Don Lorenzo Milani |
Torniamo alla
supremazia della parola. Don Lorenzo Milani, Isocrate (Nicocle), il Vangelo di Giovanni. Di nuovo il Nicocle di Isocrate. La traduzione: Leopardi, che ha tradotto
Isocrate, riflette sulla traduzione perfetta. Cicerone sconsiglia quella letterale
Dopo il magister dell'Ars Amatoria, e gli altri maestri più o meno pagani, sentiamo un
prete, un prete cristiano sublime: Don Milani insegnava che "bisogna
sfiorare tutte le materie un po' alla meglio per arricchirsi la parola. Essere
dilettanti in tutto e specialisti nell'arte della parola"[1].
Viene in mente un accostamento, seppure un poco paradossale,
con Isocrate, lo strapagato principe della retorica nell'Atene del IV secolo e
l'educatore dei prìncipi: egli afferma che nelle altre facoltà che abbiamo non
ci differenziamo per niente dagli animali, anzi ci troviamo ad essere inferiori
a molti per la velocità, e la forza e per altre risorse. Quindi arriva alla
celebrazione quasi religiosa della parola, senza la quale non ci sarebbe
umanità né civiltà: " ejggenomevnou dj
hJmi'n tou' peivqein ajllhvlou~ kai;
dhlou'n pro;~ hJma'~ aujtou;~ peri; w|n a]n boulhqw'men, ouj movnon tou'
qhriwdw'~ zh'n ajphllavghmen, ajlla; kai; sunelqovnte~ povlei~ w/jkivsamen kai;
novmou~ ejqevmeqa kai; tevcna~ eu{romen, kai; scedo;n a{panta ta; di j hJmw'n
memhcanhmevna lovgo" hJmi'n ejstin oJ sugkataskeuavsa" "
(Nicocle[2],
6), ma siccome è connaturata in noi la capacità di persuaderci a vicenda e di
rendere chiaro a noi stessi quello che vogliamo, non solo ci siamo allontanati
dalla vita selvaggia, ma ci siamo riuniti, abbiamo fondato città, dato leggi e
inventato arti, e quasi tutto quanto è stato costruito da noi è stata la parola
a organizzarlo.
La parola dunque è creatrice e civilizzatrice.
Il prologo del Vangelo di Giovanni estende questa
considerazione a termini cosmici " jEn
ajrch'/ h\n oJ lovgo", kai; oJ lovgo~ h\n pro;" to;n qeovn, kai;
qeo;" h\n oJ lovgo". ou|to" h\n ejn ajrch'/ pro;" to;n
qeovn. pavnta di' aujtou' ejgevneto,
kai; cwri;" aujtou' ejgevneto oujdevn. In principio erat Verbum, et Verbum erat apud Deum
et Deus erat Verbum. Hoc erat in principio apud Deum. Omnia per ipsum
facta sunt, et sine ipso factum est nihil (1, 1-3), in principio c'era la
Parola e la Parola era con Dio e la Parola era Dio. Questa era in principio con
Dio. Tutto fu fatto tramite lei e senza lei nulla fu fatto.
Quindi il verbo si fece carne: "kai; oJ lovgo" savrx ejgevneto" (14). Io collego
questa affermazione, del tutto arbitrariamente, alla facundia persuasiva
che attira gli ascoltatori, massime le donne, poiché è in corpo di donna che il
verbo si fa carne.
Rprendiamo in mano
Isocrate per sottolineare il valore anche etico del lovgo" inteso come parola e come pensiero: "to; ga;r levgein wJ" dei' tou' fronei'n eu\
mevgiston shmei'on poiouvmeqa, kai; lovgo" ajlhqh;" kai;
novmimo" kai; divkaio" yuch'" ajgaqh'" kai; pisth'"
ei[dwlovn ejstin" (Nicocle, 7) il parlare come si deve lo
consideriamo segno massimo del saper pensare, e un discorso veritiero, legittimo
e giusto è l'immagine di un'anima buona e leale. Anche queste parole
celebrative del logos, tornano, come espressioni liturgiche, nell’Antidosis (255). Entrambe le orazioni
giungono a una conclusione che indica nella potenza della parola l’unico mezzo
per trasformare il pensiero in prassi: “eij
de; dei' sullhvbdhn peri; th'~ dunavmew~ tauvth~ eijpei'n, oujde;n tw'n
fronivmw~ prattomevnwn eurhvsomen ajlovgw~ gignovmenon, alla; kai; tw'n e[rgwn
kai; tw'n dianohmavtwn aJpavntwn hJgemovna lovgon o[nta, kai; mavlista
crwmevnou~ aujtw'/ tou;~ plei'ston nou'n e[conta~”, se si deve tirare le
somme su questa potenza, troveremo che nulla di quanto è fatto con intelligenza
viene fatto senza la parola, ma che anzi la parola è guida delle azioni e dei
pensieri tutti, e che si avvalgono soprattutto di essa quelli che hanno la più
grande capacità di pensiero[3].
