Debreceni Nyári Egyetem |
L’Hungaria e il Grande Tempio di
Debrecen
Mi avvicinai a un cameriere e gli
domandai dove fosse l’Università che credevo parola internazionale. Loro invece
dicono egyetem. Io non lo sapevo,
sicché non ci capimmo. Quello per giunta era assai affaccendato: nemmeno mi
guardava mentre cercavo di farmi comprendere, invano. Quando vide entrare un
folto gruppo di anziani allegri e ciarlieri, si allontanò senza avermi
risposto. Ci rimasi male assai, mi sentii umiliato da quell’inserviente, ma gli
andai dietro ripetendo la domanda in inglese e in italiano. L’insolente,
seccato, gridò: “Budapest!” accrescendo il mio sconforto. Lo lasciai andare
dietro lo sciame fitto di vecchi simili a fuchi. Ebbi paura che nell’immensa
barbarie di quella landa remota non ci fosse alcuna università. Forse c’era
stato un equivoco, una trappola del destino. Uscii con l’animo a terra.
Oltretutto da Oriente arrivava la notte.
Nella via principale si vedevano,
confuse tra loro, le ultime luci del giorno e le prime artificiali del paese assediato
dal buio. Camminai nella direzione del cielo ancora rosso. Se avessi seguito la
traccia lasciata dal sole, le sue palpitanti vestigia per tre chilometri, sarei
arrivato alla Nyári Egyetem,
l’Università estiva.
“Tu scaldi il mondo, tu sovresso
luci:/s’altra ragione in contrario non pronta,/esser dien sempre li tuoi raggi
duci”[1].
Questi versi però allora non mi
vennero in mente.
Con il viso volto a terra cercavo
tracce difficili da rintracciare mentre il cielo mi indicava la via vera.
In fondo alla strada principale si
trova il grande tempio della città, una chiesa calvinista, come seppi più
tardi. Era giallo. Mi avrebbero detto che era il simbolo di Debrecen, chiamata,
dicevano, “la Roma
calvinista”.
“Il cuore della
città e, per quanto mi riguardava, del mondo intero, era il tempio grande. Il
tempio grande era talmente grande che non riuscivo a misurarlo con il metro
della realtà (…) La sua facciata gialla terminava in un triangolo, le torri
erano munite di occhi e bocca con i volti umani, non ho più visto in vita mia
un edificio che palpitasse di tutta quella vita, sembrava persino che
respirasse”[2].
Un giorno anche per me quel tempio sarebbe diventato un luogo centrale,
dell’anima se non del mondo.
Quella notte vidi
solo un edificio alto, giallo e turrito.
Mi fermai un
momento.
Lì sembrava finire, anzi finiva, il centro di
Debrecen: al di là del Grande Tempio si vedeva una via deserta, alberata, buia
oramai. Un cane nero si confondeva e mimetizzava con la notte. Non senza
abbaiare però. Mi fece paura.
Mi sentivo più o
meno come Riccardo III: “so lamely and
unfashionable that dogs bark at me, as I halt by them”[3]
così claudicante e goffo che i cani mi abbaiano contro quando arranco vicino a
loro.
Nel crepuscolo
della sera era l’oscurità a essere attiva: mi inquietava.
La tenebra mi
fissava con mille occhi non buoni. Dovevo inserire i mostri della notte in un
progetto di ordine: armonizzare e cosmizzare il caos: lo sentivo dentro di me e
temevo quello di fuori.
Sulla sinistra,
rispetto a chi guarda il tempio, c’era un altro edificio grande, e pure
animato.
Un palazzo di sei
o sette piani, sormontato da lunghi pinnacoli pseudogotici, quasi un castello,
simile a quelli teatrali fatti costruire in Baviera da Ludwig II, il lunatico
re sodomita.
Sarei andato in
pellegrinaggio fino a quei castelli molti anni dopo con Ifigenia in un estremo
e vano tentativo di riconciliazione.
bologna 22 novembre 2018 giovanni ghiselli
CONTINUA
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