Menandro in un affresco di Pompei |
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Cnemone
dunque conserva alcune idee e precetti della tradizione poetica: in questa sua
posizione infatti si trova il motto esiodeo che non il lavoro è vergogna, ma
l'ozio, e anche il "lavoratore
in proprio" dell'Oreste di Euripide, uno di
quelli che soli salvano la terra (v.
920). Oltretutto il vocabolo usato per indicare chi lavora con le sue mani è il
medesimo nei due testi drammatici (aujtourgov").
Sostrato
è disposto a tutto pur di raggiungere il suo scopo: anche a travestirsi da
contadino:
"procurami
una zappa a due punte" (374) chiede a Davo, e quando questo gliela porge, lo
ringrazia con un'espressione iperbolica:
"dammela,
tu mi salvi la vita" (377).
Oramai
tutti gli interessi del giovane scioperato sono concentrati sulla fanciulla:
"sono
messo così: a questo punto devo morire
oppure
vivere con la ragazza" (378 - 379).
Attraverso
queste parole vediamo quanto si sia chiuso nel privato l'uomo ateniese rispetto
all'epoca classica quando l'interesse principale era la polis con le assemblee, i riti religiosi e tutte le manifestazioni
pubbliche.
Segue
un breve monologo di Sostrato che elogia l'educazione presumibilmente ricevuta
da quella creatura innocente:
"Se
questa ragazza non è stata educata tra
le
donne e non conosce nessuno di questi mali
nella
vita e non è stata terrorizzata da qualche
zia
e balia ma è venuta su liberamente
con
questo padre selvaggio che odia il male,
come
potrebbe non essere la mia felicità unire la mia sorte alla sua"? (384 - 389).
Qui
troviamo un ricordo euripideo (la donna non deve stare tra le donne poiché si
insegnano le male arti a vicenda, cfr. Andromaca
vv. 930 e sgg.) e anche un apprezzamento dello stile rustico, lontano dai
formalismi e dalle falsità di quello cittadino.
Intanto
i servi di Sostrato preparano il sacrificio ordinato dalla padrona dopo che ha
fatto un brutto sogno: ha visto il figlio che, per volontà del dio Pan, zappava
con dei ceppi ai piedi.
Dopo
l'intermezzo corale (Corou') comincia il Terzo Atto (427 - 619).
Cnemone
esce di casa ordinando alla vecchia serva di chiudere la porta e di non aprire
a nessuno finché non sia tornato:
"grau', th; n quvran
kleivsa" j a[noige mhdeniv,
e{w"
a]n e[lqw deu'r j ejgw; palin" (427 - 428).
Questi
versi sono indicati quali modello indiretto di quanto dice Euclione, l'avaro
protagonista dell'Aulularia di Plauto
alla vecchia Stafila:
"Abi intro, occlude ianuam; iam ego hic ero.
Cave
quemquam alienum in aedis intromiseris " (89 - 90), vai dentro, chiudi
la porta; io sarò qui a momenti. Bada di non lasciar entrare nessun estraneo in
casa.
Non bisogna dimenticare però che mentre
Euclione è essenzialmente un tirchio, Cnemone è un asociale.
Quindi il misantropo si imbatte nel corteo
guidato dalla madre di Sostrato. Al vecchio naturalmente la visione della gente
dà fastidio:
"Che
cosa vuol dire questo malanno?
Una
folla (o[clo" ti"). Vai in malora!" (431 - 432).
La madre di Sostrato e il servo Geta si
scambiano battute sulla preparazione del sacrificio quindi entrano nel ninfeo, un
sacrario delle ninfe che Cnemone aborrisce poiché attira processioni intere di
seccatori:
"Maledetti,
possiate morire male! Mi fanno perdere
tempo:
infatti non posso lasciare incustodita
la
mia abitazione. Queste ninfe vicine di casa per me sono
una
disgrazia" (442 - 445).
Del
resto quei molesti, secondo Cnemne, non sono veri devoti ma bigotti ghiotti:
"come sacrificano questi mascalzoni:
portano
canestri, brocche, non per gli dèi
ma
per sé. L'incenso è cosa pia
e
la focaccia: questo prende il dio sul fuoco
messo
tutto lì sopra. Questi invece mettendo lì
per
gli dèi la punta dei lombi
e
la bile, che sono immangiabili,
ingoiano
il resto per loro" (447 - 453).
E'
questo un attacco, probabilmente di Menandro stesso, contro gli sprechi cui
portano la superstizione e la volontà di apparire. A questo proposito Teofrasto
scrisse un trattato Peri; eujsebeiva", Sulla
devozione dove diceva che gli uomini non devono astenersi dai sacrifici ma
neanche fare sacrifici cattivi: non è pio sacrificare animali bensì offrire
erbe, fiori, focacce. Anche questa prescrizione è in sintonia con le leggi
suntuarie di Demetrio del Falero, l'abile finanziere che voleva limitare gli
sprechi e le ostentazioni di ricchezza.
Poi
Geta si accorge che è stato dimenticato il lebète, la caldaia per cuocere la
carne, e bussa a casa di Cnemone per farselo prestare; ma il vecchio arriva di
corsa gridando:
"perché
tocchi la mia porta, disgraziatissimo? Dimmelo uomo!" (466). "Non
mordere!" prova a difendersi Geta, ma il vecchio iracondo ribatte: "io
per Zeus ti mangio vivo!" (467).
