NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

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venerdì 21 agosto 2015

Metodologia per l'insegnamento del greco e del latino, parte XLIV

Friedrich Nietzsche

Nietzsche vede in Socrate il padre della decadenza per il suo istinto “degenerante” che, invece di spingere, trattiene, e si oppone alla vita, e all’arte, con risentimento

Nietzsche individua in Socrate l’iniziatore della decadenza intesa come sospetto e paura nei confronti dell’istinto[1]: "Socrate come strumento della disgregazione greca, riconosciuto per la prima volta come tipico décadent. "Razionalità" contro istinto. La "razionalità" a ogni costo come violenza pericolosa, che mina la vita! (…) Ero il primo a vedere il vero contrasto: da una parte l'istinto degenerante, che si rivolta contro la vita con rancore sotterraneo (-il cristianesimo, la filosofia di Schopenhauer, in un certo senso già la filosofia di Platone, tutto l'idealismo ne sono forme tipiche-) e dall'altra una formula della affermazione suprema, nata dalla pienezza, dalla sovrabbondanza, un dire sì senza riserve, al dolore stesso, alla colpa stessa, a tutto ciò che l'esistenza ha di problematico e di ignoto…Quest'ultimo, gioiosissimo, straripante-arrogantissimo sì alla vita non solo è la visione suprema, ma anche la più profonda, confermata e sostenuta col massimo rigore della verità e della scienza…La conoscenza, il dire di sì alla realtà, è una necessità per il forte, così come lo è per il debole, per ispirazione della debolezza, la viltà e la fuga dalla realtà"[2].
Nietzsche attribuisce a Socrate il peccato originale della negazione dell'istinto, anzi quello di avere un istinto rovesciato e pervertito: dissuasivo invece che persuasivo: "La saggezza istintiva si mostra in questa natura assolutamente abnorme soltanto per contrastare qua e là, ostacolandolo, il conoscere cosciente. Mentre in tutti gli uomini produttivi l'istinto è proprio la forza creativa e affermativa, e la coscienza si comporta in maniera critica e dissuadente, in Socrate l'istinto si trasforma in un critico"[3].
“Socrate e Platone come sintomi di decadimento, come strumenti della dissoluzione greca, come pseudogreci, antigreci (“Nascita della tragedia”, 1872) …Dover combattere gli istinti-ecco la formula della décadence: sino a che la vita si innalza, felicità è uguale a istinto”[4].
In effetti Socrate nell'Apologia scritta da Platone afferma che il suo demone si manifesta come una voce (fwnhv ti") che lo distoglie sempre (ajei; ajpotrevpei) da ciò che sta per fare mentre non lo spinge mai ad agire (protrevpei de; ou[pote) [5]. Vero è che l'istinto non sempre spinge al bene.
Socrate secondo Nietzsche era ostile alla vita e all’arte.
Socrate “era plebaglia. Si sa, lo si vede ancora quanto fosse brutto”. Socrate con “la superfetazione del logico e quella cattiveria del rachitico che lo contraddistingue”[6] puntò sulla tragedia “l’unico grande occhio ciclopico…quell’occhio in cui non arse mai la dolce follia dell’entusiasmo artistico”[7].


Galimberti e la letteratura come educazione delle emozioni. I casi della cronaca e quello di Octavia, la giovinetta fatta sposare a Nerone (Tacito, Annales, XIII, 16). E’ bene che i ragazzi imparino a conoscere e a esprimere i loro affetti

