NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

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mercoledì 17 febbraio 2016

La commedia nuova. Menandro. VIII parte

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Il cuoco dunque, costretto a desistere, si allontana da Cnemone che non accetta nemmeno i saluti (mh; cai're dhv, v. 513). Escono dalla scena Sicone e Cnemone ed entra Sostrato.
Questo si lamenta di essere tutto indolenzito per avere passato ore"sollevando con forza la zappa, come un manovale" (527) nella speranza di essere visto dal vecchio del quale vuole diventare genero. Ma "non veniva nessuno.
 Il sole bruciava" (534 - 535). Il breve monologo si chiude con la constatazione dell'irrazionalità dell'amore che è, come la Sorte, tirannico e inspiegabile: "
 non posso dire per gli dèi perché sono giunto qui,
ma questa faccenda mi ha trascinato a questo punto spontaneamente (Jve{lkei dev m j aujtovmaton to; pra'gm j eij" to; n tovpon"543 - 545).
 Poi entra Geta, il servo dei genitori di Sostrato, affaccendato nella preparazione del banchetto sacrificale, e il giovin signore pensa di invitare Gorgia con il suo servo per renderseli ancora più alleati. Quindi invoca Pan promettendogli:
"ti rivolgerò sempre una preghiera passandoti
vicino e ti tratterò sempre con amicizia" (filanqrwpeuvsomai, vv. 571 - 572).
 L'uomo greco cerca un rapporto personale con il dio cui chiede aiuto come a un amico. Lo vediamo meglio nell'inno di Saffo ad Afrodite.
Quindi Sostrato esce ed entra Simiche, la serva di Cnemone, la quale si lamenta poiché le è caduta un'anfora nel pozzo e per giunta la zappa con la quale cercava di tirarla su. Cnemone se n'è accorto ed entra infuriato: vorrebbe legare la vecchia e calarla giù (590).
Geta che ha assistito alla scenata, appena il vecchio e la serva escono, ha parole di commiserazione:
"disgraziato! Che razza di vita conduce!
è il vero contadino attico:
combatte con le pietre le quali producono solo timo e salvia
e non ne tira fuori che tribolazioni" (602 - 606).
Il terzo atto si chiude con il rientro di Davo e Sostrato che trascina Gorgia, riluttante, al banchetto.

All'inizio del Quarto atto (620 - 783) l'allarme: Simiche annuncia il fatto che porta al ravvedimento del vecchio: "il padrone è finito nel pozzo!" (oJ despovth" ejn tw'/ frevati, v. 624). Gli è successo "nel tentativo di tirare fuori la zappa e l'anfora" (626). Il cuoco esulta per la caduta del "terribile vecchio" (628), e anzi consiglia alla vecchia di tirargli sopra "una macina o una pietra o qualcosa del genere" (631). Simiche chiede aiuto a Gorgia e allo stesso cuoco il quale invece continua a manifestare soddisfazione per la disgrazia del Duvskoloς, al punto di riconoscere in essa un segno della giustizia divina:
"Gli dèi esistono per Dioniso. Tu non mi dai
il lebète per il sacrificio, razza di sacrilego,
ma lo trattieni: allora bevi l'acqua del pozzo dove sei caduto" (639 - 641). Sono state le Ninfe, aggiunge, a fare la mia vendetta. Sicone conclude il suo tripudio augurando al misantropo di restare zoppo, così non potrà più ostacolare i sacrifici per i quali i devoti ghiottoni ingaggiano i cuochi. Poi entra Sostrato e racconta come si è svolto il salvataggio di Cnemone: la figlia "si strappava i capelli, piangeva, si batteva il petto con forza" (673 - 674); lui, l'innamorato, poco si curava del vecchio, e mentre tirava malvolentieri la corda, guardava la ragazza e la pregava
"di non fare così, fissandola come se fosse una statua, e non dozzinale" (677).
La donna che ci colpisce incarna delle quintessenze per noi fondamentali, come l’opera d’arte che ci piace.
La contemplazione della sua bella anzi per poco non costava la vita al vecchio poiché Sostrato, incantato dalla splendidissima, stava per lasciare la corda, ma
 " quell' Atlante di Gorgia,
non era lì per caso e teneva duro e con molti sforzi e alla fine
lo ha tirato su" (683 - 685).
Insomma dalla scena descritta emergono la solidarietà e la generosità del figliastro verso il quale il patrigno presumibilmente non è mai stato prodigo di niente. Quindi i due, il salvato e il salvatore, entrano. Seguono alcuni versi che contengono la morale del dramma. Gorgia sottolinea il male insito nella solitudine (694) e Cnemone, ammansito, chiede la presenza della moglie; quindi Gorgia ripropone la saggezza delfica del nesso sofferenza - comprensione:
"Solo le disgrazie possono educarci, a quanto sembra" (ta; kaka; paideuvein movna ejpivstaq j hJma'" wJ" e[oike, v. 699).

Abbiamo già detto che la formulazione più sintetica di questa legge pedagogica e morale si trova nell'Agamennone di Eschilo (v. 177); ora vogliamo fornirne un'espressione di Erodoto, il prossimo autore che affronteremo: Creso, uno dei suoi personaggi più noti, ammonisce Ciro dicendo: "le mie sofferenze, in sé spiacevoli, sono diventate insegnamenti" (I, 207).

