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Il
cuoco dunque, costretto a desistere, si allontana da Cnemone che non accetta
nemmeno i saluti (mh; cai're dhv, v. 513). Escono dalla scena Sicone e
Cnemone ed entra Sostrato.
Questo
si lamenta di essere tutto indolenzito per avere passato ore"sollevando
con forza la zappa, come un manovale" (527) nella speranza di essere visto
dal vecchio del quale vuole diventare genero. Ma "non veniva nessuno.
Il sole bruciava" (534 - 535). Il breve
monologo si chiude con la constatazione dell'irrazionalità dell'amore che è, come
la Sorte, tirannico e inspiegabile: "
non posso dire per gli dèi perché sono giunto
qui,
ma
questa faccenda mi ha trascinato a questo punto spontaneamente (Jve{lkei dev m j
aujtovmaton to; pra'gm j eij" to; n tovpon"543 - 545).
Poi entra Geta, il servo dei genitori di
Sostrato, affaccendato nella preparazione del banchetto sacrificale, e il
giovin signore pensa di invitare Gorgia con il suo servo per renderseli ancora
più alleati. Quindi invoca Pan promettendogli:
"ti
rivolgerò sempre una preghiera passandoti
vicino
e ti tratterò sempre con amicizia" (filanqrwpeuvsomai, vv. 571 - 572).
L'uomo greco cerca un rapporto personale con
il dio cui chiede aiuto come a un amico. Lo vediamo meglio nell'inno di Saffo
ad Afrodite.
Quindi
Sostrato esce ed entra Simiche, la serva di Cnemone, la quale si lamenta poiché
le è caduta un'anfora nel pozzo e per giunta la zappa con la quale cercava di
tirarla su. Cnemone se n'è accorto ed entra infuriato: vorrebbe legare la
vecchia e calarla giù (590).
Geta
che ha assistito alla scenata, appena il vecchio e la serva escono, ha parole
di commiserazione:
"disgraziato!
Che razza di vita conduce!
è
il vero contadino attico:
combatte
con le pietre le quali producono solo timo e salvia
e
non ne tira fuori che tribolazioni" (602 - 606).
Il
terzo atto si chiude con il rientro di Davo e Sostrato che trascina Gorgia, riluttante,
al banchetto.
All'inizio
del Quarto atto (620 - 783) l'allarme: Simiche annuncia il fatto che porta al
ravvedimento del vecchio: "il padrone è finito nel pozzo!" (oJ despovth" ejn
tw'/ frevati,
v. 624). Gli è successo "nel tentativo di tirare fuori la zappa e
l'anfora" (626). Il cuoco esulta per la caduta del "terribile
vecchio" (628), e anzi consiglia alla vecchia di tirargli sopra "una
macina o una pietra o qualcosa del genere" (631). Simiche chiede aiuto a
Gorgia e allo stesso cuoco il quale invece continua a manifestare soddisfazione
per la disgrazia del Duvskoloς, al
punto di riconoscere in essa un segno della giustizia divina:
"Gli
dèi esistono per Dioniso. Tu non mi dai
il
lebète per il sacrificio, razza di sacrilego,
ma
lo trattieni: allora bevi l'acqua del pozzo dove sei caduto" (639 - 641). Sono
state le Ninfe, aggiunge, a fare la mia vendetta. Sicone conclude il suo
tripudio augurando al misantropo di restare zoppo, così non potrà più
ostacolare i sacrifici per i quali i devoti ghiottoni ingaggiano i cuochi. Poi
entra Sostrato e racconta come si è svolto il salvataggio di Cnemone: la figlia
"si strappava i capelli, piangeva, si batteva il petto con forza" (673
- 674); lui, l'innamorato, poco si curava del vecchio, e mentre tirava
malvolentieri la corda, guardava la ragazza e la pregava
"di
non fare così, fissandola come se fosse una statua, e non dozzinale" (677).
La
donna che ci colpisce incarna delle quintessenze per noi fondamentali, come
l’opera d’arte che ci piace.
La
contemplazione della sua bella anzi per poco non costava la vita al vecchio
poiché Sostrato, incantato dalla splendidissima, stava per lasciare la corda, ma
" quell' Atlante di Gorgia,
non
era lì per caso e teneva duro e con molti sforzi e alla fine
lo
ha tirato su" (683 - 685).
Insomma
dalla scena descritta emergono la solidarietà e la generosità del figliastro
verso il quale il patrigno presumibilmente non è mai stato prodigo di niente. Quindi
i due, il salvato e il salvatore, entrano. Seguono alcuni versi che contengono
la morale del dramma. Gorgia sottolinea il male insito nella solitudine (694) e
Cnemone, ammansito, chiede la presenza della moglie; quindi Gorgia ripropone la
saggezza delfica del nesso sofferenza - comprensione:
"Solo
le disgrazie possono educarci, a quanto sembra" (ta; kaka; paideuvein
movna ejpivstaq j hJma'" wJ" e[oike, v. 699).
Abbiamo
già detto che la formulazione più sintetica di questa legge pedagogica e morale
si trova nell'Agamennone di Eschilo (v.
177); ora vogliamo fornirne un'espressione di Erodoto, il prossimo autore che
affronteremo: Creso, uno dei suoi personaggi più noti, ammonisce Ciro dicendo: "le
mie sofferenze, in sé spiacevoli, sono diventate insegnamenti" (I, 207).
Quindi
Cnemone dichiara che cosa ha imparato dalla disgrazia (713 - 735):
"In
una cosa probabilmente ho sbagliato, io che credevo
di
essere un autosufficiente (aujtavrkh") e di non avere bisogno di nessuno.
