Scena bucolica dal Vergilius Romanus |
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I
due aiutanti, Cherea e Pirria, vorrebbero rimandare l'incontro ma si avvicina
il pazzo in persona, sempre gridando:
"quanto
era beato Perseo per due ragioni:
poiché
aveva le ali
e
non si incontrava nessuno di quelli che camminano per terra,
poi
perché possedeva un arnese con il quale
trasformava
in pietre tutti gli scocciatori" (153 - 157).
Si
ricorderà che Perseo aveva sandali alati e che impietrava i nemici con la testa
della Gorgone.
Cnemone
vorrebbe essere come lui:
"cosa
che vorrei capitasse
pure
a me! Non ci sarebbe niente di più abbondante
che
le statue di pietra da tutte le parti!" (157 - 159).
Il
vecchio insomma non sopporta di vedere la gente né di sentirla parlare:
"non
si può più vivere, per Asclepio.
Mettono
piede nel mio podere e fanno chiacchiere (lalou's j) " (160 - 161). La
chiacchiera è la più radicale antitesi dell’essere, delle idee, della sostanza
delle cose.
Questo
bisogno di solitudine, condannato da Omero a Menandro come disumano, più avanti,
con la degenerazione brutale dei rapporti umani, con la trasformazione delle
persone in "turba ", folla,
diventerà non solo dignitoso ma necessario.
Prendiamo
Seneca tornato dal Circo dove ha assistito a mera homicidia, omicidi veri e propri: " avarior redeo, ambitiosior, luxuriosior? immo vero crudelior et
inhumanior, quia inter homines fui ", torno a casa più avido, ambizioso,
amante del lusso? anzi più crudele e più disumano proprio perché sono stato in
mezzo agli uomini (Ep. 7, 3). Il
consiglio allora è: "recēde
in te ipse quantum potes ", rientra in te stesso quanto
puoi (7, 8).
La
posizione si radicalizza nell'incipit di un'altra lettera: “ Seneca Lucilio
suo salutem. Sic est, non muto sententiam: fuge multitudinem, fuge
paucitatem, fuge etiam unum” (Ep.
10, 1), Seneca saluta il suo Lucilio. E' così, non cambio parere, evita la
folla, evita i pochi, evita anche uno solo.
Un'eco
in Nietzsche: “c'è da dir male anche di chi soffre per la solitudine - io ho
sempre e solamente sofferto per la moltitudine”[1]. E poi:
“ogni compagnia è cattiva, ad eccezione di quella con i propri simili”[2].
In
altri tempi (1938) Pavese scrive: "Maturità è l'isolamento che basta a
se stesso" (Il mestiere di vivere,
8 dicembre). E più avanti (15 ottobre, 1940): "Ci sono servi e padroni, non
ci sono uguali. La sola regola eroica: essere soli soli soli". E infine (25
aprile 1946): "Ogni sera, finito l'ufficio, finita l'osteria, andate le
compagnie - torna la feroce gioia, il refrigerio di essere solo. E' l'unico
vero bene quotidiano". E' pur vero che questo nostro autore si uccise il
18 agosto del 1950.
Tornando
al misantropo, Cnemone vede Sostrato davanti alla porta di casa sua e invoca il
suo bene supremo:
"non
è possibile ottenere la solitudine da nessuna parte!" (ejrhmiva" oujk e[stin
oujdamou' tucei'n, v. 169). Sembra un'anticipazione del monachesimo.
L'innamorato si scusa dicendo di aspettare una
persona, ma il vecchio entra dritto in casa lamentando di sentirsi oltraggiato
(178).
Allora
Sostrato decide di chiedere aiuto a Geta,
lo schiavo di suo padre:
"egli
ha qualche cosa di infuocato (e[cei ti diavpuron) ed esperienza
di
faccende di ogni tipo" (183 - 184).
Dunque
può avere la meglio pure sul caratteraccio del misantropo. Ecco che appare uno
dei tarli di questa società urbana e cortese: gli schiavi sono più attivi e
intelligenti dei padroni i quali non vanno oltre la comprensione e le buone
maniere. Non solo manca l'antico spirito civico in tutti i personaggi di
Menandro, ma in quelli liberi anche l'intraprendenza nelle faccende che stanno
loro più a cuore: è iniziata quella paralisi della classe colta che porterà al
trionfo degli schiavi.