 Noi possiamo e dobbiamo aiutare i ragazzi a cosmizzare la loro turbolenza emotiva, a bonificare la palude ribollente degli istinti giovanili, con lo strumento delle materie che insegniamo e con il grande rispetto per le persone che educhiamo: "maxima debetur puero reverentia"[8], al fanciullo si deve il massimo rispetto.
In seguito a crimini brutali compiuti da adolescenti U. Galimberti ha scritto[9]: "perché leggere Petrarca e Leopardi, Pirandello o Primo Levi? A quell'età la letteratura o è educazione delle emozioni, o altrimenti val la pena di gettarla, e piazzare tutti gli studenti davanti a un computer e renderli efficienti in questa pratica visivo-manuale". Senza l’educazione delle letture infatti, invece delle emozioni e dei sentimenti, i giovani provano impulsi che possono anche spingerli a fare, o a farsi, del male. Gli impulsi vanno educati, non repressi: “Ogni impulso che tentiamo di soffocare, germoglia nella mente, ci intossica”[10].
Ma come si educano le emozioni? Secondo me attraverso la bellezza del lovgo" e del mu'qo". Per intenderla e appropriarsene sono necessari sensibilità e uno studio rigoroso.
Platone nel Protagora fa dire al sofista che tutta la vita dell'uomo ha bisogno di un buon ritmo e di armonia, per questo i maestri fanno suonare sulla cetra ai bambini le poesie dei buoni poeti lirici e costringono i ritmi e le armonie ad accordarsi con le anime degli alunni (326b).
 Galimberti torna sull'argomento dopo altri delitti domestici efferati: "Una madre mette in lavatrice la sua bambina che aveva partorito sette mesi prima, un'altra mamma si accanisce con un coltello da cucina sul corpo indifeso della sua bambina di sette anni per poi suicidarsi" è l'incipit del pezzo[11].
Più avanti lo studioso pone una domanda che ci riguarda come insegnanti e suggerisce una risposta: "la scuola a questo punto può fare qualcosa in quella stagione dell'adolescenza quando i ragazzi sono parcheggiati in quella terra di nessuno dove la famiglia, per effetto delle carenze comunicative accumulate, non svolge più alcuna funzione e la società alcun richiamo? Certamente. A patto che i professori non si limitino a "istruire", ma incomincino a "educare", cioè a prendersi cura della crescita emotiva dei loro studenti". Del resto "non si dà apprendimento senza gratificazione emotiva, e l'incuria dell'emotività, o la sua cura a livelli così sbrigativi da essere controproducenti, è il massimo rischio che oggi uno studente, andando a scuola, corre". Forse il problema è ancora più grave di come lo pone Galimberti. I giovani spesso devono soffocare i sentimenti per essere accettati.
Dobbiamo invece educarli, incoraggiarli e istruirli a esprimere i loro affetti.
Ricorriamo al campo che è nostro, e vediamo il caso della povera Ottavia, la giovinetta figlia di Claudio e Messalina, moglie e vittima di Nerone, ragazzo manovrato dalla madre e dai pedagoghi[12] in un ambiente dove c'erano pugnali perfino nei sorrisi[13]: "Octavia quoque, quamvis rudibus annis, dolorem caritatem omnes adfectus abscondere didicerat" (Annales, XIII, 16), anche Ottavia, sebbene non scaltrita dall'età[14], aveva imparato a nascondere la pena, l'amore e tutti i sentimenti.


Conoscere è anche amare. Catullo, Ovidio, Stazio. Fromm e Galimberti. Una “conoscenza” problematica: la nascita di Gesù nel Vangelo secondo Matteo (I, 25). I rapporti di Maria e Giuseppe dopo il parto. La traduzione ufficiale falsata e l’invettiva di Celso. Gesù e i suoi fratelli (Matteo, 12, 46). Gesù e Alessandro Magno che si diceva figlio di Zeus

Conoscere è anche amare: "Dicebas quondam solum te nosse Catullum " (Carmina, 72, 1), una volta dicevi di "conoscere" (ossia di avere come amante) soltanto Catullo.
Ugualmente Ovidio: "Non ego sum furto tibi cognita; pronuba Iuno (Her. 6, 45) non hai avuto con me rapporti amorosi di nascosto; fu pronuba Giunone, scrive Ipsipile, regina di Lemno al suo seduttore, il solito “fallace” Giasone.
Stazio echeggia questa espressione nell’Achilleide, quando il protagonista eponimo del poema confessa il suo amore con Deidamia al padre di lei, il re di Sciro Licomede: “Tacito iam cognita furto/Deidamīa mihi” (I, 903-904), ho già conosciuto Deidamia con amore furtivo.
 Così è pure il conoscere biblico di cui ci dà una spiegazione Fromm: " Conoscere non significa essere in possesso della verità, bensì andare sotto lo strato esterno e tentare, criticamente e attivamente, di avvicinarsi sempre più alla realtà. Questo modo di penetrazione creativa trova espressione nell'ebraico jadoa, che significa conoscere e amare nel senso della penetrazione maschile"[15].
“Diceva Paolo di Tarso[16]: “Non si entra nella verità senza l’amore (Non intratur in veritate nisi per charitatem). Nelle nostre scuole l’amore si risolve nella miseria delle simpatie e delle antipatie”[17].
 Nel Vangelo di Matteo si legge che Giuseppe quando si seppe che Maria, a lui fidanzata, prima che fosse stata con lui, era incinta, voleva ripudiarla, sia pure senza clamore. Ma poi sognò un angelus Domini che gli disse che quel concepimento era opera dello Spirito Santo. Giuseppe credette all’immagine onirica e sposò Maria, et non cognoscebat eam, donec peperit filium, et vocavit nomen eius Iesum (Secundum Mattheum, I, 25), e non la conosceva finché non ebbe partorito il figlio e gli diede il nome di Gesù. Vediamolo anche in greco: “kai; oujk ejgivnwsken aujth;n e{w~ ou| e[teken uiJovn: kai; ejkavlesen tov o[noma aujtou' j Ihsou'n”. La traduzione ufficiale è questa: “la quale, senza che egli la conoscesse, partorì un figlio, che egli chiamò Gesù”.

