NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

Ciclo di incontri alla biblioteca «Ginzburg». Protagonisti della storia antica

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venerdì 9 novembre 2018

Debrecen. Capitolo 1

L'arrivo a Debrecen
in bicicletta da Bologna con gli amici, 2011
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Antefatto
L’arrivo a Debrecen nel luglio del 1966

Voglio ricordarti, lettore, quell’approdo a Debrecen dove giunsi da un mare tempestoso per farti vedere quanto possano una forte volontà, una capacità di comprendere e un poco di buona fortuna nel cambiare in meglio, nel risollevare la vita di un essere umano, di un ventenne già quasi caduto nell’abisso orrido, immenso, della disistima e del disprezzo di sé.
Era una sera del luglio del ’66; avevo precisamente 21 anni e otto mesi quando, al tramonto del sole, arrivai nell’ignota cittadina ungherese dopo un viaggio inquieto con un veicolo vetusto e scassato, una Fiat 600 che, attraversando la puszta, aveva schiacciato migliaia di insetti brulicanti nell’aria della grande pianura.
Stavo seguendo le mie Erinni che apparivano a me, come una volta a Oreste, dai pochi che frequentavo " uJmei'~ me;n oujc oJra'te tavsd j, ejgw; d ‘ oJrw'1, voi non le vedete queste, ma io le vedo"
Le Furie mi incalzavano ovunque e solo dopo vari tentativi di fuggire invano, cominciavo a capire che dovevo seguirle: ““ejlauvnomai de; koujkevt j a]n meivnaim j ejgwv2 , sono sospinto e non posso più restare io.
Negli ultimi venti chilometri, precisamente da Hajdúszoboszló, avevo forzato la vecchia automobile per arrivare nella remota Università estiva prima che il sole, la lucerna del mondo, sparisse dall’orizzonte, lasciandomi nel buio dell’immensa distesa, coltivata ma priva di alberi, popolata ma da poche persone distribuite in case isolate, in piccoli e radi borghi pressoché primitivi, dove oltretutto parlavano una lingua veramente straniera, uno strano idioma agglutinante di cui, attraversando la terra magiara tutto quel giorno, mi ero accorto di capire pochissimo. L’esame di lingua e letteratura ungherese dato a Bologna mi aveva fruttato un trenta e la borsa di studio per l’Università estiva della cittadina magiara, ma non era bastato a mettermi in grado di capire né di farmi comprendere nella lingua di quel paese. Qualche giorno più tardi, con l’automobile in panne, fui aiutato da un prete venuto in mio soccorso linguistico chiedendomi “loqueris latina lingua?”
Loquor” risposi, quindi potei avere indicazioni utili nel nostro italiano antico che fra poco in questa prava terra italica3 purtroppo quasi nessuno conoscerà più.