Nel
Satyricon leggiamo (129): " adulescens, paralysin cave ", guardati
dalla paralisi ragazzo; e poco dopo (131): "quid est - inquit - paralytice? ecquid hodie totus venisti? ",
come va - disse - paralitico? Oggi sei venuto tutto intero?
Augusto
deplora il fatto che senatori e cavalieri non si sposavano e non facevano figli
e li chiama assassini della stirpe (cfr. Cassio Dione)
Cassio Dione
racconta che Augusto nel 9 d. C. parlò agli sposati e ai celibi. Elogiò i primi,
meno numerosi, dicendo che erano cittadini benemeriti e fortunati: infatti
ottima cosa è una donna temperante, casalinga, buona amministratrice e nutrice
dei figli ("a[riston gunh; swvfrwn oijkouro; " oijkovnomo"
paidotrovfo" " (LVI, 3,
3) ed è una grande felicità lasciare il proprio patrimonio ai propri figli; inoltre
anche la comunità riceve vantaggi dal grande numero (poluplhqiva, LVI, 3, 7) di lavoratori e di soldati.
Quindi l’imperatore
parlò con parole di biasimo ai non sposati che erano molto più numerosi. Voi, disse
in sostanza, siete gli assassini delle vostre stirpi e del vostro Stato. Voi
tradite la patria rendendo deserte le case e la radete al suolo dalle fondamenta:
"a[nqrwpoi
gavr pou povli" ejstivn, ajll' oujk oijkivai oujde; stoai;
oujd j ajgorai; ajndrw'n kenaiv"
(LVI, 4, 1), gli uomini infatti in qualche misura costituiscono la città, non
le case né i portici né le piazze vuote di uomini[3].
Poi
Augusto accusò i celibi paragonandoli ai briganti e alle fiere selvatiche: voi,
disse, non è che volete vivere senza donne, visto che nessuno mangia o dorme
solo: "ajll' ejxousivan kai; uJbrivzein
kai; ajselgaivnein e[cein ejqevlete" (LVI, 4, 6 - 7), ma volete avere
la facoltà della dismisura e dell'impudenza. Infine il Princeps senatus
ammise che nel matrimonio e nella procreazione ci sono aspetti sgradevoli (ajniarav tina), ma, aggiunse,
non mancano i vantaggi. Ci sono per giunta i premi promessi dalle leggi: "kai; ta; para; tw'n
novmwn a\qla",
8, 4).
Torniamo
al Dyskolos
Si
apre la porta della casa ed entra in scena la figlia (kovrh) che
si lamenta poiché:
"la
nutrice attingendo
ha
fatto cadere la secchia nel pozzo (to; n kavdon... eij" to; frevar) "
(190 - 191).
Sostrato
è abbagliato da quella bellezza "insuperabile" e le offre aiuto; quindi
dice a se stesso, quasi sbigottito, che la fanciulla:
"ha
un'aria nobile e semplice (a[groiko", 202) rivalutando quella
rusticità (ajgroikiva) che
nel padre di lei aveva fatto tanto brutta figura.
Probabilmente
la brutta rusticità del padre era servita a concimare quel fiore.
“Angelica
era Angelica, un fiore di ragazza, una rosa cui il soprannome del nonno[4] era
servito solo da fertilizzante”[5].
Socrate
all’inizio del Fedro aveva detto che
preferiva la campagna alla città: “filomaqh; ς gavr eijmi: ta; me; n
ou\n cwriva kai; ta; devndra oujdevn m j ejqevlei didavskein, oiJ d j ejn tw̃/ a[stei a[nqrwpoi” (230D), io infatti amo imparare: i
campi e gli alberi non vogliono insegnarmi niente, gli uomini nelle città
invece sì.
Nel
secolo successivo in effetti cresce la simpatia per la rusticità.