I miei studenti di Liceo si sono incuriositi per la discrepanza: allora ho riferito l’ipotesi maligna del malevolo Celso: “ Di essere nato da una vergine, te lo sei inventato tu. Tu sei nato in un villaggio della Giudea da una donna del posto, una povera filatrice a giornata. Questa fu scacciata dal marito, di professione carpentiere, per comprovato adulterio. Ripudiata dal marito e ridotta a un ignominioso vagabondaggio, clandestinamente ti partorì da un soldato di nome Pantera[18]”. Questa invettiva ha suscitato curiosità e interesse nei ragazzi. Fermiamoci sul tema della verginità di Maria e torniamo a Matteo, dove leggiamo che Gesù aveva dei fratelli: “Dixit autem ei quidam: “Ecce mater tua et fratres tui foris stant quaerentes loqui tecum”. E in greco: “ei\pen dev ti~ aujtw/: ijdou' hJ mhvthr sou kai; oiJ ajdelfoiv sou e[xw eJsthvkasin zhtou'nte~ soi lalh'sai” (12, 46), un tale gli disse: ecco la madre tua e i fratelli tuoi che stanno fuori e cercano di parlarti. Del resto Gesù non riconobbe questa maternità e fratellanza: rispose che sua madre e suoi fratelli erano i discepoli e chiunque avrebbe fatto la volontà del Padre che nei cieli sta. Anche Alessandro Magno diceva che il padre suo era Zeus, signore del cielo e degli dèi.
Homines, dum docent
[19] discunt (Seneca). Semper homo bonus tiro est (Marziale). Gli scolari ci insegnano molto. Morin. Il potere incontrollato della televisione (Popper) deve essere denunciato. Essa dà informazioni false e colonizza l’inconscio (Luperini). Pasolini e l’omologazione televisiva. Contro la televisione, macchina della volgarità e della meschinità. Le opportunistiche reticenze televisive di Moravia, Bassani e Attilio Bertolucci. G. Bocca e il trionfo televisivo del facile. La scuola fatta per Lucignolo (Mastrocola e Pirani). I risultati eccellenti richiedono fatiche[20] e pure rischi. Sarpedone nell’Iliade e Alessandro Magno nella Vita di Plutarco. Contro i luoghi comuni del non pensiero e della faciloneria dobbiamo presentare l’uomo come problema. Molte sono le cose inquietanti e nessuna è più inquietante dell’uomo (Antigone, vv. 332-333). La personificazione della Natura nell’operetta morale di Leopardi. Cacciari: il dubbio non va eliminato. Leopardi e Cartesio. Morin: il dubbio come lievito di ogni attività critica. Lode del dubbio di B. Brecht. La lettera a un bambino mai nato della Fallaci. Leopardi e la meschinità d’animo di chi “non è capace o è difficile al dubbio”. Un problema che suscita grandi dubbi: quello dell’ereditarietà delle colpe. Eschilo (Sette a Tebe, vv. 742-757), Sofocle (Antigone, vv. 853-856) e Pasolini: l’infelicità dei giovani nelle Lettere luterane. Il Timone d’Atene.

