Per sconfiggere i
mostri c’è bisogno di ordine e di delicatezza che non significa mollezza, né
devozione alla norma. Calvino, Perseo e la Gorgone nelle Metamorfosi di Ovidio: anguiferumque caput dura ne laedat
harena " (IV, 741). Shakespeare, La tempesta. Saffo ama la delicatezza. Leopardi
sono “ i geni più sublimi e irregolari” che, con il tempo, diventano classici. Eugenio
Riccòmini e il bisogno di ordine riscontrabile in parte della pittura (Piero
della Francesca)
La Cultura del lovgo"
è volontà di cosmizzare il caos, tentativo di imporre l'ordine al disordine, addomesticare
i mostri. Attraverso gli autori greci e latini i giovani capiranno "quanta
delicatezza d'animo sia necessaria per essere un Perseo, vincitore di
mostri"[1],
e forse la acquisiranno.
La prima delle Lezioni
americane[2] di Calvino si intitola Leggerezza
e segnala un atto di delicatezza da parte di Perseo nelle Metamorfosi di
Ovidio: il figlio di Danae, dopo avere ucciso la Gorgone anguicrinita, ne
appoggia la testa al suolo ma, usandole un premuroso riguardo, ammorbidisce la
terra con foglie e stende verghe nate nel mare: "anguiferumque caput
durā ne
laedat harenā " (IV,
741), per non sciupare con la sabbia scabra il capo che porta serpenti. "Qui
Ovidio ha dei versi (IV, 740-752) che mi paiono straordinari per spiegare
quanta delicatezza d'animo sia necessaria per essere un Perseo, vincitore di
mostri…Mi sembra che la leggerezza di cui Perseo è l'eroe non potrebbe essere
meglio rappresentata che da questo gesto di rinfrescante gentilezza verso
quell'essere mostruoso e tremendo ma anche in qualche modo deteriorabile e
fragile. Ma la cosa più inaspettata è il miracolo che ne segue: i ramoscelli
marini a contatto con la Medusa
si trasformano in coralli, e le ninfe per adornarsi di coralli accorrono e
avvicinano ramoscelli e alghe alla Medusa"[3]. Insomma la Gorgone non è svanita nel nulla,
ma come canta Ariele in La tempesta di Shakespeare: "Of his
bones are coral made;/Those are pearls that were his eyes: /Nothing of him that
doth fade, /But doth soffer a sea-change/Into something rich and strange
" (The Tempest, I, 2), delle sue ossa si sono formati coralli, sono
perle quelli che furono I suoi occhi, nulla in lui scompare ma subisce un
cambiamento marino in qualche cosa di ricco e strano.
Questa non significa mollezza o acquiescenza, né devozione
alla norma, tutt'altro: " Che i classici rappresentino qualcosa periculosum
maxime è stato splendidamente ricordato da Leopardi: "E' un curioso
andamento degli studi umani, che i geni più sublimi e irregolari, quando hanno
acquistato fama stabile e universale, diventino classici, cioè i loro
scritti entrino nel numero dei libri elementari, e si mettano in mano de'
fanciulli, come i trattati più secchi e regolari delle cognizioni esatte"[5].
Del bisogno di ordine, innato in molti di noi umani, scrive
Eugenio Riccòmini in un suo libro recente. Secondo lo storico dell’arte
bolognese, in una parte della pittura, quella improntata all’ordine, “regna
sovrana la geometria”, una constatazione che ci fa piacere e rassicura “perché
quell’ordine ci conferma che la nostra ragione sa vincere l’apparente caoticità
della natura. Ci pare, così, di essere a lei superiori. E’ di questo genere, mi
sembra, il piacere che s’avverte guardando un dipinto anche notissimo, come
questo di Piero della Francesca[6].
Dovrebbe essere una scena di violenza, di dolore e d’urla. Ma tutti stanno
zitti, e immobili. Nessuno pensa a flagellare nessuno. Il Cristo pensa solo a
gareggiare, in polita tornitura di statua, con la bellissima e candida colonna
cui neppure appare legato; e con la statua antica che la sormonta. Le figure, si
direbbe, non recitano alcuna storia: servono a scandire con precisione lo
spazio, come i cassettoni del soffitto, come i riquadri del pavimento;
scacchiera, ancora, su cui si posano pedine, avvolte di luce candida, senz’alito
di vento”[7].