L'uomo di cultura del III secolo vede
circonfusa di luce radiosa la vita di pastori e contadini, con tutto il
primitivo. Così Callimaco apprezza la felicità della misera capanna di Ecale, e
Aconzio cerca la solitudine in mezzo ai boschi. La natura è il paradiso perduto
dei moderni uomini civilizzati. Nelle
città si cercava l'avvicinamento alla natura con mezzi artificiali: i Tolomei fecero piantare giardini e
boschetti ad Alessandria; ad Antiochia, i Seleucidi fecero costruire
passeggiate con giochi d'acqua. Nel II d. C. Adriano farà ricostruire a Tivoli
la valle di Tempe. Ad
Alessandria fu costruita una collina artificiale e i templi si costruivano a
contatto con la natura in boschi o su promontori marini; del resto i
templi di Dodona, di Delfi, di capo Sunio erano già tali. Anche i privati si
fanno costruire case con giardini e fontane, e si fanno affrescare con paesaggi
le pareti delle case. L'arredamento è più curato rispetto all'età classica
quando interessava meno poiché si passava la vita fuori di casa. Allora la
plastica si occupava essenzialmente del corpo umano; in epoca ellenistica troviamo accenni paesaggistici anche nelle sculture,
come il Fauno Barberini (III sec. a. C.) steso su una roccia.
Enrico VI di Shakespeare dirà: “Che vita felice, se
fossi un semplice pastore!” (III, 5).
Quindi entra Davo, il servo di Gorgia, il fratellastro della kovrh, la ragazza che continueremo a chiamare
così poiché non ha nome. Questo schiavo si lamenta della povertà che coabita
"continuamente" (210) con loro.
La
povertà era diffusa nell'Attica del IV secolo: Isocrate nell'Areopagitico (del 357) denuncia la
decadenza economica di Atene: "ora sono in maggior numero i bisognosi
rispetto agli abbienti" (nu'n de; pleivou" eijsi; n oiJ spanivzonte"
tw'n ejcovntwn,
83). L'oratore indicava un rimedio nel ritorno al predominio dell'Areopago, quando
nessuno chiedeva la carità.
Menandro piuttosto nella filantropia e nei
matrimoni tra poveri e ricchi. Intanto però i diseredati cominciavano ad
agitarsi gridando: "abolizione dei debiti!" e "distribuzione
delle terre!".
Un'espressione
che si trova già nella Repubblica platonica,
del 370: "kai;
uJposhmaivnh/ crew'n te ajpokopa; " kai; gh'" ajnadasmovn"
(566a), e proclami cancellazioni di debiti e distribuzioni di terre.
Intanto
Davo vede Sostrato indaffarato per aiutare la sorella del padrone e commenta:
"che
guaio è mai questo? Non mi piace
per
niente la faccenda. Un giovane rende un servizio
alla
ragazza: non sta bene" (218 - 220).
Quindi
manda mille accidenti a Cnemone
"che ha lasciato in solitudine una
ragazza priva di malizia
senza
la sorveglianza conveniente" (222 - 223).
La
fanciulla secondo Davo è in pericolo poiché l'uomo è cacciatore e Sostrato si è
buttato sulla preda "considerandola come un tesoro" (225 - 226); quindi
corre ad avvisare il fratello.
continua
[1] Ecce homo, p. 37.
[2] Di là dal bene e dal
male, p. 50.
[3] ll problema
del calo demografico, adesso di nuovo attuale, era stato posto già nel
II secolo a. C., per il mondo ellenico, da Ocello lucano e da Polibio il quale
viceversa notava la virtù delle matrone romane. Nel libro XXXVI delle Storie viene ricordata la crisi
demografica della Grecia, una carenza di bambini e un generale calo di
popolazione ("ajpaidiva
kai; sullhvbdhn ojliganqrwpiva", XXXVI 17, 5) che hanno rese deserte le città,
senza guerre né epidemie. In questo caso non si tratta di interrogare o di
supplicare gli dèi poiché la causa del male è evidente: gli uomini hanno
cominciato ad abbandonarsi all'arroganza,
all'avarizia, alla perdita di tempo, a non volersi sposare, o se si
sposavano, a non allevare i figli, tranne uno o due per poterli lasciare nel
lusso. Basta poco dunque perché le case restino deserte, e, come succede per
uno sciame di api, così anche le città si indeboliscano. Il rimedio è evidente:
cambiare l'oggetto dei nostri desideri o fare leggi che costringano a crescere
i figli generati. Non occorrono veggenti né operatori di magie!
[4] Peppe ‘Mmerda’.
[5] Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, p. 81.
Giovanna Tocco
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