Graz sotto la pioggia by Abigail Faffelberger |
PER VISUALIZZARE IL GRECO CLICCA QUI E SCARICA IL FONT HELLENIKA
Sceso
dai monti, a un tratto, sulla sinistra, vidi una luce.
Per
un momento credetti e sperai che fosse il sole sbucato di nuovo dalle nuvole
occidentali. Invece era un lampione giallognolo, acceso contro il buio precoce.
Saranno state sì e no le sette: in quel tempo la provvida ora legale non c’era.
Certamente dal sole, che ho sempre adorato come l’immagine visibile della mente
divina e del Bene, avrei tratto maggiore conforto. Quel fioco bagliore non era
un segno del tutto propizio. Nemmeno sinistramente ominoso però. Era una luce
triste, ma pur sempre una luce.
“Avanti - mi
dissi - avanti, ché ce la puoi fare. Non volgere il tuo corso contro il destino! Procedi
con lui! Devi comprenderlo e assecondarlo! Nulla ti accadrà che non sia in
armonia con la natura dell’universo!”.
Verso
le otto arrivai a Graz sotto un’acquazzone violento e il cielo più buio che mai.
Le
lampade elettriche illuminavano l’asfalto bagnato della circonvallazione dove
scura dai campi colava la terra disciolta e trascinata dalla forza dell’acqua
che s’intorbidava fangosa e scivolosa. In una curva sbandai e quasi finìi fuori
strada.
“Tutta
la vita così”, pensai mentre assumevo un’espressione tragica. La tragedia greca
mi è sempre piaciuta assai. Mi ci immergevo, ne traevo modelli e contromodelli.
“Sarà dura arrivare alla fine, quando dirò
‘non doveva finire così’”.
Giocavo
anche un poco con la sfortuna e con il dolore.
Ero
di nuovo stanco e scoraggiato. Ricorsi al modello epico e mi sovvenne Achille
che incalzato dallo Scamandro deplorava di finire annegato come un bambino
porcaio travolto da un torrente in piena[1].
Poi invece se l’era cavata.
Volevo
trovare una camera dove passare la notte già cominciata.
Immerso
nel buio e nella solitudine profonda, guardavo le case lungo la strada, ma
l’oscurità e la grande miopia mal corretta dagli occhiali appannati mi rendevano
difficile la ricerca dell’asilo notturno.
Finalmente
potei scorgere un cartello con la scritta Zimmer
frei attaccato alla porta di una casa a tre piani.
Mi fermai, scesi dalla Seicento, suonai. Una
finestra del secondo piano si schiuse: ne sbucò una testa bianca che richiuse
subito i vetri senza dire parola. Aspettai un poco con la voglia di cercare più
avanti, ma l’anziana venne ad aprire quasi subito. “Zimmer frei?” chiesi. Quella disse solo: “Passport” e tese la mano. Glielo diedi. La vecchia lo prese e
guardò la fotografia confrontandola, sospettosa, con la mia faccia. Poi disse “Einen moment, bitte!”. Quindi si mosse
verso una piccola porta situata a metà del corridoio quasi buio che
dall’ingresso menava a una scala. Aprì quell’uscio, disse qualcosa a qualcuno,
e tornò. Camminava piuttosto in fretta per la sua età. Subito dopo, dall’andito
scuro arrivò un’altra donna anziana, somigliante alla prima, meno arcigna nel
volto però. Al punto che mi sorrise. Me ne rincuorai. Parlarono un poco tra
loro, mentre guardandomi di sbieco mi esaminavano. Infine si resero conto che non
avevo intenzioni cattive. “Forse hanno capito che non sono un epigono di Raskol’nikov”[2],
pensai.
Gli
autori, i miei auctores mi aiutavano sempre: mi fornivano parole per i
pensieri.
La
meno aspra mi diede due chiavi: una della porta esterna che mi fece aprire e
chiudere diverse volte per la paura tipica dei vecchi di non avere la casa
serrata bene, l’altra della mia stanza, che mi indicò con un dito, al piano di
sopra.