La
confusione è la quintessenza del male e piace ai malvagi. Solone: la ricchezza
dei prepotenti non arriva con ordine. Aristofane e Cleone mescola-fango. Seneca
(Medea). Eschilo (Persiani). Erodoto: il discorso di
Temistocle dopo Salamina. Bettini: incesto, arcobaleno, enigma e peste. Gogol’:
la prima cosa è confondere dice un farabutto in Anime morte. Shakespeare e Marx sul denaro che provoca confusione
universale
La quintessenza di molti mali è
spesso il disordine che provoca confusione: Solone nell’ Elegia alle Muse ditingue due tipi di plou'to": “La ricchezza che danno gli dèi, è solida/per
l'uomo dall'ultimo fondo alla cima;/ quella cui vanno dietro gli uomini spinti
dalla prepotenza, non arriva/con ordine (ouj
kata; kovsmon-e[rcetai), ma siccome obbedisce alle azioni ingiuste, /segue
di malavoglia, e presto vi si mescola l'accecamento” (fr. 13 W. vv. 9-13).
Nei Cavalieri (424 a. C) di Aristofane Cleone-Paflagone è chiamato “borborotavraxi” (v. 307), il
mescola-fango; egli si comporta come i pescatori di anguille, i quali le
acchiappano, solo se mettono sottosopra il fango: “kai; su; lambavnei", h]n th;n povlin taravtth/" (v.
867), anche tu arraffi, se scompigli la città, gli fa il salsicciaio.
Quello della confusione è un tema
ricorrente nella Medea di Seneca. La navigazione ha unito, confondendo, parti
che doveva restare separate e distinte. Così si sono guastati i candida…saecula
(Medea, 329) dei padri. "Bene dissaepti foedera mundi/ traxit in
unum Thessala pinus, /iussitque pati verbera pontum/partemque metus fieri
nostri/mare sepositum" (Medea,
vv. 335-339), la nave tessala unificò le parti del cosmo ben separate da un
recinto di leggi, e ordinò che il ponto patisse le frustate dei remi; e che il
mare lontano divenisse parte della nostra paura.
Il rischio è quello del ritorno al magma
indifferenziato del caos. Infatti “il pretium huius cursus [8],
il risultato del caos cosmico provocato dalla prima nave è Medea, emblema del
caos etico "[9].
Il mondo pervius ha aperto la via alla "confusion delle
persone"[10]
E' la stessa u{bri"
di Serse il quale, lo abbiamo già ricordato (cap. 27), tentò di trattenere con
vincoli la sacra corrente dell'Ellesponto e di unificare ciò che deve restare
diviso (Eschilo, Persiani, vv. 745-750).
Questo discorso viene richiamato, nelle
Storie di Erodoto, da Temistocle il quale, dopo la vittoria sui Persiani,
afferma: "Poiché questa impresa non l'abbiamo compiuta noi, ma gli dèi e
gli eroi i quali non permisero che un uomo solo, per giunta empio e temerario, regnasse
sull'Asia e sull'Europa, uno che teneva in egual conto le cose sacre e profane,
incendiando e abbattendo i simulacri degli dèi, uno che fece frustare e
incatenare anche il mare" (VIII, 109) [11].
Un atto disperato compiuto nel buio e nella confusione da chi voleva
congiungere entità che non possono esserlo (sunavyai
ajduvnata[12]): culture, abitudini, norme, di popoli
diversi, o anche soltanto i caratteri di due persone incompatibili.
M. Bettini
in un suo articolo su "Dioniso" indica delle analogie tra l'incesto, l'arcobaleno,
l'enigma e la peste. Sono intrecci, tutti presenti nell'Oedipus, i
quali mescolano e confondono entità diverse, ruoli che dovrebbero rimanere
divisi: "Effetto della malattia è appunto quello di confondere, di
identificare quello che altrimenti dovrebbe restare diviso. Non c'è più
distinzione di età o di sesso: i giovani muoiono contemporaneamente ai vecchi, i
figli contemporaneamente ai padri. Nella descrizione della peste, Seneca sembra
dunque applicare lo stesso principio codificato altrove da Aristotele per
l'enigma: sunavyai ajduvnata. Come
l'incesto ovviamente, come l'arcobaleno"[13].
Nelle Anime morte di Gogol’ (1842) un
farabutto suggerisce di confondere le idee per rendere impossibile il compito
di fare giustizia: “Confondere, confondere: e nient’altro…introdurre nel caso
nuovi elementi estranei, che coinvolgano altri, complicare e nient’altro. E che
si raccapezzi pure il funzionario pietroburghese incaricato. Che si
raccapezzi…Mi creda, appena la situazione diventa critica, la prima cosa è
confondere. Si può confondere, aggrovigliare tutto così bene che nessuno ci
capirà nulla” (p. 375).
Ancora a proposito di confusione, C. Marx, commenta
Shakespeare[14]
scrivendo che nel denaro il grande drammaturgo inglese rileva: "la
divinità visibile, la trasformazione di tutte le caratteristiche umane e
naturali nel loro contrario, la confusione universale e l'universale
rovesciamento delle cose"[15].