"Sicché il Logos, nel suo doppio significato di parola
e di pensiero, diventa per Isocrate il "symbolon", il
contrassegno della paideusis"[4].
Non solo dell’educazione ma anche della duvnami~
dell’uomo.
Il ragazzo che ha studiato bene, con buoni insegnanti, possiede,
prima di tutto, una facoltà di eloquio superiore a chi non ha fatto studi
altrettanto buoni e ben guidati.
Leopardi ha tradotto,
di Isocrate, il Nicocle, A Demonico, A Nicocle e l’Areopagitico.
Vediamo come ha reso l’ultimo pensiero citato (Nicocle 9): “E a dire di questa facoltà in ristretto, nessuna opera
che si faccia con ragione e senno, si fa senza intervento della favella, governatrice
e regina di tutti gli atti e pensieri dell’uomo; e trovasi che chi più
intendimento ha, più la suole usare”.
Leggiamo anche alcune considerazioni del Recanatese sulla
traduzione perfetta: “La perfezion della traduzione consiste in questo, che
l’autore tradotto, non sia p. e. greco in italiano, greco o francese in tedesco,
ma tale in italiano o in tedesco, quale egli è in greco o in francese. Questo è
il difficile, questo è ciò che non in tutte le lingue è possibile” (Zibaldone, 2134). La lingua italiana la
quale è “piuttosto un aggregato di lingue che una lingua, laddove la francese è
unica”, ha maggiore facoltà rispetto alle altre “di adattarsi alle forme
straniere…Queste considerazioni rispetto alla detta facoltà della nostra lingua,
si accrescono quando si tratta della lingua latina, o della greca. Perché alle
forme di queste lingue, la nostra si adatta anche identicamente, più che
qualunque altra lingua del mondo: e non è maraviglia, avendo lo stesso genio, ed
essendosi sempre conservata figlia vera di dette lingue, non solo per ragioni
di genealogia e di fatto, ma per vera e reale somiglianza e affinità di natura
e di carattere” (Zibaldone, 964 e 965).
“Amava moltissimo l’italiano perché era una lingua
molteplice: come il greco, era un aggregato di molte lingue piuttosto che una
lingua sola, e gli concedeva la libertà di tentare ogni stile. Se ebbe sempre
molte riserve sulla metafisica, la morale e la cosmogonia di Platone, la sua
ammirazione per il Fedro non aveva
limiti. Trovava nello stesso testo “non dico tre stili, ma tre vere lingue”; la
prima nel dialogo tra Socrate e Fedro, la seconda nelle due orazioni di Lisia e
Socrate, la terza nell’orazione di Socrate “in lode dell’amore”[5].
Ma sentiamo Leopardi: “Chi vuole vedere un piccolo esempio
della infinita varietà della lingua greca, e come ella sia innanzi un aggregato
di più lingue che una lingua sola, secondo che ho detto altrove, e vuol vederlo
in uno stesso scrittore e in uno stesso libro; legga il Fedro di Platone. Nel
quale troverà, non dico tre stili, ma tre vere lingue, l’una nelle parole che
compongono il Dialogo tra socrate e Fedro, la quale è la solita e propria di
Platone, l’altra nelle due orazioni contro l’amore, in persona di Lisia e di
Socrate; la terza nell’orazione di questo in lode dell’amore. ” (Zibaldone, 2717)
Cicerone aveva affermato che nel tradurre non è opportuno
attenersi alla lettera, ma si deve piuttosto interpretare l’originale: “Nec tamen exprimi verbum e verbo necesse
erit, ut interpretes indiserti solent ” (De finibus bonorum et malorum III, 15), non sarà del resto
necessario che si traduca parola per parola, come sono soliti i traduttori
stentati. In un passo degli Academica,
Cicerone afferma che i poeti arcaici, Ennio, Pacuvio, e Accio e molti altri
piacciono “qui non verba, sed vim
Graecorum expresserunt poetarum” (III, 10), poiché resero non le parole ma
la forza dei poeti greci.