Ma
ora che ho visto la fine della vita, rapida,
imprevedibile,
ho scoperto che non capivo bene allora.
Infatti
deve sempre esserci, ed essere vicino uno che ti possa aiutare.
Ma
per Efesto sono stato così guastato io
vedendo
il modo di vivere di ciascuno e i loro calcoli (tou; " logismouv")
e
l'attenzione che hanno per il profitto (pro; " to; kerdaivnein). Non
avrei pensato
che
ci fosse tra tutti uno che fosse benevolo a un altro. Questo mi inceppava il
cammino. Il solo Gorgia con fatica
mi
ha dato una prova compiendo un'azione da uomo nobilissimo: infatti ha salvato
me che non lo lasciavo
nemmeno
avvicinare alla porta, nè lo aiutavo mai in alcun modo,
né
gli rivolgevo la parola, né rispondevo con gentilezza.
Un
altro avrebbe detto: "non mi lasci avvicinare?
io
non ci vengo; tu non mi hai mai fatto un piacere?
neanche
io a te". Che c'è ragazzo? Se io
muoio
ora - e lo credo tanto sto male -
e
pure se sopravvivo, ti adotto come figlio, e quello che ho,
consideralo
tutto tuo. Questa ragazza la affido a te:
procurale
un marito. Io anche se fossi del tutto sano
non
potrei trovarglielo: infatti nessuno mi piacerebbe mai.
Quanto
a me, se vivo, lasciate che viva come voglio (zh'n eja'q j wJ" bouvlomai) ".
“La
debolezza umana deve ricorrere al soccorso: questo aveva detto Teseo a Eracle, in
Euripide. Ma il dyskolos non capisce
ancora che occorre essere legati agli altri uomini. Non si parla dell’amicizia,
come faceva Teseo. In parte rimedia la fine del quinto atto: con scherzi
pesanti il cuoco e lo schiavo lo inducono a partecipare alle nozze del
figliastro e alla festa campestre nel santuario di Pan”[1].
Il
vecchio dunque ha compreso e concede e chiede quella tolleranza che negava
quando era nell'errore: un percorso paradigmatico invero che, come quelli della
tragedia, poteva costituire un esempio per gli spettatori affinché si
liberassero da tale difetto, e può insegnare ancora qualcosa a tutti noi.
Le
ultime parole di Cnemone indicano l'esemplarità anche del suo tenore di vita
modesto:
"se
tutti fossero tali, non ci sarebbero tribunali
né
la gente si trascinerebbe nelle prigioni,
né
ci sarebbe la guerra, e ciascuno si accontenterebbe pur avendo poco.
Ma
se vi piace più questo modo di vivere, fate così.
Il
vecchio duro, intrattabile (duvskolo") se ne starà fuori dai piedi (ejkpodw; n uJmi'n oJ
calepo; " duvskolov" t j e[stai gevrwn) "
(vv. 743 - 747).
Ecco dunque il
significato del Misantropo: un
messaggio contro il rifiuto dell'umanità altrui, un invito alla riflessione e
alla comprensione nei confronti del prossimo. Non ha torto C. Del Grande quando
afferma (in Tragw/diva) che i poeti della Commedia nuova accolgono la
linea euripidea non solo nell'attenuare la tradizione eroica, sostituendo o
trasformando i grandi personaggi del mito in piccole persone qualsiasi, ma
anche nel mantenere la sostanza esemplare del dramma. Infatti la commedia di
Menandro continua ad essere, usando la definizione che dà Aristotele della
tragedia (Poetica, 1449b): "mivmhsi"
pravxew" spoudaiva"",
imitazione di un'azione seria. Il poeta insomma, messi da parte gli eroi del
mito, ne crea altri più umani in aderenza a ideali di umanità e giustizia
concordemente affermati da cinici, stoici ed epicurei. L'arte allora, oltre
essere imitazione della vita, ne è anche modello. Nel Duvskolo" dunque torna la vecchia traccia esiodea
ripresa da Solone, dai tragici e da tutta la letteratura non soggetta a
influenze sofistiche: "soffrendo anche lo stolto impara" (Esiodo, Opere, 218).
Gorgia chiede a Cnemone se può presentargli un
pretendente della figliola; il vecchio acconsente e, come vede Sostrato esclama
e domanda:
" Com’è bruciato
dal sole! E' un contadino? " (754).
Gorgia asseconda il desiderio del patrigno:
"Certo, padre.
Non è uno da lussi
né un tipo da andare a spasso senza fare niente tutto il giorno" (755). A
questo punto Cnemone lascia i pieni poteri al figliastro il quale dice a
Sostrato che è necessario anche il consenso del padre suo. Il giovane ricco
assicura:
"mio padre non
avrà nulla in contrario" (762).
Allora Gorgia dà il
suo benestare: il carattere di Sostrato è approvato poiché la ricchezza non gli
ha fatto perdere il senso della misura e dei limiti umani:
"pur essendo
abituato al lusso, hai preso la zappa, hai scavato, ha voluto faticare" (766
- 767). Sostrato dunque non ha avuto bisogno di un rovescio di fortuna, come
Creso, per mettersi nei panni di un povero e prepararsi ad affrontare eventuali
cadute.
Quindi entra
Callippide, il padre di Sostrato, noto a Gorgia come:
"un uomo ricco
e giusto; un coltivatore infaticabile" (775).
continua
Giovanna Tocco
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