Il Caos non viene mai
vinto del tutto. La nascita della
tragedia: il barbarico primitivo, l’apollineo, il dionisiaco che trasforma
in fenomeno d’arte la negazione del principium
individuationis, e la tragedia attica che è insieme Antigone e Cassandra. I
quattro grandi periodi artistici. Morin. Eraclito. La lotta dell’ordine contro
il caos è il tema di tutta la cultura greca arcaica e classica. Hesse e Hillman:
una vita nobile ed elevata combatte Demoni, Giganti e Titani, gli eterni nemici
della cultura. Senofane, la Yourcenar. Il lato della pittura rivolto al “caos
avido di confondere innumerevoli mondi” [16]. Riccòmini: Tiziano come maestro di una
“godibile casualità”. Freud: l’Io il Super-io e il caotico l’Es. Zarathustra: solo
il caos può partorire una stella danzante. Fromm. Victor di Guido Croci. L’istinto non va eliminato né penalizzato, ma
indirizzato. Pasolini: l’irrazionale non può né deve essere eliminato; le
Erinni devono diventare Eumenidi; bisogna trasformare le maledizioni in
benedizioni. Oreste nelle Coefore: voi
non le vedete, ma io le vedo. Eliot: Sweeny
agonista e Riunione di famiglia. Nerone,
tormentato dalle Furie, recitava a teatro la parte di Oreste: il matricida
assolto. D’Annunzio e l’uomo moderno come centauro storpio e mutilato. Ancora
Freud, Bernardin De Saint-Pierre T. Mann. Dodds: the ‘moral’ of the Bacchae is that we ignore
at our peril the demand of the human spirit for Dionysiac experience. W.
Golding. L’amore per la terra. Di nuovo lo Zarathustra di Nietzsche e Alioscia
Karamazov che bacia la terra. La cura di Anteo in T. Mann
Il caos non viene mai vinto del tutto e torna, periodicamente,
a sostenere una lotta incessante con l'ordine: dura eterna questa dialettica
tra i vari aspetti della storia cosmica e umana che possono essere, almeno in
parte, identificati in questa maniera: il caos con il barbarico primitivo “orribile
miscuglio di voluttà e crudeltà”[17]
generatore della sapienza silenica; il cosmo con l'apollineo; e infine, un caos
estetizzato, divenuto fenomeno artistico, con il dionisiaco[18].
Sentiamo Nietzsche: "Fino
a questo punto è stato svolto ciò che avevo notato al principio di questa
trattazione, ossia come il dionisiaco e l'apollineo, con creazioni sempre nuove
e successive, e rafforzandosi a vicenda, dominarono la natura ellenica; come
dall'età "del bronzo", con le sue titanomachie e la sua aspra
filosofia popolare, si sviluppò, sotto il dominio dell'istinto di bellezza
apollineo, il mondo omerico; come questa magnificenza "ingenua" venne
di nuovo inghiottita dal fiume irrompente del dionisiaco, e come di fronte a
questa nuova potenza l'apollineo si elevò alla rigida maestà dell'arte dorica e
della visione dorica del mondo. Se in questa maniera la storia greca antica si
suddivide, nella lotta di quei due princìpi avversi, in quattro grandi periodi
artistici, siamo ora spinti a ricercare inoltre il disegno supremo di questo
divenire e di questo operare, nel caso in cui il periodo raggiunto da ultimo, quello
dell'arte dorica, non debba essere da noi considerato come il vertice e il fine
di quegli impulsi artistici: e qui si offre ai nostri sguardi l'opera d'arte
sublime e celebrata della tragedia attica e del ditirambo drammatico, come
la meta comune dei due istinti, il cui misterioso connubio si è glorificato, dopo
una lunga lotta precedente, in una tale creatura-che è insieme Antigone e
Cassandra"[19].
I quattro grandi periodi artistici potrebbero essere quello dell’epica omerica,
del ditirambo, dell’arte dorica e della tragedia attica che li comprende tutti.