Il tradurre letteralmente (verbum e verbo exprimere) non esclude il vertere, il ri-creare in una gara con il modello (aemulatio).
Chi non padroneggia la parola è un bambino, o uno stupido (nhvpio~),
o un folle, oppure uno sottoposto alla tirannide. I nhvpioi
di Omero e di Esiodo. Callimaco (Aitia).
La fanciulla giovenca del Prometeo
incatenato. La parola impedita dal tiranno
Nell’Antigone di Sofocle la protagonista eponima rinfaccia a Creonte il
fatto che la sua prepotenza blocca le lingue dei Tebani (v. 505).
Erodoto: Il tiranno non è soggetto
a controlli. Senofonte: talora anche il popolo pretende di non sottostare alla
legge. Polibio e la degenerazione della democrazia. Tacito e la fine di
Cremuzio Cordo, Aruleno Rustico, Erennio Senecione. Il rogo delle loro opere. Pasolini:
il rapporto intellettuali-potere. Il tiranno abolisce la libertà di parola che
non si può dire, né scrivere, né ascoltare. Talora viene tolta perfino la
libertà del silenzio espressivo. Seneca (Oedipus).
Curzio Rufo (Filota). Thomas Kyd (La
tragedia spagnola). Gli auctores
viceversa potenziano la facoltà verbale.
Marco Lodoli: il film La classe (2008).
La parola nhvpio" significa sia “infante” sia “stolto”[6].
Essa è costituita dal prefisso negativo nh-
(simile ad aj-privativo) + la radice ejp- sulla quale si forma e[po", "parola": dunque corrisponde al
latino infans (formato dal prefisso
negativo in- +fans di fari =parlare). Chi
non è capace di parlare è appunto l’infante o lo stupido. Chi non sa parlare è
tentato di esprimersi con la violenza. Nhvpioi sono i compagni di Odisseo i quali, per la loro stupida presunzione, divorarono
i buoi del Sole quindi morirono (Odissea,
1, 8-10).
Mevga
nhvpio~ è l'attardato bambino pargoleggiante (ajtavllwn) dell’età d’argento: tali tipi umani
rimanevano cento anni in casa con la madre solerte, poi, quando ne uscivano, vivevano
per un tempo meschino, soffrendo dolori per la loro stupidità: poiché non
potevano astenersi da un’insolente prepotenza reciproca[7]
(Esiodo, Opere e giorni, vv 130-135).
Invero l'uso egregio della parola è il sapere più alto, il
sapere che avvalora tutti gli altri, e questi, senza tale sapienza suprema, equivalgono
agli zero non preceduti da un numero: "il molto sapere è un grave male, per
chiunque non sia padrone/della lingua (polui>dreivh
calepo;n kakovn, o{sti" ajkartei' -glwvssh"):
è proprio come per un bambino avere un coltello"[8].
Si può pensare agli eruditi che non sanno parlare, oppure ai relatori, politici,
professori che leggono anche le virgole di fogli scritti, forse nemmeno da loro.
La perdita della padronanza della lingua è uno dei sintomi
della pazzia: così nell'ode di Saffo[9]
tradotta da Catullo, così nel Prometeo incatenato[10]
dove la fanciulla-giovenca Io, sentendo avvicinarsi un doloroso accesso di
furore, dice di essere ormai glwvssh"
ajkrathv" (v. 884), non più padrona della sua lingua.
Sappiamo che il tiranno per imporre il proprio arbitrio
taglia, e non solo metaforicamente, le teste[11],
o, quanto meno, inceppa le lingue, come rinfaccia Antigone a Creonte: “Del
resto da dove avrei potuto ottenere una gloria/ più bella e famosa che
componendo mio fratello/nella tomba? Si potrebbe dire che a tutti questi
questo/piace, se la paura non serrasse la lingua (eij mh; glw'ssan ejglhv/oi fovbo"). / Ma la tirannide in
molte altre cose ha successo/e per giunta le è possibile sia dire sia fare ciò
che vuole” (Antigone, vv. 502-507).