Quindi Cnemone dichiara che cosa ha imparato dalla disgrazia (713 - 735):
"In una cosa probabilmente ho sbagliato, io che credevo
di essere un autosufficiente (aujtavrkh") e di non avere bisogno di nessuno.
Ma ora che ho visto la fine della vita, rapida,
imprevedibile, ho scoperto che non capivo bene allora.
Infatti deve sempre esserci, ed essere vicino uno che ti possa aiutare.
Ma per Efesto sono stato così guastato io
vedendo il modo di vivere di ciascuno e i loro calcoli (tou; " logismouv")
e l'attenzione che hanno per il profitto (pro; " to; kerdaivnein). Non avrei pensato
che ci fosse tra tutti uno che fosse benevolo a un altro. Questo mi inceppava il cammino. Il solo Gorgia con fatica
mi ha dato una prova compiendo un'azione da uomo nobilissimo: infatti ha salvato me che non lo lasciavo
nemmeno avvicinare alla porta, nè lo aiutavo mai in alcun modo,
né gli rivolgevo la parola, né rispondevo con gentilezza.
Un altro avrebbe detto: "non mi lasci avvicinare?
io non ci vengo; tu non mi hai mai fatto un piacere?
neanche io a te". Che c'è ragazzo? Se io
muoio ora - e lo credo tanto sto male -
e pure se sopravvivo, ti adotto come figlio, e quello che ho,
consideralo tutto tuo. Questa ragazza la affido a te:
procurale un marito. Io anche se fossi del tutto sano
non potrei trovarglielo: infatti nessuno mi piacerebbe mai.
Quanto a me, se vivo, lasciate che viva come voglio (zh'n eja'q j wJ" bouvlomai) ".

“La debolezza umana deve ricorrere al soccorso: questo aveva detto Teseo a Eracle, in Euripide. Ma il dyskolos non capisce ancora che occorre essere legati agli altri uomini. Non si parla dell’amicizia, come faceva Teseo. In parte rimedia la fine del quinto atto: con scherzi pesanti il cuoco e lo schiavo lo inducono a partecipare alle nozze del figliastro e alla festa campestre nel santuario di Pan”[1].
Il vecchio dunque ha compreso e concede e chiede quella tolleranza che negava quando era nell'errore: un percorso paradigmatico invero che, come quelli della tragedia, poteva costituire un esempio per gli spettatori affinché si liberassero da tale difetto, e può insegnare ancora qualcosa a tutti noi.

Le ultime parole di Cnemone indicano l'esemplarità anche del suo tenore di vita modesto:
"se tutti fossero tali, non ci sarebbero tribunali
né la gente si trascinerebbe nelle prigioni,
né ci sarebbe la guerra, e ciascuno si accontenterebbe pur avendo poco.
Ma se vi piace più questo modo di vivere, fate così.
Il vecchio duro, intrattabile (duvskolo") se ne starà fuori dai piedi (ejkpodw; n uJmi'n oJ calepo; " duvskolov" t j e[stai gevrwn) " (vv. 743 - 747).

Ecco dunque il significato del Misantropo: un messaggio contro il rifiuto dell'umanità altrui, un invito alla riflessione e alla comprensione nei confronti del prossimo. Non ha torto C. Del Grande quando afferma (in Tragw/diva) che i poeti della Commedia nuova accolgono la linea euripidea non solo nell'attenuare la tradizione eroica, sostituendo o trasformando i grandi personaggi del mito in piccole persone qualsiasi, ma anche nel mantenere la sostanza esemplare del dramma. Infatti la commedia di Menandro continua ad essere, usando la definizione che dà Aristotele della tragedia (Poetica, 1449b): "mivmhsi" pravxew" spoudaiva"", imitazione di un'azione seria. Il poeta insomma, messi da parte gli eroi del mito, ne crea altri più umani in aderenza a ideali di umanità e giustizia concordemente affermati da cinici, stoici ed epicurei. L'arte allora, oltre essere imitazione della vita, ne è anche modello. Nel Duvskolo" dunque torna la vecchia traccia esiodea ripresa da Solone, dai tragici e da tutta la letteratura non soggetta a influenze sofistiche: "soffrendo anche lo stolto impara" (Esiodo, Opere, 218).

 Gorgia chiede a Cnemone se può presentargli un pretendente della figliola; il vecchio acconsente e, come vede Sostrato esclama e domanda:
" Com’è bruciato dal sole! E' un contadino? " (754).
 Gorgia asseconda il desiderio del patrigno:
"Certo, padre.
Non è uno da lussi né un tipo da andare a spasso senza fare niente tutto il giorno" (755). A questo punto Cnemone lascia i pieni poteri al figliastro il quale dice a Sostrato che è necessario anche il consenso del padre suo. Il giovane ricco assicura:
"mio padre non avrà nulla in contrario" (762).
Allora Gorgia dà il suo benestare: il carattere di Sostrato è approvato poiché la ricchezza non gli ha fatto perdere il senso della misura e dei limiti umani:
"pur essendo abituato al lusso, hai preso la zappa, hai scavato, ha voluto faticare" (766 - 767). Sostrato dunque non ha avuto bisogno di un rovescio di fortuna, come Creso, per mettersi nei panni di un povero e prepararsi ad affrontare eventuali cadute.
Quindi entra Callippide, il padre di Sostrato, noto a Gorgia come:
"un uomo ricco e giusto; un coltivatore infaticabile" (775).


continua



[1] B. Snell, Poesia e società, p. 153. 

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