Correndo dunque, e facendo una strage di moscerini che avevano insanguinato il parabrezza della Seicento, ero riuscito a precedere il buio maligno solo di pochi minuti. Quando arrivai alla periferia della città, il sole si era già immerso nella selvatica landa alle mie spalle, mentre dall’altra parte, la zona boscosa della Transilvania e dei selvosi Carpazi, vedevo arrivare le tenebre lunghe di una notte inquietante, popolata di spettri che mi mettevano in cuore strane emozioni: miste di presentimenti non tutti cattivi e di vaghe speranze. Ero molto giovane allora: quanto a esperienza di uomini, per non dire di donne, di rapporti umani comunque, ero quasi un bambino.
Ero partito da Pesaro la mattina del 14 luglio, da solo. Avevo costeggiato il mare Adriatico sulla strada Romea e attraversato un pezzo di pianura padana; poi erano apparse delle montagne, brutte però, spelacchiate, quasi informi; insomma molto diverse dai monti noti e cari, le Dolomiti antropomorfe che si ergono sulla valle di Fassa nel puro azzurro dell’etere. Dialogavo con loro nei mesi di agosto degli anni Cinquanta quando la zia Giulia mi portava lassù dove non avevo nessun altro amico con cui scambiare qualche parola. Parlavo con quei monti che per la loro umanità, mi rispondevano quasi sempre.
Mentre avanzavo tra catene montuose che stringevano l’orizzonte da tutte le parti, il cielo residuo prima si incoronava, poi si ingombrava di nuvole sempre più grosse, acquose, plumbee sui monti lividi, finché arrivarono a togliermi il conforto della luce del sole.
Quindi cominciò a piovere sulle piante rade e scure di quelle montagne brulle, simili a cani dal pelo tarlato. Non si vedeva un’Oreade che fosse una.
Mi sembrava piuttosto di udire bestie immonde che latravano in branco , affamate, o ululavano solitarie fissando le nuvole inquiete del cielo già quasi ottenebrato. Proseguivo rintronato e atterrito.
Non sembrava nemmeno più estate. Novembre sembrava. Ero tentato di tornare a Pesaro dove almeno la spiaggia coperta di ombrelloni e capanni e l’acqua marina ricca di raggi e di flutti, di chiarori e di guizzi che moltiplicavano la luce del sole, mi assicurava che la stagione meno dolente non era finita. Ma a Debrecen avevo un appuntamento con il destino. Un destino buono col senno del poi. Mi avrebbe fatto incontrare l’amico Fulvio e gli amori con le Finlandesi, tre, che racconterò perché sono storie belle, di resurrezione e riscatto. Le auguro ai buoni.
Allora avevo solo speranze incerte e tante paure.
Arrivai sul Tarvisio che Zeus pioveva, tuonava e fulminava.
“Tuono e lampo btronth; kai; sevla"- pensai- sono segnali, segni alati del cielo, simili a quelli ricevuti da Edipo giunto a Colono e diretto al bosco sacro della sua redenzione”.
Avevo dato gli esami di greco: tutta l’Odissea, tre tragedie di Euripide, due di Eschilo e altre due di Sofocle. Ne avevo la testa infarcita.
Attirato da quei segni divini, decisi di proseguire. Prima però scesi dall’automobile e andai a cambiare denaro per mangiare e dormire in Austria: a Graz, se ci fossi arrivato a un’ora possibile, poiché c’erano altri duecento chilometri ignoti da percorrere, probabilmente sotto la pioggia. Avevo un forte male di gola e molti timori imprecisati. Volevo capirli, definirli, domarli.
Per questo dovevo procedere. Fata viam invenient 4, pensai. Avevo dato anche latino con tutta l’Eneide. La via era quella che portava alla mia identità, al diventare quello che sono, non dico chissà chi, ma per lo meno me stesso. Questo contava.
Quando fui rientrato nell’automobile, vidi un lampo che illuminava l’Oriente, la parte di Graz e “di quella terra che il Danubio riga-poi che le ripe tedesche abbandona”5. Avevo già cominciato a cucirmi addosso l’abito letterario.
Quindi sentìi tre volte il suono di un tuono strano: aveva qualche cosa di musicale. Aderitque vocatus deus 6, completai. Traevo auspici. Sperare che la mia vita sarebbe cambiata in meglio non era difficile: in peggio non poteva cambiare. Guardai le creste dei monti che apparvero cosmetizzati, lisciati e imbelliti dalla pioggia intermittente, seguita da qualche sprazzo di sole , e mi sembrò di vedere, mentre saltava di vetta in vetta, una donna o una dea luminosa, vestita di bianco. Presagio di un incontro felice?
