade, VI, 208,
2Iliade
, IX, 443.
3
P. Citati, Op. cit., p. 155.
4
P. Citati, Op. cit., p. 156.
5Odissea
, VIII, vv. 75 e sgg.
6G.
Leopardi, Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica
, p. 71.
7
P. Citati, Op. cit., p. 151.
8Zibaldone
, 58.
9Per
esempio nella Canzone all'Italia :"L'armi, qua l'armi:
io solo/combatterò, procomberò sol io"(vv. 37-38).
10
Zibaldone, 4390.
11Odissea
, XI, 489.
12Repubblica
, 386c. Più avanti (391c) Platone aggiunge che non si deve
ammettere nemmeno l'avidità illiberale di Achille né il suo
superbo disprezzo di uomini e dèi. Sentimenti che non si addicono a
un giovane nato da una dea, pronipote di Zeus e allevato dal
sapientissimo Chirone.
A questa educazione impartita dal buon
centauro dà grande rilievo Euripide nell’Ifigenia in Aulide
dove Agamennone chiarisce a Clitennestra che Achille venne educato
da Chirone : “ i{n j h[qh mh; mavqoi
kakw'n brotw'n” (v. 709), perché non imparasse gli usi
degli uomini malvagi. Più avanti il figlio di Peleo riconosce
tale alta paideia all'uomo piissimo che l'ha allevato:"ejgw;
d j, ejn ajndro;" eujsebestavtou trafei;"-Ceivrwno",
e[maqon tou;" trovpou" aJplou'" e[cein"
(vv. 926-927), ho imparato ad avere semplici i costumi. L’antitesi
del semplice, schietto Achille in questa tragedia, e non solo, è
Odisseo del quale Agamennone dice: “Poikivlo~
ajei; pevfuke tou' t j o[clou mevta” (v. 526), è
molteplice per natura e sempre dalla parte della massa.
13Repubblica
, 388b.
14
Vangelo di Giovanni , Prologo.
15
Goethe, Faust I, Studio. In principio era la Parola…in
principio era l’Azione.
16
24-79 d. C.
17
F. Niietzsche, Schopenhauer come educatore, p. 197.
18
G. Aurelio Privitera R. Pretagostini, Storia e forme della
letteratura greca, p. 297.
19IX,
8, 1169 a 18 sgg.
20Paideia
, I vol., pp. 46 e 47.
21
Nei Detti memorabili di Filippo Ottonieri
l’autore-personaggio ricorda il brutto aspetto di Socrate: “La
sua forma ingrata e ridicola gli sarebbe stata di non piccolo
pregiudizio appresso un popolo che, eziandio nella lingua, faceva
pochissima differenza dal buono al bello ,
e oltre di ciò deditissimo a motteggiare”.
Socrate
si trovava “impedito di aver parte, per dir così, nella vita”.
22
Più avanti avrei conosciuto Eschilo nelle cui Supplici il
re di Argo Pelasgo dice che il popolo ama accusare il potere
(ajrch`ς
ga;r filaivtioς
lewvς, 485). Gli
Argivi provano compassione per le Danaidi e odiano il maschio
stuolo. Infatti ognuno ha simpatia toi`ς
h{ssosin, per i perdenti.
23
Cfr. Iliade,
VI, 146:"oi[h per fuvllwn genehv,
toivh de; kai; ajndrw'n",
proprio quale la stirpe delle foglie, tale è anche quella degli
uomini.
24
L’eroe non si lascia fermare dalla profezia di morte del cavallo
fatato Xanto, e gli risponde:"ouj
lhvxw" (Iliade , XIX, v. 423.) non cederò.
Questo “non cedere” diverrà un paradigma nella civiltà europea
(cfr. Tucidide, Leopardi Bruto minore
25
Nel VI canto dell'Iliade Andromaca dichiara il suo amore
all'eroe troiano, dicendogli che per lei rappresenta tutti gli
affetti e pregandolo di non esporsi troppo nella guerra
sterminatrice: " Ettore, tu per me sei il padre e la veneranda
madre/e anche il fratello, tu sei pure il mio sposo
fiorente;/allora, ti prego, abbi compassione e rimani qui sulla
torre,/non rendere il figlio orfano e vedova la sposa" (vv.
429-432).
26
aijdevomai Trw'a"
(Iliade, VI, 442 e
XXII, 105), mi vergogno davanti ai Troiani, dice Ettore nel momento
risolutivo del suo destino, e va alla morte con gli occhi aperti".
Il cedimento
alla pressione del conformismo sociale è caratteristico della
cultura della vergogna "ove tutto quel che espone l'uomo al
disprezzo o al ridicolo dei suoi simili, tutto quel che gli fa
"perdere la faccia" è sentito come insopportabile"
(E. Dodds, I
greci e l'irrazionale
, p. 30). Il Dodds naturalmente l’ho letto molto tempo dopo le
scuole medie.
28
Nicocle 9 e Antidosi 257.
29
W. Jaeger, Paideia
3, p.134.
30
Aggettivo formato da plhvn e mevlo~,
contro il tono, contro il metro.
31Figura
retorica che consiste nello spezzare e nell'invertire l'ordine
consueto delle parole nella frase .