Non dobbiamo dimenticare che l'insegnamento e l'apprendimento sono interdipendenti: "homines, dum docent discunt "[21] mentre si insegna si impara. Dagli studenti ho imparato e imparerò sempre molto: "Quaeris quid doceam? etiam seni esse discendum"[22], vuoi sapere che cosa insegno? che anche un vecchio deve imparare.
Dobbiamo dirlo ai nostri studenti: “Si ripaga male un maestro, se si rimane sempre scolari”[23].
 Tutti gli insegnanti, tutte le persone per bene, non dovrebbero mai smettere di imparare: "semper homo bonus tiro est ", l'uomo onesto fa tirocinio per tutta la vita, ha scritto Marziale[24] (12, 51, 2).
Il maestro che ha canonizzato se stesso, ha firmato il proprio atto di morte.
Dai giovani noi possiamo imparare molto su noi stessi, e dobbiamo imparare su di loro, che l’abbiamo già detto[25], ci curano l’anima "Gli insegnanti della scuola secondaria hanno come compito di educarsi rispetto al mondo adolescenziale e alla sua cultura. C'è sempre stata, di fatto, al di sotto della 'collaborazione di classe', una lotta di quartiere tra insegnanti, che detengono il potere, e la maggior parte degli studenti, che si crea il proprio underground clandestino, che realizza le sue piccole trasgressioni…il corpo insegnante non dovrà chiudersi in se stesso come una cittadella assediata dall'irruzione della cultura mediatica esterna alla scuola, ignorata e disdegnata dal mondo intellettuale. "[26].
Anche la televisione va seguita dall'insegnante secondo Morin. Per essere smascherata aggiungerei. Vero è che la televisione "è un potere incontrollato e qualsiasi potere non controllato è in contraddizione con i princìpi della democrazia"[27], ma noi insegnanti possiamo comunque criticarlo.
Non solo è incontrollabile la televisione, ma è essa stessa a esercitare un controllo: “Il modo con cui una ristrettissima oligarchia ha convinto centinaia di milioni di uomini ‘civili’ e ‘informati’ che Saddam è un nuovo Hitler, il suo esercito la quarta potenza mondiale e la guerra contro l’Iraq necessaria, è la riprova che il controllo automatico è arrivato a un punto tale che il sistema non ha neppure più bisogno della persuasione ideologica perché gli basta la colonizzazione dell’inconscio”[28]. Meno male che l’assassinio bestiale, a sangue freddo, dell’ex tiranno, diventato vittima sacrificale e mediatica. ha provocato una levata di scudi in quasi tutta la classe politica italiana.
Pasolini negli Scritti corsari ci ha dato delle indicazioni critiche le quali, a trent’anni dal suo assassinio brutale sono ancora valide e attuali: “Per mezzo della televisione, il Centro ha assimilato a sé l’intero paese, che era così storicamente differenziato e ricco di culture originali. Ha cominciato un’opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza. Ha imposto cioè-come dicevo- i suoi modelli: che sono i modelli voluti dalla nuova industrializzazione, la quale non si accontenta più di un “uomo che consuma”, ma pretende che non siano concepibili altre ideologie che quelle del consumo. Un edonismo neo-laico, ciecamente dimentico di ogni valore umanistico e ciecamente estraneo alle scienze umane…Non c’è infatti niente di religioso nel modello del Giovane Uomo e della Giovane Donna proposti e imposti dalla televisione. Essi sono due Persone che avvalorano la vita solo attraverso i suoi Bene di consumo”[29].
Nel saggio Contro la televisione Pasolini condanna senza alcuna remora “tale macchina della volgarità e della meschinità”. Essa “vuol coprire la vergogna di essere l’espressione concreta attraverso cui si manifesta lo Stato piccolo-borghese italiano. Ossia di essere la depositaria di ogni volgarità, e dell’odio per la realtà (mascherando magari qualche suo prodotto con la formula del realismo). Il sacro è perciò completamente bandito. Perché il sacro, esso sì, e soltanto esso, scandalizzerebbe veramente, le varie decine di milioni di piccoli borghesi che tutte le sere si confermano nella propria stupida “idea di sé” davanti al video… E insomma non è nemmeno pensabile che i dirigenti dela televisione prendano in considerazione la possibilità di accettare un simile “sacro” coi suoi ritmi inconcepibili al piccolo borghese…C’è nel profondo della cosiddetta TV qualcosa di simile appunto allo spirito dell’Inquisizione…può passare solo chi è imbecille, ipocrita, capace di dire frasi e parole che sono puro suono; oppure chi sa tacere”. Pasolini fa i nomi e gli esempi di Moravia, Giorgio Bassani, Attilio Bertolucci. “Il fatto che essi parlando, non rischiano la Siberia, ma l’ostracismo della televisione, ossia una diminuzione di prestigio e popolarità. Dunque tacciono perché la televisione è potente. E’ potente fino a rappresentare ormai in Italia (paese di analfabeti, e quindi paese dove non si leggono né libri né giornali) l’opinione pubblica”.
Emblematico di questo tacere, seondo Pasolini, era l’eloquio di Aldo Moro che pure ha, con Nenni, il grande merito di avere portato l’Italia sulla strada del laburismo. “Ebbene Moro ha potuto fare tutto questo, a patto di tacerlo” adottando un linguaggio burocratico e tecnico, incomprensibile per i più.