Un vento libertino le sollevava le gonne fino alla metà delle cosce tornite.
Poteva preannunciare la creatura bella e fine che un giorno avrei incontrato e mi avrebbe amato se non mi fossi perduto d’animo e avessi ricominciato a progredire, cercandola. Avrei voluto unirmi a lei in quel tripudio bacchico. Sentivo che prefigurava qualche cosa della mia esistenza.
Allora era una figura eterea, una promessa quasi ultraterrena, ora che mi avvicino ai 74 anni, iam senior, sed cruda mihi viridisque senectus "7, posso chiamarla per nome, anzi, grazie al mio Dio generoso, con molti nomi, pollw`n ojnomavtwn morfh; miva8, e ringraziare Zeus chiunque egli sia, di avere mantenuto la grande promessa di allora: di avermi fatto incontrare quella creatura celeste, incarnata in Helena , in Kaisa , in Päivi, le finlandesi di Debrecen, e nelle italiane incontrate qua e là, in Luciana, in Ifigenia, in Olga, in Magda, in Daniela e in diverse altre. Tutte dileguate, ma non senza avere prima svolto la loro funzione storica. Sempre grazie Dio, chiunque mai egli sia, o[sti" pot j ejstivn9.
Un poco confortato dunque, scesi dal passo Tarvisio tra i villaggi lindi dell’Austria: Villach e altri, in direzione di Klagenfurt. C’era qualche cosa di simpatico, pulito, ordinato in quei paesini, mentre le nuvole sembravano diradarsi.
Invece, quando ebbi traversato Klagenfurt e ripresi a salire tra i monti, il cielo si annerò tutto di nuovo, poi ricominciò a piovere, infine la luce scomparve in un vapore esalato dagli stessi monti bagnati. Procedevo nell’oscurità della notte deserta.
Un dio mi inceppava il cammino. Avevo paura. Di non arrivare alla meta. Tra quelle montagne ignote non si vedeva più niente, tranne una decina di metri davanti all’automobile che procedeva con i fari abbaglianti accesi. Ma sì, potevo anche morire. “Tanto della mia vita-pensavo- non importa niente a nessuno”.
Tranne a mia madre, povera donna, che del resto aveva tanti altri problemi suoi.
Però poi reagivo a tanta cupezza. Sentivo che era eccessiva e pure un poco affettata. Quindi cambiavo registro.
“Sollevati dal suolo, infelice-mi dicevo- alza da terra la testa desolata e drizza la schiena curva: non è più Pesaro questa10 e tu devi smettere di essere l’arciinfelice ragazzo che sei divenuto finito il liceo. Dai Gianni coraggio, devi farcela. Devi arrivare a Debrecen presto e trovare l’amore. Questo viaggio è il simbolo, la metà della tessera, della tua stessa esistenza: sei solo, sei coperto di nebbia, sei disgraziato e gravido di lacrime, ma ce la farai, poiché non sei stupido, né falso, né ostile alla vita. Ricordati come eri bravo e primeggiavi nel liceo Mamiani di Pesaro. Con la bicicletta in salita eri sempre il più bravo del borgo. Alumnus optimus e pure ajgwnisthv" a[risto". Allora non hai trovato l’amore perché impiegavi tutte le tue forze per essere il primo nell’agonismo scolastico e ciclistico. In salita a dieci anni battevi i ventenni. In seconda liceo hai vinto un viaggio premio assegnato ai trenta studenti migliori d’Italia. O grandi vanti umiliati! Presto però ti rifarai! Nessuno deve ripetere a me il lamento di Ofelia per Amleto: “ O, what a noble mind is here o’erthrown !”11. A Bologna finora hai dovuto cercare di adattarti a un mondo esterno sconosciuto e imprevedibile finché stavi in quel mortorio di Pesaro12 e in quell’ambiente domestico pieno di pregiudizi, frustrazioni e risentimenti. La fortuna è mutevole: cambierà ancora! Soffrire in questi ultimi anni è stato destino, ma vedrai che splendore avrà la vittoria!”


CONTINUA


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1 Eschilo, Coefore, 1061.
2 Eschilo, Coefore, 1062
3 Cfr. Dante, Paradiso IX, 25-26.
4 Virgilio, Eneide III, 395, i fati troveranno la via.
5 Dante, Paradiso VIII, 66-67. Ovviamente designa l’Ungheria.
6 Eneide, III, 395, e sarà presente, invocato, un dio.
7 Cfr. Eneide, VI, 304, già piuttosto vecchio, ma cruda e vigorosa è la vecchiaia mia
8 Eschilo, Prometeo incatenato, 210, una sola forma di molti nomi.
9 Cfr. Eschilo, Agamennone, 160.
10 Cfr. Euripide, Troiane, 98 ss.
11 Shakespeare, Amleto, III, 1, o quale nobile spirito è qui distrutto!
12 Cfr. Catullo, Carmina 81, 3 moribunda ab sede Pisauri

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