Tale sintesi non si trova solo nella tragedia greca: "In
effetti, il regno del paradigma d'ordine con esclusione del disordine (che
esprimeva la concezione deterministica-meccanicistica dell'Universo) si è
crepato in molti punti. In differenti domìni, la nozione d'ordine e la nozione
di disordine chiedono sempre più insistentemente, malgrado le difficoltà
logiche, di essere concepite in modo complementare e non più soltanto
antagonista: il legame è apparso sul piano teorico nell'opera di von Neuman (teoria
degli atomi autoriproduttori) e di von Foerster (order from noise) e poi
si è imposto nella termodinamica di Prigogine, mostrando che fenomeni di
organizzazione appaiono in condizione di turbolenza; si introduce sotto il nome
di caos in meteorologia, e l'idea di caos organizzatore è divenuta fisicamente
centrale a partire dai lavori e dalle riflessioni di David Ruelle. Così da
differenti orizzonti arriva l'idea che ordine, disordine e organizzazione devono
essere pensati insieme. La missione della scienza non è più di scacciare il
disordine dalle sue teorie, ma di prenderlo in considerazione"[20].
Già Eraclito aveva visto che una bellissima armonia deriva dai contrari: "
ejk tw'n diaferovntwn kallivsthn aJrmonivan"
[21].
La lotta dell’ordine contro il caos è il tema di tutta la
cultura greca arcaica e classica: non solo di quella letteraria, ma pure
dell'arte figurativa: le sculture del maestro di Olimpia con la lotta tra
Centauri e Lapiti del frontone occidentale del tempio di Zeus; le metope del
Partenone con centauromachia, amazzonomachia, gigantomachia, ora in gran parte
nel British Museum di Londra;
la gigantomachia, fregio dell'altare di Pergamo[22]
che ora si trova a Berlino, esprimono la stessa idea. Infatti "non
esiste…una vita nobile ed elevata senza la conoscenza dei diavoli e dei demoni
e senza la continua battaglia contro di essi"[23],
contro "giganti e titani, miticamente, gli eterni nemici della
cultura"[24].
Tanto ostili alla civiltà che Senofane[25]
di Colofone sostiene che nei simposi degli uomini sereni "non si devono
narrare le lotte di Titani e Giganti, e nemmeno di Centauri, fantasie delle
generazioni precedenti, o guerre civili violente"[26].
i Titani (Tita'ne"),
i giganti figli di Urano e Gea, sono tesi e ostinati nella loro tracotanza che
viene punita come quella dei tiranni. Una bella pagina sui Titani vinti si
trova nelle Memorie di Adriano: “
Avevo letto in Plutarco una leggenda di naviganti, riguardante un'isola situata
in quei mari prossimi al Mare Tenebroso; da secoli gli dèi vittoriosi
dell'Olimpo vi avrebbero relegato i Titani vinti. Quei grandi prigionieri delle
rocce e delle onde, eternamente flagellati dall'Oceano insonne, votati
anch'essi a un'insonnia perenne, ma intenti senza posa a sognare, continuerebbero
a opporre all'ordine olimpico la loro violenza, la loro angoscia, il loro
desiderio perennemente frustrato”[27].
Sandro Taurisani, "Il chaos n.01" |
Freud impiega il termine caos per spiegare che cosa sia l’Es:
“A parte il nuovo nome, non aspettatevi che abbia da comunicarvi molto di nuovo
sull’Es. E’ la parte oscura, inaccessibile della nostra personalità; il poco
che ne sappiamo, l’abbiamo appreso dallo studio del lavoro onirico e della
formazione dei sintomi nevrotici…All’Es ci avviciniamo per paragoni: lo
chiamiamo un caos, un crogiuolo di eccitamenti ribollenti…Attraverso le
pulsioni, l’Es si riempie di energia, ma non possiede un’organizzazione, non
esprime una volontà unitaria, ma solo lo sforzo di ottenere soddisfacimento per
i bisogni pulsionali nell’osservanza del principio di piacere. Le leggi del
pensiero logico non valgono per i processi dell’Es, soprattutto non vale il
principio di contraddizione. Impulsi contrari sussistono uno accanto all’altro,
senza annullarsi o diminuirsi a vicenda…Com’è ovvio, l’Es non conosce né
giudizi di valore, né il bene e il male, né la moralità…l’Io è il paladino, nella
vita psichica, della ragione e dell’avvedutezza, l’Es rappresenta invece le
passioni sfrenate…Il rapporto dell’Io con l’Es potrebbe essere paragonato a
quello del cavaliere con il suo cavallo. Il cavallo dà l’energia per la
locomozione, il cavaliere ha il privilegio di determinare la meta, di dirigere
il movimento del poderoso animale. Ma tra l’Io e l’Es si verifica troppo spesso
il caso, per nulla ideale, che il cavaliere si limiti a guidare il destriero là
dove quello ha scelto di andare…Un proverbio ammonisce di non servire
contemporaneamente due padroni. Il povero Io ha la vita ancora più dura: è
costretto a servire tre severissimi padroni…I tre tiranni sono: il mondo
esterno, il Super-io e l’Es ”[33].