In un mese di osservazione televisiva, non mi è mai capitato di cogliere negli uomini politici, soprattutto…un solo momento di semplicità, di sincerità, di autenticità, di umanità”. Poi viene il biasimo della volgarità che è la natura della borghesia il cui credo è il “terrore e la condanna del Diverso”. Pasolini ricorda una trasmissione in cui Moravia spiccava per nobiltà e intelligenza rispetto ad altri scrittori “con quelle loro pance affondate dentro tristi brache”, eppure quando avrebbe dovuto parlare e criticare il sistema che nega la libertà allo scrittore, Moravia ha taciuto. Gli scrittori hanno paura di scrivere quello che pensano della religione di Stato, della polizia di Stato, della magistratura di Stato, e della televisione italiana. Hanno paura “di perdere lettori e piccoli privilegi (la televisione serve molto, naturalmente, per vendere i libri o per dare celebrità) …non si può pretendere da nessuno la santità, evidentemente. Tuttavia da questo, ad estorcere allo scrittore, attraverso il ricatto, l’affermazione che in Italia lo scrittore è libero, c’è una bella differenza: è libero, sì, ma a patto di sfidare il codice penale piccolo-borghese, e quindi di pagare di persona. La realtà non è che in Italia non ci sia la prigione per i Siniavkij e i Daniel: non ci sono i Siniavkij e i Daniel”[30].
La televisione, molto più della scuola, celebra "il trionfo del facile, del dilettantesco, del volgare" sostiene G. Bocca che chiama tale baccanale corrotto "la democrazia del mercato". Essa " è la ricchezza facile del quiz, è l'accoppiata della vanità e dell'appetito del quiz: essere in mostra di fronte alla immensa platea e raccogliere i dobloni che scendono dal cielo. La democrazia di mercato di massa è nata in America ma si trova benissimo in Italia, asseconda la voglia universale di primeggiare senza far fatica, di fare musica, teatro, letteratura senza studiare, senza crescere giorno dopo giorno"[31].
Ricorda quanto dice il Tristano di Leopardi già citato al capitolo 6: “E questi buoni ragazzi vogliono fare in ogni cosa quello che negli altri tempi hanno fatto gli uomini, e farlo appunto da ragazzi, senza altre fatiche preparatorie"[32].
“La scuola è diventata un enorme Parco dei Divertimenti, tanto che oggi Lucignolo andrebbe di filato a scuola e non certo al Paese della Cuccagna…Se dovessi riassumere le rovine, ne illustrerei due: il permissivismo ha prodotto l’ineducazione scolastica (nessuno di noi oggi è più in grado di tenere sotto controllo la normale disciplina di una classe, cioè semplicemente il fatto che quando l’insegnante parla, non parlino insieme anche i ragazzi). E l’azzeramento (o riduzione) dei contenuti ha prodotto ignoranza”[33].
Ultimamente (2007) si cerca di reintrodurre un minimo di serietà e selettività nella scuola. “La svolta…ha incontrato…le prime ostilità…Il Paese dei Balocchi ha, infatti, sempre rappresentato una attrattiva fino al giorno delle orecchie d’asino”[34].
I risultati eccellenti presuppongono fatiche e pure rischi
A proposito del primeggiare con fatica, e con rischio, si può ricordare che nell'Iliade Sarpedone figlio di Zeus e capo licio, dice a Glauco, altro comandante dello stesso popolo, che loro due, se vogliono meritarsi i privilegi con i quali vengono onorati devono combattere in prima fila (mevta prwvtoisin, VI, 315) dando prova di coraggio e valore speciale.
 Plutarco racconta che Alessandro Magno biasimava il lusso dei suoi amici: ad esempio Leonnato che si era fatto portare dall’Egitto la sabbia per la palestra da una carovana di cammelli. Allora disse che vivere nelle mollezze è la cosa più servile, mentre sopportare fatiche è la cosa più regale: “ o{ti doulikwvtaton mevn ejsti to; trufa'n, basilikwvtaton de; to; ponei'n” (Vita, 40, 2).
Il conquistatore macedone si affaticava non solo nelle attività militari ma anche nella caccia, tanto che una volta un messo spartano sopraggiunto mentre abbatteva un grosso leone, gli disse: “kalw'~ g j j Alevxandre pro;~ to;n levonta hjgwvnisai peri; th'~ basileiva~” (40, 4), hai combattuto bene Alessandro contro il leone, per vedere chi sarebbe rimasto re.
Contro i luoghi comuni del non pensiero, la faciloneria e la volgarità dei media dobbiamo presentare l'uomo come problema, i risultati buoni come frutto di operosità intelligente.
Il discorso sulla problematicità dell'essere umano può essere annunciato dallo squillo iniziale del primo Stasimo dell'Antigone: "polla; ta; deina; koujde;n ajn-qrwvpou deinovteron pevlei" (vv. 332-333), molte sono le cose inquietanti e nessuna è più inquietante dell'uomo.
"Alla luce di questa drammaturgia, l'uomo non appare delineato come una natura stabile, un essere che si potrebbe delineare e definire, ma come un problema; assume la forma di un'interrogazione, di una serie di domande. Creatura ambigua, enigmatica, sconcertante, al tempo stesso agente e agito, colpevole e innocente, libero e schiavo, destinato per la sua intelligenza a dominare l'universo e incapace di dominare se stesso, l'essere umano, unendo in sé il meglio e il peggio, può essere qualificato come un deinov~, nei due sensi del termine: meraviglioso e mostruoso"[35].
Leopardi ha rappresentato in questi termini la donna che impersona la Natura: “Ma, fattosi più da vicino, trovò che era una forma smisurata di donna seduta in terra, col busto ritto, appoggiato il dosso e il gomito a una montagna; e non finta ma viva; di volto mezzo tra il bello e terribile, di occhi e di capelli nerissimi: la quale guardavalo fissamente”[36].