La
più diffidente e dura, non condividendo, forse, l’atto, ritenuto affrettato
della sorella, si mise ad agitare entrambe le mani: con la sinistra, più
arretrata, accennava a restituirmi il passaporto, ma con la destra, tesa quasi
fino al mio volto, manifestava il desiderio di essere pagata in anticipo, e
senza indugio, sfregando rapidamente, rapacemente, l’indice con il pollice e
dicendo: “Schilling, schilling, sofort!”,
più volte. Poi scrisse un numero. Un prezzo non esoso invero, e colazione
compresa. Pagai, riebbi il passaporto, e salii nella camera. Era spaziosa, poco
illuminata e fredda. Mentre sistemavo la roba, pensai cosa potessero
significare quelle due donne che mi avevano dato ospitalità nella notte, ma con
diffidenza. “Sono allegoriche queste due vecchie!”, pensai, “forse addirittura
ministre del fato, sue intermediarie!”
Significavano qualcosa, la parte peggiore
delle mie zie, le sorelle più attempate di mia madre, la Rina e la Giulia.
Io dovevo fruire della loro ospitalità a
Pesaro d’estate, e a Bologna nella casa che mi avrebbero comprato dopo la
laurea, e dovevo ripagarle, ossia ricompensarle facendo un poco di carriera
nella scuola: se fossi diventato professore di greco e latino nel miglior liceo
di Bologna, loro due, ex maestre elementari, all’estero, tra l’altro a
Budapest, quando c’era il fascismo, poi caduto Mussolini, tornate in Italia, ne
avrebbero avuto sufficiente soddisfazione. Se avessi insegnato all’Università,
sarebbero state felici. Dovevo rispettarle ed essere grato per l’aiuto che già allora
ricevevo, però non dovevo permettere alle due zie anziane, più o meno ancora
fasciste e pretificate, di interferire nella scelta delle mie donne, del mio
destino. Volevano che mi sposassi con “una brava collega”. Ossia una ragazza di
famiglia borghese, vergine, che insegnasse, mi preparasse piatti forti e
schietti, e tenesse ordinata la casa. Io invece non volevo una moglie tratta
dalla sesquiplebe[3],
una casalinga addomesticabile, ma un’amante bella, intelligente, sensibile,
colta, sportiva. Un’artista dotata di vis vitalis, una della mia levatura, quella che
avevo perduto e volevo ritrovare.
Diverse
amanti dovevo trovare anzi, magari una alla volta, però una più speciale
dell’altra. I luoghi comuni, la gente ordinaria, la turba dei chiacchieroni mi
davano noia. Cercando di assimilarmi a coloro, mi ero degradato. Dovevo voltare
la schiena a quella genia. La vita dell’eterno marito di una serva non faceva
per me. Le zie potevano diventare epigone delle sorelle Materassi ed io il loro
diadoco.
Pegaso
se viene messo a girare la ruota del mulino, si ammala e muore. Dovevo
ritrovare le ali che mi ero lasciato portare via.
Mi
mancava la compagnia di gente del mio stampo che sente, respira, vive le
bellezza e l’arte.
Uscii
per mangiare in fretta e tornare presto in camera. Volevo alzarmi la mattina di
buonora. Fuori pioveva sempre e faceva freddo. Mentre mangiavo, pensai che
dovevo orientarmi cercando di capire il destino: cogliere e interpretare i
segni del cielo e di Dio che, con la sua mente ordinata e magnanima, nulla
lascia procedere a caso. E avverte con premonizioni chi sa leggerle. Queste non
sono sempre chiarissime, ci vuole un animo attento e allenato per comprenderle.
Io facevo caso fin da bambino ai segni premonitori.
Ricordai che
Ammiano Marcellino commenta positivamente l’attenzione del suo eroe, Giuliano
Augusto, per gli auspici che si traggono dagli uccelli: non che i volatili
conoscano il futuro, sed volatus avium
dirigit deus[4]. I segni provvidenziali mi avrebbero
indicato la strada da seguire con metodo[5].
Exinde quid agi oporteat bonis
successibus instruendus[6].
Alla follia metodica di Amleto non sfugge che c’è una
provvidenza speciale anche nella morte di un passero[7].
Pensando
ai segni ricevuti quel giorno, mi addormentai.
All’una,
fui svegliato da un campanello.
Prima
credetti di sognare quel suono, poi mi svegliai. Qualcuno suonava davvero e con
insistenza. Nessuno andava ad aprire. Vecchie sorde o paurose. Ancella
infingarda, se c’era. Io? Non c’entravo, non mi sembrava il caso, poi avevo
paura. Continuò per alcuni minuti.