Il Super-io è il giudice dell’Io derivato dai genitori e da altre autorità, comprese
le istanze e le norme della civiltà: “chiamiamo questa istanza Super-io, e la avvertiamo nella sua
funzione giudicante, come la nostra coscienza
morale. Rimane notevole il fatto che il Super-io dimostra spesso una severità
di cui i veri genitori non hanno dato prova; ed è notevole anche un altro fatto,
che il Super-io chiama l’Io in giudizio non soltanto per le azioni
effettivamente compiute, ma anche per i pensieri e gli intenti irrealizzati che
a quanto pare il Super-io conosce. Ci vien fatto notare che anche l’eroe della
leggenda edipica si sente colpevole e si assoggetta a un’autopunizione a causa
della sua impresa, benché, in base al nostro giudizio, così come al suo, la
costrizione dell’oracolo avrebbe dovuto mandarlo assolto da ogni colpa…possiamo
affermare che il mondo esterno (nel quale il singolo individuo si troverà
esposto dopo essersi staccato dai genitori) rappresenta il potere del presente;
il suo Es, con le tendenze ereditate che gli sono proprie, il passato organico;
e il Super-io (sopraggiunto più tardi), essenzialmente la civiltà trascorsa, che
il bambino è costretto in un certo senso a ricapitolare nei pochi anni della
sua prima età”[34].
Allora: l’Es spinge l’Io alla soddisfazione delle pulsioni, la realtà spesso lo
respinge, il Super-io lo limita. L’Io dunque “viene osservato passo per passo
dal severo Super-io, che, senza tener conto delle difficoltà provenienti
dall’Es e dal mondo esterno, esige l’ottemperanza a determinate norme di
comportamento, e punisce l’Io, in caso di inadempienza, con spasmodici
sentimenti di inferiorità e di colpa. Aizzato così dall’Es, limitato dal
Super-io, respinto dalla realtà, l’Io lotta per venire a capo del suo compito
economico di stabilire l’armonia tra le forze e gli influssi che agiscono in
lui e su di lui; e si comprende perché tanto spesso non riusciamo a reprimere
l’esclamazione: “La vita non è facile!”. Se è costretto ad ammettere le sue
debolezze, l’Io prorompe in angoscia: angoscia reale dinanzi al mondo esterno, angoscia
morale dinanzi al Super-io, angoscia nevrotica dinanzi alla forza delle
passioni dell’Es”[35].
Tiriamo quindi le
conclusioni: l’intenzione degli sforzi terapeutici è quella “in definitiva di
rafforzare l’Io, di renderlo più indipendente dal Super-io, di ampliare il suo
campo percettivo e perfezionare la sua organizzazione, così che possa
annettersi nuove zone dell’Es. Dove era l’Es, deve subentrare l’Io. E’ un’opera
di civiltà, come ad esempio il prosciugamento dello Zuiderzee”[36].
Tuttavia: “Io vi dico: bisogna avere ancora un caos dentro
di sé per partorire una stella danzante”[37].
“Coloro che mostrano una propensione esagerata all’ordine, di
solito hanno paura della vita”[38].
“Nella società un certo grado di caos e di sregolatezza è
ineluttabile, un certo tasso di devianza e di follia degli uomini inevitabile. Le
“forze dell’ordine”, la cui definizione non va sottovalutata né demonizzata, poiché
è ricca di significati anche filosofici, le forze dell’ordine sono, in questo
senso, al servizio del cittadino, assunto idealtipicamente, come persona che si
comporta in modo regolare, normale, razionale. Tutto, appunto, regolare, non c’è che dire, e sensato: la
società si deve pur difendere in qualche modo. Solo che ho la sensazione che
tutto ciò sia parte di una gigantesca finzione, il risultato d’un copione
universale, perché soltanto apparentemente il mondo è dominato dalla
razionalità, dalla regolarità, dalla normalità. Il mondo, al contrario, è tutto
fuorché quello-normale, regolare, razionale-e presumere che sia così mi sembra
più un atto di fede che una realtà incontestabile”[39].
Se non è possibile, e neanche opportuno, eliminare il disordine, esso
comunque va reso quanto meno non deleterio. Le turbolenze dell'istinto insomma
devono essere superate moralmente, e indirizzate esteticamente, non soltanto
represse.
Alla fine dell’Orestea
di Eschilo le Erinni sopravvivono come Eumenidi: “ Dopo l’intervento razionale
di Atena, le Erinni-forze scatenate, arcaiche, istintive, della natura-sopravvivono:
e sono dee, sono immortali. Non si possono eliminare, non si possono uccidere. Si
devono trasformare, lasciando intatta la loro sostanziale irrazionalità: mutarle
cioè da “Maledizioni” in “Benedizioni”. I marxisti italiani non si sono posti, ripeto,
questo problema”[40].