Il tiranno è tale poiché esercita un potere che non subisce
controlli. Nelle Storie di Erodoto la
teoria antitirannica è attribuita al nobile persiano Otane il quale, durante il
dibattito costituzionale, contrappone alla monarchia il potere del popolo che
prima di tutto ha il nome più bello: " ijsonomivhn",
poi non fa nulla di quanto perpetra l'autocrate: infatti esercita a sorte le
magistrature ed ha un potere soggetto a controllo: " uJpeuvqunon de; ajrch;n e[cei" (III, 80,
6).
Ma talora pure il dh'mo~ non vuole sottostare alla legge.
Dopo la battaglia delle Arginuse (406 a. C.), il popolo
ateniese, nel quale era stato inoculato l'odio per gli strateghi e il desiderio
dei capri espiatori, gridava che era grave se qualcuno non permetteva al popolo
di fare quanto voleva ("to; de;
plh'qo" ejbova deino;n ei\nai, eij mhv ti" ejavsei to;n dh'mon
pravttein o{ a]n bouvlhtai", Senofonte, Elleniche, I, 7, 12). "E' la rivendicazione che riecheggia
minacciosamente in assemblea ad Atene durante il processo popolare contro i
generali delle Arginuse", ed è "la formula che caratterizza, secondo
Polibio, la degenerazione della
democrazia (VI, 4, 4: " quando il popolo è padrone di fare quello che
vuole"). [12]
“Si produce, con lo sviluppo della democrazia radicale, una svolta inattesa, pur
essa legata ai rapporti di forza. Sorge cioè col tempo, all’interno della città
democratica, una polarità o meglio antinomia tra l’idea della superiorità della
legge (nucleo di partenza della democrazia stessa contro il sopruso di casta) e
l'idea, estrema, che il popolo è esso stesso al di sopra della legge. E' quello
che dicono i capipopolo, minacciosamente, durante la prima fase del processo
dei generali vincitori alle Arginuse: "qui si vuole impedire al popolo di
fare ciò che vuole!" E' il problema che dibattono Alcibiade e Pericle nel
dialogo riportato da Senofonte"[13].
Il tiranno impedisce anche l’espressione scritta. Tacito
negli Annales ricorda gli orrori della tirannide di Tiberio quando i
libri degli oppositori venivano condannati: “Cornelio Cosso Asinio Agrippa
consulibus Cremutius Cordus postulatur novo ac tunc primum audito crimine, quod
editis annalibus laudatoque M. Bruto C. Cassium Romanorum ultimum dixisset”
(IV, 34), sotto il consolato di Cornelio Cosso e Asinio Agrippa[14]
viene citato in giudizio Cremuzio Cordo per un delitto nuovo e sentito allora
per la prima volta: pubblicati degli annali con la celebrazione di M. Bruto, egli
aveva chiamato Cassio l'ultimo dei Romani.
Si ricordino anche i casi di Tito Labieno sotto Augusto e di
Trasea Peto con Nerone (cap. 31).
Nel secondo capitolo dell'Agricola Tacito ricorda
altri scrittori martiri: Aruleno Rustico[15]
ed Erennio Senecione[16],
condannati a morte sotto Domiziano poiché avevano lodato Trasea Peto e il
marito di sua figlia Fannia, Elvidio Prisco che a sua volta aveva difeso il
suocero e dopo essere stato esiliato da Nerone e richiamato da Galba, venne
ucciso per ordine di Vespasiano[17].
“Neque in ipsos modo
auctores, sed in libros quoque saevitum”, non si incrudelì solo sulle
persone ma anche sulle loro opere.
I triumviri capitali ricevettero l’ordine di bruciarle
pubblicamente nel foro.
A questa notizia segue il commento dello storiografo: “Scilicet illo igne vocem populi Romani et
libertatem senatus et conscientiam generis humani aboleri arbitrabatur, expulsis
insuper sapientiae professoribus atque omni bona arte in exilium acta, ne quid
usquam honestum occurreret”, evidentemente con quel fuoco credevano di
sopprimere la voce del popolo romano e la libertà del senato e la coscienza del
genere umano, espulsi per giunta i maestri di filosofia e cacciata in esilio
ogni forma di cultura, perché non si incontrasse in alcun luogo alcunché di
bello e morale.