Chi
è alla porta, chi è alla porta, chi?[8]
Mi domandavo.
Guardiani, ladri, assassini, scomposte menadi
ubriache, spettri di orrori, oppure “in congreghe - diavoli goffi con bizzarre
streghe”[9],
o che altro?
Maledetto squillo di sventura.
Ma
no, forse era un altro segno benedetto, un segno sonoro di cambiamento in
meglio. Tutto è pieno di dèi, pavnta
plhvrh qew'n[10], tutto è santo, tutto è santo, tutto è
santo[11], ricordai.
Rimasi
sveglio una mezz’ora per interpretare quel segno.
Lo
feci in questo modo: “Non addormentarti, non rimanere assopito e stordito nella
casa di Pesaro. Non è l’ambiente dove puoi svilupparti. Svegliati, alzati,
cerca nuove dimore, esperienze nuove, anche a costo di ferirti, di smarrirti
nel mondo.
Devi imparare a stare ritto senza essere
sorretto.
Se
resti là, sei perduto per sempre. A Debrecen, cerca di conoscere delle persone,
donne soprattutto, le donne belle e fini che devi meritarti: prova a iniziare
una vita degna di te!”
Arrivai
alla frontiera ungherese che c’era il sole. Mi chiesero se avessi una
fotografia per il visto. Non l’avevo. Me ne fecero quattro dopo avermi messo
seduto davanti a un muro. Me ne lasciarono una. La conservo. Ci vedo la faccia
ombrosa di un ragazzo occhialuto, grasso, foruncoloso. Brutto, anzi imbruttito
assai.
Con
l’anima piena di piaghe.
Con un aspetto tanto malconcio, da Giobbe,
tutto ulcere, non sarebbe stato facile risalire la china. Dovevo modificarlo.
Rimpastarmi, come diceva la madre mia benedetta. Liberarsi da quel laido
groviglio di tormenti. Dovevo evadere da quella nube di angoscia che mi
toglieva la visione della luce.
Ci
voleva l’abbronzatura, l’ornamento del sole che accarezza il mondo e il nostro
viso con i suoi raggi come fa Apollo quando con il plettro tocca le corde della
lira , e bisognava aggiungere la cosmesi l’altra cosmesi buona: quella dello
sport: corse, bicicletta, nuoto, e digiuni da asceta. Poi le lenti a contatto.
Dovevo ritrovare il compiacimento e l’orgoglio di me stesso, quelli che avevo
quando studiavo al Mamiani e vincevo tutte le gare scolastiche e ciclistiche.
Riprendere a primeggiare dovevo. Nello studio e nello sport. Tornare
all’accordo con la vita a essere accordato alla vita.
Dopo
il liceo infatti mi ero degradato con il cibo, con la pigrizia e con le
lamentele, querimonie plebee, anzi servili.
Poi
lo schifo degli altri, genitivo soggettivo e oggettivo, e le solitudini da
anacoreta sordido, non santo.
CONTINUA
[1]
Cfr. Iliade, XXI, 281-282
[2]
Il protagonista di Delitto e castigo
di Dostoevskiy. Ammazza due vecchie appunto.
[3] Cfr. Vittorio Alfieri, satira IV, La sesquiplebe
D'ogni Città voi la più prava
parte,
Rei disertor delle paterne
glebe,
Vi appello io dunque in mie
veraci carte,
Non Medio-ceto, no, ma
Sesqui-plebe. (vv. 31-34)
[4]
Ammiano Marcellino, Historiae, XXI,
1, ma il volo degli uccelli lo dirige Dio.
[6]
Quindi saranno I buoni successi a guidarmi (cfr. Ammiano Marcellino, Storie, XXI, 5. Parla Giuliano Augusto
[7] Cfr. Shakespeare, Hamlet
V, 2 there’s a special providence in the fall of a sparrow.
[8] Cfr. Euripide, Baccanti:
“tiv~ ojdw` ; tiv~ oJdw/` ;tiv~ ;” (v. 68), chi è per strada?, chi è per strada? Chi?
[9]
Carducci, Il comune rustico, 10-11.
[10]
Talete in Aristotele, Sull'anima, 411a 8.
[11]
P. P. Pasolini, Dialoghi definitivi di “Medea”, scena 7. In op. cit., p. 544 e p.
545.
Nessun commento:
Posta un commento