Geta spiega che vuole solo un lebete, ma il
nome di questo arnese per l'arrabbiato è quasi oltraggioso:
"mascalzone,
pensi che io faccia come voi
che sacrificate bovi? " (473 - 474).
Lo
schiavo gli risponde a tono:
"nemmeno
una chiocciola, credo (oujde; koclivan e[gwgev se).
Buona
fortuna, persona per bene. Di bussare alla porta
me
lo hanno ordinato le donne perché te lo chiedessi.
L'ho
fatto: non c'è; lo riferisco
tornato
da quelle. O dèi venerati!
E'
una vipera quest'uomo canuto!" (e[ci" polio; " a[nqrwpov" ejstin
ouJtosiv,
475 - 480).
Poi
si allontana mentre l’uomo canuto inveisce:
"Belve
assassine! Bussano qui senza complimenti
come
da un amico! Se prendo uno di voi che
si
avvicina alla mia porta, pensate di vedere
in
me uno dei tanti (nomivzeq j e{na tina; oJra'n me tw'n pollw'n). "
(481 - 485).
Questo è uno dei peccati di Cnemone: volere
essere uno straordinario. E' uJvbri". Nel prologo della Samìa il protagonista giovane, Moschione, si presenta come uno dei
tanti ("tw'n
pollw'n ti" w[n" v. 11).
Opportunamente:
infatti per le creature di Menandro deve valere la preghiera delle Baccanti di Euripide: "
tenere
lontana la mente e saggia l'anima
dagli
uomini straordinari:
ciò
che la folla più semplice
crede
e pratica,
questo
io vorrei accettare" (vv. 427 - 432). Un altro che non vorrebbe essere uno
dei tanti e finisce per cadere al di sotto della media è Oblomov di Goncarov: quando il servo Zachàr gli dice: "io
pensavo che gli altri non sono peggio di noi e cambiano casa.. ", l'abulico
padrone gli risponde irato: "Gli altri non sono peggio - ripetè con orrore
- Ilià Ilìc' -. Ecco cosa sei arrivato a dire! Adesso lo so che sono per te un
qualunque altro ! (p. 124).
Poi
entra in scena il cuoco Sicone per ritentare la prova con il vecchio: intanto
espone la sua teoria secondo la quale per ottenere qualche cosa bisogna
lusingare:
"deve
essere adulatorio
quello
che chiede qualche cosa. Un vecchio risponde
alla porta: subito dico padre e babbo.
Una
vecchia, madre. Se è una donna di mezza età,
la chiamo sacerdotessa. Se è un servo, carissimo"
(492 - 497).
In
quel momento entra Cnemone e il lusingatore gli fa:
"o
babbino, cercavo proprio te" (498).
“Per
Menandro l’umanità sta nell’amicizia e nella simpatia; la comprensione per gli
altri uomini è la virtù delle sue figure, la virtù che lo stesso poeta Menandro
dimostra nei confronti dei suoi personaggi”[1].
Adulare
è la degenerazione di quella amicizia e simpatia che gli uomini dovrebbero
avere tra loro, di quell'avvicinarsi psicologicamente al prossimo che, secondo
Menandro, è la base della moralità.
Del
resto la lusinga come mezzo di corruzione è teorizzata da quel "vecchio
libertino incancrenito" (p. 545) di Svidrigàjlov in Delitto e castigo: "finalmente feci ricorso al mezzo supremo e
infallibile per soggiogare il cuore femminile, il mezzo che non fallisce mai e
agisce decisamente su tutte le donne, senza eccezione. E' un mezzo ben
conosciuto: l'adulazione... Con l'adulazione si può sedurre perfino una
vestale" (p. 538).
Ma
Cnemone non è una vestale e non si lascia sedurre. Anzi picchia Sicone e grida:
"Io
non ho
pentola,
né scure, né sale
né
aceto né niente, ma l'ho detto in poche parole
a
tutti quelli del luogo di non venire da me" (505 - 508).
Nei
Buddenbrook di T. Mann si trova un
personaggio del genere, rappresentante di un'aristocrazia incapace di adattarsi
al mondo borghese dei commerci e per tanti versi vicina alla cultura dei
contadini: "aveva esposto per parecchio tempo sull'umile porta di casa un
cartello che diceva: 'qui abita il
conte Mölln. E' solo, non ha bisogno di nulla, non compera nulla e non
ha niente da regalare. Quando il cartello ebbe fatto il suo effetto e nessuno
venne più a importunarlo, il conte l'aveva tolto" (p. 331).
Di
solito però questi versi sono messi in relazione con i versi 9O - 93 dell'Aulularia di Plauto:
"quod quispiam ignem quaerat, extingui volo,
ne
causae quid sit quod te quisquam quaeritet.
Nam si
ignis vivet, tu extinguēre extempulo ",
quanto al fatto che qualcuno chieda il fuoco, voglio che sia spento, perché non
ci sia ragione di venire a chiederlo. Infatti se il fuoco vivrà, tu ti
spengerai subito.
Ma, ripetiamo, Euclione teme di essere derubato della pentola auri plena, Cnemone della sua solitudine.
continua
Giovanna Tocco
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