L'arrivo a Debrecen in bicicletta da Bologna con gli amici, 2011 |
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Antefatto
L’arrivo
a Debrecen nel luglio del 1966
Voglio
ricordarti, lettore, quell’approdo a Debrecen dove giunsi da un
mare tempestoso per farti vedere quanto possano una forte volontà,
una capacità di comprendere e un poco di buona fortuna nel cambiare
in meglio, nel risollevare la vita di un essere umano, di un ventenne
già quasi caduto nell’abisso orrido, immenso, della disistima e
del disprezzo di sé.
Era
una sera del luglio del ’66; avevo precisamente 21 anni e otto mesi
quando, al tramonto del sole, arrivai nell’ignota cittadina
ungherese dopo un viaggio inquieto con un veicolo vetusto e scassato,
una Fiat 600 che, attraversando la puszta, aveva schiacciato
migliaia di insetti brulicanti nell’aria della grande pianura.
Stavo
seguendo le mie Erinni che apparivano a me, come una volta a Oreste,
dai pochi che frequentavo " uJmei'~ me;n
oujc oJra'te tavsd j, ejgw; d ‘ oJrw'”1,
voi non le vedete queste, ma io le vedo"
Le
Furie mi incalzavano ovunque e solo dopo vari tentativi di fuggire
invano, cominciavo a capire che dovevo seguirle: ““ejlauvnomai
de; koujkevt j a]n meivnaim j ejgwv”2
, sono sospinto e non posso più restare io.
Negli
ultimi venti chilometri, precisamente da Hajdúszoboszló, avevo
forzato la vecchia automobile per arrivare nella remota Università
estiva prima che il sole, la lucerna del mondo, sparisse
dall’orizzonte, lasciandomi nel buio dell’immensa distesa,
coltivata ma priva di alberi, popolata ma da poche persone
distribuite in case isolate, in piccoli e radi borghi pressoché
primitivi, dove oltretutto parlavano una lingua veramente straniera,
uno strano idioma agglutinante di cui, attraversando la terra magiara
tutto quel giorno, mi ero accorto di capire pochissimo. L’esame di
lingua e letteratura ungherese dato a Bologna mi aveva fruttato un
trenta e la borsa di studio per l’Università estiva della
cittadina magiara, ma non era bastato a mettermi in grado di capire
né di farmi comprendere nella lingua di quel paese. Qualche giorno
più tardi, con l’automobile in panne, fui aiutato da un prete
venuto in mio soccorso linguistico chiedendomi “loqueris latina
lingua?”
“Loquor”
risposi, quindi potei avere indicazioni utili nel nostro italiano
antico che fra poco in questa prava terra italica3
purtroppo quasi nessuno conoscerà più.
Correndo
dunque, e facendo una strage di moscerini che avevano insanguinato il
parabrezza della Seicento, ero riuscito a precedere il buio maligno
solo di pochi minuti. Quando arrivai alla periferia della città, il
sole si era già immerso nella selvatica landa alle mie spalle,
mentre dall’altra parte, la zona boscosa della Transilvania e dei
selvosi Carpazi, vedevo arrivare le tenebre lunghe di una notte
inquietante, popolata di spettri che mi mettevano in cuore strane
emozioni: miste di presentimenti non tutti cattivi e di vaghe
speranze. Ero molto giovane allora: quanto a esperienza di uomini,
per non dire di donne, di rapporti umani comunque, ero quasi un
bambino.
Ero
partito da Pesaro la mattina del 14 luglio, da solo. Avevo
costeggiato il mare Adriatico sulla strada Romea e attraversato un
pezzo di pianura padana; poi erano apparse delle montagne, brutte
però, spelacchiate, quasi informi; insomma molto diverse dai monti
noti e cari, le Dolomiti antropomorfe che si ergono sulla valle di
Fassa nel puro azzurro dell’etere. Dialogavo con loro nei mesi di
agosto degli anni Cinquanta quando la zia Giulia mi portava lassù
dove non avevo nessun altro amico con cui scambiare qualche parola.
Parlavo con quei monti che per la loro umanità, mi rispondevano
quasi sempre.