Quindi l’autore nota che l'estremo della schiavitù è non
poter parlare né ascoltare: come l'antica età vide quid ultimum in libertate
esset, il culmine della libertà, "ita nos quid in servitute:
"adempto per inquisitiones etiam loquendi audiendique commercio"
(Agricola, 2), così noi l'estremo della servitù poiché per mezzo di spie
fu tolta anche la facoltà di parlare e di ascoltare. Il capitolo si chiude con
la considerazione che la memoria tuttavia non può essere abolita né si può
sopprimere con la volontà: “Memoriam
quoque ipsam cum voce perdidissemus, si tam in nostra potestate esset oblivisci
quam tacere”, avremmo perso anche la stessa memoria con la voce, se fosse
in nostro potere dimenticare quanto tacere.
“Chi vuole vedere quali sieno e pensieri de’ tiranni, legga
Cornelio Tacito, quando referisce gli ultimi ragionamenti che Augusto morendo
ebbe con Tiberio”[18].
Pasolini afferma che" il potere e
il mondo che, pur non essendo del potere, tiene rapporti pratici col potere, ha
escluso gli intellettuali liberi"[19].
I poteri più forti sono
quello dei consumi imposto da una concezione edonistica della vita, e quello
del conformismo: “le cose si sono aggravate dal ’68 in poi. Perché da una parte
il conformismo, diciamo così, ufficiale, nazionale, quello del “sistema”, è
divenuto infinitamente più conformistico dal momento che il potere è divenuto
un potere consumistico, quindi infinitamente più efficace-nell’imporre la
propria volontà- che qualsiasi altro potere al mondo. La persuasione a seguire
una concezione “edonistica” della vita (e quindi a essere dei bravi consumisti)
ridicolizza ogni precedente sforzo autoritario di persuasione: per esempio
quello di seguire una concezione religiosa o moralistica della vita”[20].
“Il lettore non
abituato a queste discussioni per intendere il rapporto società-cultura, immagini
una specie di banchetto, in cui la borghesia mangia a quattro palmenti, invitando
al suo tavolo i cuochi (gli intellettuali) e gettando qualche osso ai cani ed
ai mendicanti (i proletari) ; quell’osso sarebbe poi, per dare un esempio, l’anticomunismo
ed il clericalismo. Finché durerà questo banchetto, i proletari dovranno
accontentarsi dei rimasugli delle pietanze, e gli intellettuali, per mangiare
le loro pietanze, dovranno essere i cuochi dei capitalisti. L’esempio è un po’
strambo, ma dà all’incirca l’idea di come stanno le cose”[21].
“Nel profondo dell’animo, dicevo, mi sono sempre ribellato al
potere e alla cultura dominante, quasi per principio se volete, per un dovere
etico-come si può non essere contro il potere dominante?... il potere non
conosce né destra né sinistra: il potere non ha colore, il potere è potere, obbedisce
solo a se stesso e alle sue logiche interne e sarebbe vano appellarsi ad ogni
altra considerazione”[22].
A volte la libertà minima, negata dal despota, è quella di
tacere: talora il tiranno impedisce perfino il silenzio: nell' Oedipus
di Seneca infatti Creonte, incalzato da Edipo, gli chiede: "ubi non
licet tacere, quid cuiquam licet? " (v. 524), dove non c'è libertà di
tacere, quale libertà rimane all'uomo?
Filota venne condannato a morte da
Alessandro Magno poiché non aveva denunciato una congiura[23]
; suo padre Parmenione che, qualche anno prima[24],
aveva messo in guardia il condottiero macedone da un possibile avvelenamento non
era stato creduto ; dunque l’accusato nel vano tentativo di difendersi disse: “
“ Si et, cum indicamus, invisi
et, cum tacemus, suspecti sumus, quid facere nos oportet?” (Curzio Rufo, Historiae Alexandri Magni, 6, 10, 35), se
quando denunciamo siamo odiosi, e quando taciamo diventiamo sospetti, che cosa
dobbiamo fare?
Concetto simile in La tragedia
spagnola, quando Hieronimo[25]
dice al re di Spagna: " Quale minor libertà possono concedere i re, che
l'innocuo silenzio? Dunque concedimelo. Basta: io non posso né voglio parlare a
te"[26].