"L'umanità produce Bibbie e cannoni, tubercolosi e tubercolina"[37].
Il dubbio non va eliminato come deleterio, anzi: "Togli il dubbio, il dubbio su me stesso, sulla mia identità, sul mio sapere, e non mi resterà che il già fatto e il già detto"[38].
Leopardi cita Cartesio a proposito della necessità del dubbio: “Le verità contenute nel mio sistema non saranno certo ricevute generalmente, perché gli uomini sono avvezzi a pensare altrimenti, e al contrario, né si trovano molti che seguono il precetto di Cartesio: l’amico della verità debbe una volta in sua vita dubitar di tutto. Precetto fondamentale per li progressi dello spirito umano. Ma se le verità ch’io stabilisco avranno la fortuna di essere ripetute, e gli animi vi si avvezzeranno, esse saranno credute, non tanto perché sien vere, quanto per l’assuefazione”[39].
“In molte pagine dello Zibaldone, Leopardi mette in dubbio ogni sistema: anche quelli che ha più cari o che posseggono più rilievo. “Il mio sistema” scriveva già nel settembre 1821 “introduce non solo uno Scetticismo ragionato e dimostrato, ma tale che, secondo il mio sistema, la ragione umana per qualsivoglia processo possibile, non potrà mai spogliarsi di questo scetticismo; anzi esso contiene il vero, e si dimostra che la nostra ragione, non può assolutamente trovare il vero se non dubitando; ch’ella si allontana dal vero ogni volta che giudica con certezza; e che non solo il dubbio giova a scoprire il vero…, ma il vero consiste essenzialmente nel dubbio, e chi dubita, sa, e sa il più che si possa sapere”[40].
“Lo sviluppo dell’intelligenza generale richiede di legare il suo esercizio al dubbio[41], lievito di ogni attività critica…Comporta anche quell’intelligenza che i Greci chiamano métis[42], “insieme di attitudini mentali…che combinano l’intuizione, la sagacia, la previsione, l’elasticità mentale, la capacità di cavarsela, l’attenzione vigile, il senso dell’opportunità… “Unico punto pressochè certo nel naufragio (delle antiche certezze assolute): il punto interrogativo”, ci dice il poeta Salah Stétié”[43].
C’è una poesia di B. Brecht che costituisce un inno in lode del dubbio: “Sia lode al dubbio!... Oh bello lo scuoter del capo/su verità incontestabili!/Oh il coraggioso medico che cura/l’ammalato senza speranza!... Sono coloro che non riflettono, a non dubitare mai…Tu, tu che sei una guida, non dimenticare/che tale sei, perché hai dubitato/delle guide! E dunque a chi è guidato/permetti il dubbio!”[44].
La Lettera a un bambino mai nato della Fallaci è dedicata “A chi non teme il dubbio/a chi si chiede i perché/senza stancarsi e a costo di soffrire di morire”.
Concludo questa parte con Leopardi: “Piccolissimo è quello spirito che non è capace o è difficile al dubbio”[45].
“I miei film non mirano ad avere un senso compiuto. Finiscono sempre con una domanda”[46]