La visione orrenda delle Erinni spunta davanti agli occhi di Oreste
nelle Coefore, quando l'assassino della madre le vede quali
donne "simili a Gorgoni/dalle nere tuniche e intrecciate/di fitti
draghi" (vv. 1048-1050). Tali mostri sono"le rabide cagne della
madre" (v1054) che appaiono soltanto al matricida: " uJmei'~ me;n oujc
oJra'te tavsd j, ejgw; d ‘ oJrw'”, voi non le vedete queste, ma io le
vedo" (1061). Le Furie lo incalzano: “ejlauvnomai de; koujkevt j a]n meivnaim j ejgwv” (v. 1062),
sono sospinto e non posso più restare io.
T. S. Eliot pone questi versi quale epigrafe di Sweeny
agonista (1930),: " You don’t see them, you don’t-
But I see them: they are hunting me down, I must move
on”.
Nel dramma La Riunione di famiglia (1939) Eliot mostra come tali visioni siano un privilegio.
Secondo l'autore di The waste
land bisogna seguire le Erinni come segni mandati da un altro mondo, non
cercare invano di evitarle con un'impossibile fuga in quella "deriva
infinita di forme urlanti in un deserto circolare" che è la storia umana. Quelli
che vedono le Erinni insomma, sono monocoli in una terra di ciechi.
Non sempre del resto c’è
redenzione dopo un delitto del genere: Nerone, dopo avere ammazzato Agrippina (59
d. C.) sebbene rassicurato dalle congratulazioni dei soldati, del Senato e del
popolo: “neque tamen conscientiam
sceleris…aut statim aut umquam ferre potuit, saepe confessus exagitari se
materna specie verberibusque Furiarum ac taedis ardentibus” (Svetonio, Neronis vita, 34), tuttavia non poté
subito né poi sopportare il rimorso del delitto, e spesso confessò di essere
tormentato dalla visione della madre e dalle fruste e dalle fiaccole ardenti
delle Furie.
Tuttavia l’imperatore recitava la
parte di Oreste a teatro, probabilmente per risalire all’archetipo mitico del
suo orribile delitto, e per il fatto che Oreste era stato assolto.
Da una parte è vero che l'uomo moderno "non è se non un
centauro storpio e mutilato il quale ricostituisce il mito primitivo
riconnettendo indissolubilmente il suo genio all'energia atroce della
natura"[41].
Né è falso quanto afferma Bernardin De Saint-Pierre che noi Europei sin
dall'infanzia abbiamo "la mente piena di pregiudizi contrari alla
felicità" e non possiamo più comprendere "quanti lumi e piaceri possa
dare la natura"[42].
Freud afferma che le conquiste della civiltà sono avvenute a
spese della sessualità: “Le pretese pulsionali alle quali non è stato concesso
un soddisfacimento diretto sono costrette a imboccare altre strade che portano
a soddisfacimenti sostitutivi, e mentre percorrono queste vie traverse tali
pretese possono desessualizzarsi e può allentarsi il loro collegamento con le
mete pulsionali originarie. Anticipiamo con ciò l’asserzione che molte cose
appartenenti a quello che riteniamo essere il nostro più prezioso patrimonio di
civiltà sono state acquisite a spese della sessualità, mediante restrizione di
forze motrici di natura sessuale”[43].
Del resto la componente istintiva, prima repressa, poi
scatenata verso distruzione, mai applicata all'incremento della vita, porta
Gustav Aschenbach alla morte, preannunciata da una fantasia onirica memore dei
riti orgiastici delle Baccanti: " Al ritmo dei timpani si squassava
il suo cuore, il cervello vorticava; ira accecamento, stordimento voluttuoso
invadevano la sua anima, smaniosa di accordarsi al tripudio del dio. Ed ecco, enorme,
ligneo, scoprirsi e innalzarsi l'osceno simbolo; a quella vista tra sfrenati
clamori, tutti gridarono la formula rituale e con la schiuma alle labbra si
precipitarono in un'orgia pazzesca. Ridenti, singhiozzanti, si eccitavano a
vicenda con gesti sconci e carezze lubriche, e si cacciavano l'un l'altro i
pungoli nelle carni, leccando il sangue che colava sulle membra"[44].