La facoltà verbale e la capacità di significare, in certi
casi anche tacendo la parola pensata, si potenzia attraverso i testi prima di
tutto. I ragazzi, guidati bene, comprendono presto che gli auctores accrescono
le loro vite. "I libri che leggiamo sono i nostri auctores, e
c'insegnano a riconoscere nuovi cieli e nuove terre, e ad alimentare sempre, così,
la nostra sete di significazione"[27].
Per quanto riguarda l’esclusione dei testi e la degradazione
della scuola: “Un esempio clamoroso è il film La classe, Palma d’oro a Cannes, incensato da tutta la critica. La
figura dell’insegnante appare nella sua versione più desolata. Il povero
Bégaudeau, autore del libro e protagonista principale del film, è davvero uno
sciagurato, quasi un inetto, che non ne fa una giusta neanche per sbaglio. Tutto
l’anno scolastico perduto dietro una sola idea, far scrivere a ogni studente il
suo autoritratto. Mai osa proporre ai ragazzi un brano di Shakespeare, una
poesia di Baudelaire, qualcosa di alto e nobile che possa modificare la loro
sensibilità: non crede più alla potenza dell’arte, del pensiero, della bellezza,
si accontenta di aderire timorosamente alla vita degli studenti, di certificare
l’esistente, lo status quo, la vita così com’è, ed è una brutta vita. Finirà a
insultare due allieve e a farsi minacciare dal bullo della classe, poi espulso
a forza dalla scuola. Un insuccesso totale, una catastrofe. La scuola rischia
sempre più di diventare un mondo in cui la cultura conta poco o niente, dove
imperano il presente, il disagio, i soldi sognati o tagliati”[28].
[1]Lettera
a una professoressa,
p. 95.
[2]
Del 368 a. C. Le stesse parole tornano nell’Antidosis
(254-255) del 354 a. C.
[3] Nicocle 9 e
Antidosi 257.
[4] W. Jaeger, Paideia 3, p. 134.
[5]
P. Citati, Leopardi, p. 58.
[6] Cfr. p. e. Omero, Odissea,
1, 8; Esiodo Opere e giorni, 131.
[7]
Cfr. in 53, 3 quanto scrive Pasolini sull’atroce afasia che prelude alla
violenza.
[8] Callimaco (310 ca- 240 ca a. C.),
Aitia, fr. 75 Pf, vv. 8-9. .
[9] Fr. 2 D., v 9, glw'ssa <m j e[age, la lingua mi rimane spezzata; lingua sed torpet (51, 9), si paralizza la lingua.
[10] Imitato in questo punto da
Callimaco come si vede: non ut lateat imitatio sed ut pateat
[11]
Cfr. Erodoto, Storie, V, 92, z,
2; Tito Livio, Storie, I, 54.
[12]Canfora,
Lo Spazio Letterario Della Grecia Antica,
Volume I, Tomo II, p. 835.
[13]
Luciano Canfora, Legge o natura? In NOMOS
BASILEUS, p. 58.
[14]
Nel 25 d. C.
[15] Fu condannato a morte da Domiziano perché aveva
scritto un elogio di Trasea Peto.
[16]
Fu condannato a morte da Domiziano perché aveva scritto un elogio di Elvidio
Prisco, richiesto dalla vedova Fannia.
[17]
Svetonio, Vita di Vespasiano, 15.
[18]
F. Guicciardini, Ricordi, 13.
[19]
Scritti corsari, p. 113.
[20]
P. P. Pasolini, Lettere Luterane, p. 21.
[21]
P. P. Pasolini, Un intervento rimandato
(marzo 1949), in Pasolini Saggi sulla politica e sulla società, p. 83.
[22]
Guido Croci, Victor, p. 178.
[23]
Nel 330 a. C. ;
[24]
Nel 333 a. C. Venne fatto
ammazzare subito dopo il figlio.
[25] Quello che "è pazzo di nuovo: " Hieronymo's mad again (T. S. Eliot, The waste land, v. 437)
[26] Thomas Kyd, La tragedia spagnola (del 1592) (IV,
3).
[27] F. Frasnedi, op. cit., p. 52.
[28]
Marco Lodoli, Quei docenti nelle tricee, “la Repubblica ”, 14 ottobre
2008, p. 37.
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