Mentre
avanzavo tra catene montuose che stringevano l’orizzonte da tutte
le parti, il cielo residuo prima si incoronava, poi si ingombrava di
nuvole sempre più grosse, acquose, plumbee sui monti lividi, finché
arrivarono a togliermi il conforto della luce del sole.
Quindi
cominciò a piovere sulle piante rade e scure di quelle montagne
brulle, simili a cani dal pelo tarlato. Non si vedeva un’Oreade che
fosse una.
Mi
sembrava piuttosto di udire bestie immonde che latravano in branco ,
affamate, o ululavano solitarie fissando le nuvole inquiete del cielo
già quasi ottenebrato. Proseguivo rintronato e atterrito.
Non
sembrava nemmeno più estate. Novembre sembrava. Ero tentato di
tornare a Pesaro dove almeno la spiaggia coperta di ombrelloni e
capanni e l’acqua marina ricca di raggi e di flutti, di chiarori e
di guizzi che moltiplicavano la luce del sole, mi assicurava
che la stagione meno dolente non era finita. Ma a Debrecen avevo un
appuntamento con il destino. Un destino buono col senno del poi. Mi
avrebbe fatto incontrare l’amico Fulvio e gli amori con le
Finlandesi, tre, che racconterò perché sono storie belle, di
resurrezione e riscatto. Le auguro ai buoni.
Allora
avevo solo speranze incerte e tante paure.
Arrivai
sul Tarvisio che Zeus pioveva, tuonava e fulminava.
“Tuono
e lampo btronth; kai; sevla"-
pensai- sono segnali, segni alati del cielo, simili a quelli ricevuti
da Edipo giunto a Colono e diretto al bosco sacro della sua
redenzione”.
Avevo
dato gli esami di greco: tutta l’Odissea, tre tragedie di
Euripide, due di Eschilo e altre due di Sofocle. Ne avevo la testa
infarcita.
Attirato
da quei segni divini, decisi di proseguire. Prima però scesi
dall’automobile e andai a cambiare denaro per mangiare e dormire in
Austria: a Graz, se ci fossi arrivato a un’ora possibile, poiché
c’erano altri duecento chilometri ignoti da percorrere,
probabilmente sotto la pioggia. Avevo un forte male di gola e molti
timori imprecisati. Volevo capirli, definirli, domarli.
Per
questo dovevo procedere. Fata viam invenient 4,
pensai. Avevo dato anche latino con tutta l’Eneide. La via
era quella che portava alla mia identità, al diventare quello che
sono, non dico chissà chi, ma per lo meno me stesso. Questo contava.
Quando
fui rientrato nell’automobile, vidi un lampo che illuminava
l’Oriente, la parte di Graz e “di quella terra che il Danubio
riga-poi che le ripe tedesche abbandona”5.
Avevo già cominciato a cucirmi addosso l’abito letterario.
Quindi
sentìi tre volte il suono di un tuono strano: aveva qualche cosa di
musicale. Aderitque vocatus deus 6,
completai. Traevo auspici. Sperare che la mia vita sarebbe cambiata
in meglio non era difficile: in peggio non poteva cambiare. Guardai
le creste dei monti che apparvero cosmetizzati, lisciati e imbelliti
dalla pioggia intermittente, seguita da qualche sprazzo di sole , e
mi sembrò di vedere, mentre saltava di vetta in vetta, una donna o
una dea luminosa, vestita di bianco. Presagio di un incontro felice?
Un
vento libertino le sollevava le gonne fino alla metà delle cosce
tornite.
Poteva
preannunciare la creatura bella e fine che un giorno avrei incontrato
e mi avrebbe amato se non mi fossi perduto d’animo e avessi
ricominciato a progredire, cercandola. Avrei voluto unirmi a lei in
quel tripudio bacchico. Sentivo che prefigurava qualche cosa della
mia esistenza.