Un problema grande nell’uomo greco è quello della ereditarietà delle colpe dei padri. Esso suscita grandi dubbi.
 Sentiamone alcune espressioni: Eteocle nei Sette a Tebe di Eschilo non è personalmente colpevole ma deve pagare per: "la trasgressione antica/dalla rapida pena/che rimane fino alla terza generazione: /quando Laio faceva violenza/ad Apollo che diceva tre volte, /negli oracoli Pitici dell'ombelico/del mondo, di salvare la città/morendo senza prole;/ma quello vinto dalla sua dissennatezza/generò il destino per sé, /Edipo parricida, /quello che osò seminare/il sacro solco della madre, dal quale nacque/radice insanguinata, /e fu la pazzia a unire/gli sposi dementi" (vv. 742-757).
Il Coro dell’Antigone deplora la catastrofe della ragazza con queste parole: "Avanzando verso l'estremità dell'audacia, /hai urtato, contro l'eccelso seggio della Giustizia, /creatura, con grave caduta, / del resto sconti una colpa del padre" (vv. 853-856).
Ora leggiamone un’interpretazione, a sua volta parecchio problematica, di Pasolini: “Uno dei temi più misteriosi del teatro tragico greco è la predestinazione dei figli a pagare le colpe dei padri. Non importa se i figli sono buoni, innocenti, pii: se i loro padri hanno peccato, essi devono essere puniti. E’ il coro-un coro democratico- che si dichiara depositario di tale verità: e la enuncia senza introdurla e senza illustrarla, tanto gli pare naturale”
Pasolini trova una ragione nella legge della tragica predestinazione a ereditare le colpe: i giovani del 1975 sono figli di padri colpevoli, padri “che si son resi responsabili, prima, del fascismo, poi di un regime clerico-fascista, fintamente democratico, e, infine, hanno accettato la nuova forma del potere, il potere dei consumi, ultima delle rovine, rovina delle rovine”. I figli dunque sono puniti. “Ma sono figli “puniti” per le nostre colpe, cioè per le colpe dei padri. E’ giusto? Era questa, in realtà, per un lettore moderno, la domanda senza risposta, del motivo dominante del teatro greco. Ebbene sì, è giusto. Il lettore moderno ha vissuto infatti un’esperienza che gli rende finalmente, e tragicamente, comprensibile l’affermazione-che pareva così ciecamente irrazionale e crudele-del coro democratico dell’antica Atene: che i figli cioè devono pagare le colpe dei padri. Infatti i figli che non si liberano delle colpe dei padri sono infelici: e non c’è segno più decisivo e imperdonabile di colpevolezza che l’infelicità”.
E le colpe dei padri? Esse sono la complicità col vecchio fascismo e l’accettazione del nuovo fascismo. Perché tali colpe?
“Perché c’è-ed eccoci al punto-un’idea conduttrice sinceramente o insinceramente comune a tutti: l’idea cioè che il male peggiore del mondo sia la povertà e che quindi la cultura delle classi povere deve essere sostituita con la cultura della classe dominante. In altre parole la nostra colpa di padri consisterebbe in questo: credere che la storia non sia e non possa essere che la storia borghese [47].
Ma più probabilmente ha ragione un personaggio (senatore ateniese) del Timone d’Atene di Shakespeare: “Crimes like lands/are not inherited” (V, 4), i delitti non si ereditano, come la terra.