A questo
proposito sentiamo Dodds: “As the “moral”
of the Hippolytus is that sex is a thing about which you cannot afford to make
mistakes, so the ‘moral’ of the Bacchae is that we ignore at our peril the
demand of the human spirit for Dionysiac experience. For those who do not close
their minds against it such experience can be a deep source of spiritual power
and eujdaimoniva. But those who repress the demand in themselves or refuse their
satisfaction to others transform it by their act into a power of disintegration
and destruction, a blind natural force that sweeps away the innocent with the
guilty. When that has happened, it is too late to reason or to plead: in
man’ s justice there is room for pity, but there is none in the justice of
Nature”[45],
come la ‘morale’ dell’Ippolito è che
il sesso è una cosa sulla quale non ci si può permettere di fare errori, così
la ‘morale’ delle Baccanti è che noi
ignoriamo a nostro pericolo l’esigenza dello spirito umano di esperienza
dionisiaca. Per quelli che non le oppongono una barriera mentale, tale
esperienza può essere una sorgente profonda di potenza spirituale e di felicità.
Ma quelli che reprimono l’esigenza in se stessi o ne rifiutano l’appagamento in
altri, la trasformano con il loro atto in una potenza che disintegra e
distrugge, una forza cieca e naturale che spazza via l’innocente con il
colpevole. Quando questo è accaduto, è troppo tardi per ragionare o perorare: nella
giustizia dell’uomo c’è spazio per la pietà, ma non ce n’è nella giustizia di
Natura.
L’istinto represso causa danni, e così pure l’istinto
sfrenato.
Il collega Pierpaolo Fornaro ha suggerito Il signore
delle mosche[46]
di W. Golding come testo indicativo di quali possano essere i danni provocati
dall'istinto sfrenato dei giovani. Non tutti gli effetti della civilizzazione
sono deleteri, per certi versi può esserlo più la Cultura, se essa, come
afferma T. Mann alla vigilia della prima guerra mondiale, "può comprendere
l'oracolo, la magia, il cannibalismo, culti orgiastici, inquisizione, autodafé,
ballo di S. Vito, processi di streghe, fiorir di venefici e delle più varie
atrocità"[47].
In ogni caso non si deve mai
perdere l’amore per la vita terrena e per la stessa terra: “ Bleibt mir der Erde treu, meine Brüder, mit
der Macht euer Tugend! Restatemi fedeli, fratelli miei, alla terra con
tutta la forza della vostra virtù! Il vostro amore, che tutto dona, e la vostra
conoscenza servano il senso della terra”.
Così parla Zarathustra…Bacia la terra e amala incessantemente, insaziabilmente-dice
lo starets Zosima-cerca questa estasi e questa esaltazione. Bagna la terra con
le lacrime della tua gioia e ama queste tue lacrime”[48].
“Di fronte a ogni realtà naturale
Confucio dice sempre di sì”[49].
Zosima muore baciando la terra: “si
lasciò scivolare dolcemente dalla poltrona sul pavimento, e inginocchiandosi, si
chinò col viso fino a toccar terra, si prosternò, allargò le braccia in croce;
e come invaso dall’estasi, baciando la terra e pregando (come appunto aveva
insegnato a fare), serenamente e gioiosamente rese l’anima a Dio”[50].
Alioscia segue l’esempio del maestro: “Una notte fresca e calma fino
all’immobilità avvolse la terra…Alioscia rimase a guardare per un momento
quello spettacolo, poi, ad un tratto, si gettò con la faccia a terra come se
l’avessero falciato. Egli non sapeva perché l’abbracciasse, non si rendeva
conto della ragione per cui gli fosse venuta quella terribile voglia di
baciarla, di baciarla tutta; ma egli la baciava piangendo, singhiozzando, inondandola
delle sue lacrime, e giurando, in uno slancio impetuoso, di amarla, di amarla
eternamente. “Inonda la terra delle tue lacrime di gioia, e amale, codeste tue
lacrime…”, disse una voce nella sua anima”[51].
Si pensi alla “cura di Anteo”, un
gigante
libico che uccideva i viandanti e acquisiva forza dal contatto con sua madre, che
poi è la madre di tutti, la Terra. Ercole dovette sollevarlo dal suolo e
togliergli il contatto con la madre per strozzarlo: "La civilizzazione e
l'intellettualità son belle cose, son grandi cose, non vogliamo certo negarlo. Ma
senza quella che noi un giorno definiremo la compensazione di Anteo, sono
rovinose per l'uomo e creano la malattia"[52].
[1]I. Calvino, Lezioni americane, p. 10.
[2]
Tenute nel 1985-1986 e pubblicate
postume nel 1988.
[3]
I. Calvino, Lezioni americane, p. 10.
[4] Fa parte di un frammento
di Saffo (58 Voigt) trasmesso dal Papiro di Ossirinco 1787.
[5] M. Cacciari, in Di fronte ai
classici, p. 23; Leopardi, Zibaldone, 307.