32Zibaldone
, p. 2523.
33W.
Jaeger, Paideia
1, p. 61.
34
Splendido, molto generico
invero: attribuito in XIV, 3 dell'Odissea
anche al porcaro il quale del resto ha un comportamento nobile.
35
Distruttore di rocche, anche
questo generico e attribuito pure, a maggior ragione, ad Ares
Achille e Oileo.
36Cantarella-Scarpat,
op. cit., p. 151.
37Scelta
di frammenti postumi 1887-1888 , p. 324.
38M.
Detienne-J. P. Vernant, Le astuzie dell'intelligenza
nell'antica Grecia , p. 3 e sgg.
39
L’intelligenza dell’occasione serve a capire la misura
appropriata: “C’è una misura in tutto: e l’occasione è
ottima a comprenderla” (Pindaro, Olimpica
XIII, vv. 47-48). Ndr.
40
P. Citati, La mente colorata, p. 93.
41
C. Marlowe, L'ebreo di Malta, V, 2.
42
M. Detienne-J. P. Vernant, Le astuzie dell'intelligenza
nell'antica Grecia, p. 11.
43
E. Canetti, La lingua
salvata (del 1977),
p. 46.
44
Ovidio, Ars Amatoria
, II, 123-124. Bello non era ma era bravo a parlare Ulisse e pure
fece struggere d'amore le dee del mare. Sono versi non per caso
citati da Kierkegaard nel Diario
del seduttore .
45Jaeger,
Paideia , 1, p. 687.
46
Del 411 a. C.
47
Forma poetica equivalente a kevkthtai.
48Rappresentata
poco tempo dopo lo Ione. Tratta la guerra dei Sette contro
Tebe.
49
M. Cacciari, Geofilosofia dell'Europa, p. 21 n. 2.
50
Notre-Dame de Paris,
p. 38.
51
Callistene di Olinto, storiografo ufficiale fatto ammazzare nel 327
dopo la seconda congiura, quella dei paggi..
52
Un’anticipazione di questo codice si trova in Esiodo. La prima
fase dell’età del ferro è quella in cui visse l’autore il
quale depreca il tempo della propria nascita. Il gevno~
sidhvreon (Opere e
giorni, v. 176) è contrassegnato da fatica
e miseria e duri affanni. Eppure tra i mali si troveranno misti dei
beni. Più avanti però Zeus distruggerà anche questa razza e,
nella bassa età del ferro, i beni spariranno del tutto. Allora gli
uomini nasceranno con le tempie bianche (poliokrovtafoi,
v. 181), i figli non saranno simili al padre, né il padre ai figli,
i quali oltraggeranno i genitori che invecchiano, l’ospite non
sarà caro all’ospite, né il compagno al compagno, nemmeno il
fratello, come prima.
53
Il quale indicava sia gli Elleni sia i barbari quali agonisti della
grande guerra e autori delle opere grandi e meravigliose, il cui
racconto darà visibilità e gloria tanto ai vincitori quanto ai
vinti
54
S. Mazzarino, Il Pensiero Storico Classico , p. 250 I vol.
55
Come si deve scrivere la storia,
41-42. Il trattatello è del 164 d. C.
56
Come si deve scrivere la storia, 42.
57
A. Momigliano, La storiografia greca, p. 143.
58
S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, 2, p. 201.
59
S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, 2, p. 199-200.
60
B. Brecht, Gli affari del signor Giulio Cesare, p. 22.
61Machiavelli
Il Principe , XV.
62
II, p. 179
63Institutio
oratoria , X, 73.
64Quel
che debbo agli antichi ,
2, pp. 125-126.
65
p.124
66La
letteratura politica e la storiografia in Lo Spazio
Letterario Della Grecia Antica , vol. I, tomo, I, p.433-471.
67
Dal 7 al 19 d. C.
68
=gentes . Nel III capitolo della Germania Tacito
descrive due tipi di carmina guerreschi
69
Del 98 d. C.
70
Eschilo, Agamennone,
177. E, poco più avanti :"goccia invece del sonno davanti al
cuore/il penoso rimorso, memore delle pene inflitte; e anche/sui
recalcitranti arriva il momento della saggezza" ( kai;
par j a[-konta" h\lqe swfronei'n ,
Agamennone, vv.
179-181).
71
F. Nietzsche, La nascita della tragedia (1872), p. 7 e p.
163.
72
Plutarco, Vita di Alessandro, 64, 6.
73
P. P. Pasolini, , dai “Dialoghi con Pasolini” su “Vie Nuove”
(1960) in Pasolini saggi sulla politica e sulla società, p.
910.
74
J. Hillman, La forza del carattere, p. 264.
75
35 ca-95 ca d. C.
76
Institutio oratoria, X, 96.
Condivido. Inoltre chi non ha partecipato alla tua conferenza a Pesaro alla fine di Agosto,secondo ma, ha perso molto. Tutte queste riflessioni, non comuni e non banali, sentite dalla tua viva voce sono ancora più belle e coinvolgenti...evviva la cultura Greca.Giovanna Tocco
RispondiEliminami piacerebbe partecipare ad una conferenza del prof ghiselli.....spero ne faccia altre quest'estate
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