[1] Abbiamo visto (42) che invece Pasolini definisce Socrate “un libertino”.
[2] Ecce homo (del 1888), p. 50.
[3] Nietzsche, La nascita della tragedia, p. 91.
[4] Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, (del 1888) p. 12 e p. 16.
[5] Platone, Apologia di Socrate, 31d.
[6] Crepuscolo degli idoli, p. 13.
[7] La nascita della tragedia, p. 93.
[8] Giovenale, Satira 14, 47.
[9] Nel quotidiano "la Repubblica" del 13 febbraio 2001.
[10] Il ritratto di Dorian Gray, p. 26, in Oscar Wilde, Opere.
[11]la Repubblica”, sabato 25 maggio 2002, p. 15
[12] Soprattutto da Seneca di cui del resto mi sono servito in questo lavoro in quanto me ne sono avvalso personalmente quale educatore, mio e dei miei studenti.
[13] Cfr, Shakespeare, Macbeth: "There' s daggers in men's smile" II, 4. Alla SSIS di Bologna ho fatto una lezione comparativa partendo da questa tragedia.
[14] Tacito ha appena raccontato l’avvelenamento di Britannico da parte di Nerone. Siamo nel 55 d. C. e Ottavia ha solo quindici anni.
[15]E. Fromm, Avere o essere?, p. 63.
[16] Veramente la sentenza è di Agostino (Contra Faustum Manichaeum, 41, 32, 18). Ndr
[17] U. Galimberti, L’ospite inquietante, p. 36.
[18] Celso, Il discorso vero (II sec. d. C.) I, 33, trad. it. Adelphi, Milano, 1987. In nota si legge: “Panthera” è attestato da iscrizioni latine come soprannome di soldati romani stanziati in Palestina.
[19] Qualche tempo fa un sedicente “professore”, un presentatore assai seguito di cui non ricordo il nome, certo Mirabella forse, ha sentenziato “dum docunt (sic!) discunt”, oltretutto in un contesto elogiativo dello studio del latino.
[20] Cfr. 3.
[21] Seneca, Epist., 7, 8.
[22] Seneca, Epist., 76, 3.
[23] F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, p. 92.
[24] 40ca- 104 d. C.
[25] Cap. 7.
[26] E. Morin, La testa ben fatta., pp. 82- 83.
[27]K. R. Popper, J. Condry, Cattiva maestra televisione, p. 10.
[28] R. Luperini, Insegnare la letteratura oggi, p. 197.
[29] Scritti corsari, pp. 32-33.
[30] Contro la televisione (Inedito, 1966) in Saggi sparsi (1942-1973), P. P. P. Tutte le opere, Saggi sulla politica e sulla società, i Meridiani, Mondadori, Milano, 2001, pp. 128 ss.
[31] G. Bocca, "Il Venerdì di Repubblica", 3 gennaio 2002, p. 11.
[32] Dialogo di Tristano e di un amico (1832). E’ una delle Operette morali delle quali l’autore scrive: "Così a scuotere la mia povera patria, e secolo, io mi troverò avere impiegato le armi del ridicolo ne' dialoghi e novelle Lucianee ch'io vo preparando" (Zibaldone, 1394)
[33] P. Mastrocola, La scuola raccontata al mio cane, p. 150 e p. 187.
[34] Mario Pirani, La scuola nel paese dei balocchi, “la Repubblica”, 20 ottobre 2007, p. 27.
[35]J. P. Vernant, Tra mito e politica, p. 253.
[36] Dialogo della Natura e di un Islandese, del 1824.
[37] R. Musil, L'uomo senza qualità, p. 22.
[38] M. Cacciari, "L'espresso", 6 gennaio 2005, p. 69.
[39] Zibaldone, 1720.
[40] P. Citati, Leopardi, p. 56.
[41] Montaigne che cita Dante: “Che, non men che saver, dubbiar m’aggrata”, Divina Commedia, Inferno XI, v. 93.
[42] M. Detienne, J. -P. Vernant, Le astuzie dell’intelligenza nell’antica Grecia, tr. It. Laterza, Roma-Bari 1984.
[43] E. Morin, La testa ben fatta, pp. 16-17 e 55.
[44] B. Brecht (1898-1956), Lode del dubbio.
[45] Zibaldone, 1392.
[46] Pasolini, Tutte le Opere, Saggi sulla politica e sulla società, p. 1319
[47] P. P. Pasolini, Lettere luterane, I giovani infelici, pp. 5-12. 

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