Allora
era una figura eterea, una promessa quasi ultraterrena, ora che mi
avvicino ai 74 anni, iam senior, sed cruda mihi viridisque
senectus "7,
posso chiamarla per nome, anzi, grazie al mio Dio generoso, con molti
nomi, pollw`n ojnomavtwn morfh; miva8,
e ringraziare Zeus chiunque egli sia, di avere mantenuto la grande
promessa di allora: di avermi fatto incontrare quella creatura
celeste, incarnata in Helena , in Kaisa , in Päivi, le finlandesi di
Debrecen, e nelle italiane incontrate qua e là, in Luciana, in
Ifigenia, in Olga, in Magda, in Daniela e in diverse altre. Tutte
dileguate, ma non senza avere prima svolto la loro funzione storica.
Sempre grazie Dio, chiunque mai egli sia, o[sti"
pot j ejstivn9.
Un
poco confortato dunque, scesi dal passo Tarvisio tra i villaggi lindi
dell’Austria: Villach e altri, in direzione di Klagenfurt. C’era
qualche cosa di simpatico, pulito, ordinato in quei paesini, mentre
le nuvole sembravano diradarsi.
Invece, quando ebbi traversato Klagenfurt e ripresi a salire tra i
monti, il cielo si annerò tutto di nuovo, poi ricominciò a piovere,
infine la luce scomparve in un vapore esalato dagli stessi monti
bagnati. Procedevo nell’oscurità della notte deserta.
Un
dio mi inceppava il cammino. Avevo paura. Di non arrivare alla meta.
Tra quelle montagne ignote non si vedeva più niente, tranne una
decina di metri davanti all’automobile che procedeva con i fari
abbaglianti accesi. Ma sì, potevo anche morire. “Tanto della mia
vita-pensavo- non importa niente a nessuno”.
Tranne
a mia madre, povera donna, che del resto aveva tanti altri problemi
suoi.
Però
poi reagivo a tanta cupezza. Sentivo che era eccessiva e pure un poco
affettata. Quindi cambiavo registro.
“Sollevati dal suolo, infelice-mi dicevo- alza da terra la testa
desolata e drizza la schiena curva: non è più Pesaro questa10
e tu devi smettere di essere l’arciinfelice ragazzo che sei
divenuto finito il liceo. Dai Gianni coraggio, devi farcela. Devi
arrivare a Debrecen presto e trovare l’amore. Questo viaggio è il
simbolo, la metà della tessera, della tua stessa esistenza: sei
solo, sei coperto di nebbia, sei disgraziato e gravido di lacrime, ma
ce la farai, poiché non sei stupido, né falso, né ostile alla
vita. Ricordati come eri bravo e primeggiavi nel liceo Mamiani di
Pesaro. Con la bicicletta in salita eri sempre il più bravo del
borgo. Alumnus optimus e pure ajgwnisthv"
a[risto". Allora non hai trovato
l’amore perché impiegavi tutte le tue forze per essere il primo
nell’agonismo scolastico e ciclistico. In salita a dieci anni
battevi i ventenni. In seconda liceo hai vinto un viaggio premio
assegnato ai trenta studenti migliori d’Italia. O grandi vanti
umiliati! Presto però ti rifarai! Nessuno deve ripetere a me il
lamento di Ofelia per Amleto: “ O, what a noble mind is here
o’erthrown !”11.
A Bologna finora hai dovuto cercare di adattarti a un mondo esterno
sconosciuto e imprevedibile finché stavi in quel mortorio di Pesaro12
e in quell’ambiente domestico pieno di pregiudizi, frustrazioni e
risentimenti. La fortuna è mutevole: cambierà ancora! Soffrire in
questi ultimi anni è stato destino, ma vedrai che splendore avrà la
vittoria!”
CONTINUA
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1
Eschilo, Coefore,
1061.
2
Eschilo,
Coefore,
1062
3
Cfr. Dante, Paradiso
IX, 25-26.
4
Virgilio, Eneide
III, 395, i fati
troveranno la via.
5
Dante, Paradiso
VIII, 66-67. Ovviamente designa l’Ungheria.
6
Eneide,
III, 395, e sarà presente, invocato, un dio.
7
Cfr. Eneide,
VI, 304, già piuttosto vecchio, ma cruda e vigorosa è la
vecchiaia mia
8
Eschilo, Prometeo
incatenato, 210,
una sola forma di molti nomi.
9
Cfr. Eschilo,
Agamennone,
160.
10
Cfr.
Euripide, Troiane,
98 ss.
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