[6]
L’autore rimanda a una riproduzione di La
flagellazione di Cristo del 1455. Si trova a Urbino, nella Galleria
Nazionale delle Marche.
[7]
E, Riccòmini, A caccia di farfalle, p.
35.
[8]
Cfr. Medea di Seneca, vv. 360-361 (n.
d. r.)
[9]G.
Biondi, Il mito argonautico nella Medea. Lo stile 'filosofico' del
drammatico Seneca, "Dioniso" 1981, p. 428-429 e 435. G. Biondi, ibid.,
p. 435.
[10] “Sempre la confusion delle persone/principio fu del
mal della cittade” (Paradiso, XVI, 67-68).
[11]
Proust ricorda questo episodio in La prigioniera e lo applica al suo
sermo amatorius: " Eppure, non mi rendevo conto che già da un pezzo avrei
dovuto staccarmi da Albertine, giacché era entrata per me in quel periodo
miserando nel quale un essere disseminato nel tempo e nello spazio non è più
per noi una donna, ma una serie di eventi sui quali non possiamo far nessuna
luce, una serie di problemi insolubili, un mare che, come Serse, cerchiamo
inutilmente di fustigare per punirlo di tutto quello che ha ingoiato” (p. 103).
[12]
Cfr. Aristotele, Poetica 1458a.
[13]
M. Bettini, L'arcobaleno, l'incesto e l'enigma a proposito dell'Oedipus di
Seneca, "Dioniso", 1983, p. 148.
[14]
Il quale nel Timone d'Atene chiama l'oro "comune
bagascia del genere umano"; l'universale mezzana che "profuma e
imbalsama come un dì di Aprile quello che un ospedale di ulcerosi respingerebbe
con nausea" (IV, 3)
[15]
Manoscritti
economico-filosofici del 1844, p. 154.
[16]
Cfr. Lucano, Pharsalia, VI, 696.
[17]
F. Nietzsche, La nascita della tragedia,
p. 28.
[18]
Per l’apollineo e il dionisiaco cfr. cap. 27.
[19] F. Nietzsche, La nascita
della tragedia, p. 39.
[20] E. Morin, La testa ben fatta,
p. 122.
[21] Fr. 24 Diano.
[22]
180-160 a. C.
[23]
H. Hesse, Il giuoco delle perle di vetro, p. 293.
[24]
J. Hillman, L'anima del mondo e il pensiero del cuore, p. 144.
[25]
VI-V sec. a. C.
[26]
Questi versi (21-23) fanno parte di un'elegia citata da Ateneo, II-III sec. d. C.,
Sofisti a banchetto, XI 462c.
[27]M.
Yourcenar, Memorie di Adriano, p. 130.
[28]
Tiziano, La punizione di Marsia, ca
1570. Kromeriz, Museo Nazionale. Il quadro è riprodotto a p. 89 (fig. 26) di A caccia di farfalle (ndr).
[29]
Tiziano è nato nel 1490 ca a Pieve di Cadore ed è morto a Venezia nel 1576 (ndr).
[30]
Figura 27, p. 90.
[31]
E. Riccomini, A caccia di farfalle, pp.
38-39.
[32]
Lucano, Pharsalia, VI, 696.
[33]
S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi, (del 1932) in Sigmund
Freud, Opere, 1930-1938, pp. 185- 186.
[34]
S. Freud, Compendio di psicoanalisi, (del
1938), in Sigmund Freud, Opere, 1930-1938, pp. 632-633.
[35]
S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi, in Sigmund Freud, Opere, 1930-1938,
p. 188-189.
[36]
S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi, in Sigmund Freud, Opere, 1930-1938,
p. 190.
[37]
F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra,
p. 11.
[38]
E. Fromm, L’amore per la vita, p. 75.
[39]
Guido Croci, Victor, p. 181.
[40]
P. P. Pasolini, Le belle bandiere, p.
54.
[41]
G. D'Annunzio, Faville del maglio, La resurrezione del centauro (1907).
[42]
Paul e Virginie (del 1788), p, 135.
[43]
S. Freud, Compendio di psicoanalisi, in
Sigmund Freud, Opere, 1930-1938, p. 628.
[44]
T. Mann, La morte a Venezia (del 1913) p. 139.
[45]
Euripides Bacchae, p. xlv.
[46]
Del 1954.
[47]
Traggo la citazione, di seconda mano, da A. Camera R. Fabietti Storia
vol. III, p. 194.
[48]
D. Merezkovskij, Tolstòj e Dostoevskij., p. 366.
[49]
K. Jaspers, I grandi filosofi, p. 255.
[50]
F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov,
p. 407.
[51]
F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov,
p. 451.
[52] T. Mann. Carlotta a Weimar, p. 403.
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